La Sagra del Fungo Cardoncello del 13 e 14 novembre, la XII edizione della Borsa Mediterranea del Turismo Archeologico tenutasi a Paestum dal 19 al 22 novembre, la Banda di Ruvo con Pino Minafra ed il M° Michele Di Puppo a Bari al Kursaal Santa Lucia, il 24 novembre, dove è stato presentato il nuovo CD edito dall’etichetta bavarese Enja di Matthias Winckelman, come il precedente lavoro intitolato “La Banda”.
La Pro Loco di Ruvo di Puglia ha organizzato egregiamente la sagra, che ha avuto un’affluenza record di visitatori, e ha partecipato alla Borsa Mediterranea di Paestum per ribadire che essa vuole continuare ad essere portatrice di quelle tradizioni e di quei valori su cui Ruvo si è fondata e tuttora si fonda, nonostante siano palpabili i sintomi della stanchezza e dell’apatia che attraversano la politica, l’economia, il commercio, la cultura, la società. È come se fosse venuto meno il collante della speranza in un riscatto ed in un nuovo inizio. Le società diventano comunità se questo collante regge e si consolida. Quando si allenta, le comunità fanno retromarcia, scendono di un gradino, diventano società, cioè aggregato di uomini e donne che vivono in un luogo senza sentire di appartenervi, senza prendere parte alle decisioni circa il futuro del paese. Non percepiscono cosa sia il bene comune. Seguono le regole, le tradizioni, i regolamenti e quant’altro perché, in un certo senso, vi sono costretti. In verità, dall’idea appena delineata di società si può ulteriormente regredire di uno scalino, e ci si può trasformare in aggregato di uomini e donne, che si ha nel momento in cui il senso di non appartenenza assume aspetti quasi violenti di rifiuto delle regole e delle consuetudini, l’individualismo personale e/o corporativo prende piede, la politica non è più in grado di amministrare con lungimiranza e non si occupa neppure dell’ordinaria amministrazione, ciascuno cerca di farsi strada passando finanche sul cadavere dei propri cari. Uno scenario apocalittico? Assolutamente no, basterebbe analizzare le crisi delle società complesse, soprattutto in quest’epoca di profondo disagio morale e di difficoltà economica globale. L’alternativa alle situazioni di degrado, anche in funzione preventiva, è la cultura, che sia povera o raffinata poco importa. Cultura come sapere, conoscenza utile al farsi delle comunità e alla crescita personale, inaugurando il circuito virtuoso che va dal singolo alla comunità e viceversa. Cultura come rispetto dell’esistente e immaginazione di alternative di sviluppo, come combinazione sapiente di tradizioni e novità di qualità da esportare in funzione del richiamo e dell’attrattiva turistica. È risaputo che non ogni novità che viene proposta ed ottiene cospicui finanziamenti sia una bella novità, cioè sia utile a quel processo di crescita e sviluppo di cui ho detto. Quante pessime novità sono state spacciate come eventi? Parecchie, con spreco di denaro pubblico e nessun beneficio per il cuore e la mente, per il commercio ed il turismo.
Il 19 giugno 2009 la Banda di Ruvo di Puglia ebbe un enorme successo in Francia, al festival di Saint Denis a Parigi. Le musiche della Settimana Santa e quelle di Nino Rota si fusero e diedero vita ad un evento significativo che riscosse successo di pubblico e di critica. La Pro Loco svolse anche a Parigi un’importante funzione di promozione del nostro territorio e delle nostre tradizioni, avvalendosi di un’opportunità di prestigio che assai di rado si verifica.
Il Talos Festival è morto e sepolto, è ormai un ricordo. L’ex convento dei Domenicani è una cattedrale nel deserto. La scuola di musica comunale, che ha sfornato centinaia di bravi musicisti, è stata chiusa. Ci sono miriadi di associazioni culturali e musicali che però non fanno sistema, che si fanno concorrenza leale e sleale, che lottano per ritagliarsi qualche piccolo spazio di notorietà ed ottenere il patrocinio economico del Comune. Bande musicali che diventano bande di soggetti in conflitto fra di loro. Questa frammentazione non giova al paese né al progetto comunitario. Questo individualismo associativo - un ossimoro, una contraddizione in termini, a ben vedere – non porta ossigeno ai polmoni di Ruvo. Occorrerebbe superare la fase infantile dell’egoismo – perché, in fondo, di questo si tratta – ed immaginare di fare un bel tratto di strada insieme, valorizzando le specificità e le esperienze di tutti, senza far sfoggio di intolleranza e primazie.
Non si tratta di abdicare a sé, ma di ritrovarsi in un progetto più ampio, più a misura d’uomo, che è essere in relazione con altri uomini per un fine educativo e morale alto: dare alle nuove generazioni motivi di speranza, affidare loro un organismo vivente, non un paziente in coma.
Salvatore Bernocco
da IL RUBASTINO, Dicembre 2010, Copyright
domenica 26 dicembre 2010
LA COMMEDIA DEGLI EQUIVOCI
Il grande drammaturgo e poeta inglese William Shakespeare scrisse tra il 1589 e il 1594 “La commedia degli errori” (The Comedy of Errors), o “La commedia degli equivoci”. Fu una delle sue prime commedie. Essa ha una connotazione farsesca e comica, laddove il lato comico è dato dallo "slapstick", cioè da scherzi maneschi o grossolani, e dallo scambio d'identità, in aggiunta ai giochi di parole e alle cosiddette paronomasie, cioè ai bisticci di parole.
Pur essendo passata molta acqua sotto i ponti della Storia e delle storie, questa commedia va in scena quotidianamente, forse perché la vita stessa è intessuta di equivoci o di errori più o meno madornali. Ed è attuale nella politica locale, dove gli equivoci si sommano alle incomprensioni, ai deliri ed alle fantasie, dando luogo ad una mistura molto pericolosa e dannosa per la politica medesima, tanto a destra quanto a sinistra.
Non so bene come stiano le cose, ma pare che l’occhio della magistratura sia caduto sulla questione dei comparti. I giudici voglio vederci chiaro, ma su quali aspetti non è dato sapere. Ed ecco che pian piano prende corpo un atto della suddetta commedia, e si fa strada l’ipotesi che ci sia stato un complotto ordito da settori della maggioranza che amministra la città per colpire soggetti della maggioranza medesima. In altre parole nelle file della maggioranza si aggirerebbe un traditore, un golpista. Vero? Falso? Chissà! Quando si solleva un polverone è difficile orientarsi e capirci qualcosa, se ci sia stato un equivoco o un errore amministrativo oppure no, tale da giustificare l’intervento della magistratura e l’acquisizione degli atti inerenti ai comparti, croce e delizia della politica locale da moltissimi anni.
Com’è ovvio che sia, ci si interpella sull’eminenza grigia dell’operazione, e, fra il serio ed il faceto, spuntano nomi più o meno noti, e si fanno illazioni che attengono agli equilibri interni ai partiti. Giochi altamente pericolosi, se così fosse. Manovre che delegittimerebbero la politica locale, che già non se la passa molto bene, a pochi mesi dalle amministrative della prossima primavera, quando saremo chiamati ad eleggere sindaco e consiglio comunale in un clima, si spera, sereno e con piena avvertenza circa uomini, squadre, programmi per il futuro della città. In questo senso, le danze sono state iniziate dal movimento/partito che sostiene la candidatura del dr. Matteo Paparella, che ha previsto una serie di incontri programmatici su diverse questioni a partire dal mese di dicembre presso la Birreria dei Cavalieri. L’obiettivo è quello di elargire ricette preconfezionate o di ascoltare gli umori, le idee, i suggerimenti degli invitati? Già, perché non vi si accede liberamente, ma dietro invito, cosa alquanto inusuale. E questo mentre il dr. Paparella è sotto tiro alla Provincia di Bari da parte di esponenti della sua stessa parte politica.
Ma andiamo avanti. Mentre prosegue la commedia degli equivoci nel centrodestra, dove l’equivoco consiste nella candidatura di due esponenti dello stesso partito, il PDL, i quali non si daranno pacche sulle spalle ma ceffoni politici, nello schieramento di sinistra si deve registrare il fraintendimento sulla scelta del PD di candidare Vito Nicola Ottombrini alla carica di sindaco. Qual è il fraintendimento? È stato detto che la scelta di candidare Ottombrini sia stata in qualche modo condizionata, obbligata, resa inevitabile dal quadrumvirato di maggioranza del PD, composto da Caterina Montaruli, Luca Crispino, Biagio Mastrorilli e lo stesso Ottombrini. Scientemente non sarebbe stato attivato un percorso virtuoso per l’individuazione del candidato ottimale. Ma ciò detto, Vito Ottombrini è il candidato della coalizione, quindi uno dei protagonisti della commedia degli equivoci, e sul punto non sembra si possa tornare indietro o obiettare. Del resto, ci risulta che siano stati condotti dei sondaggi, che siano state avvicinate alcune persone, le quali non si sarebbero rese disponibili, esibendo la carta di picche. Come questi sondaggi siano stati condotti, se in modo da provocare un rifiuto da parte degli avvicinati o in altro modo, non ci è dato, anche in questo caso, sapere.
Altro capitolo o paragrafo è rappresentato dalla posizione dell’UDC. Con chi si schiererà il partito di Casini, Cesa e Buttiglione? Con la sinistra o con la destra? E con quale destra, visto che ce ne sarebbero due? Le indiscrezioni danno ancora candidato il dr. Saverio Fatone, già sindaco di Ruvo. Se così fosse, ci sarebbe una terza candidatura a sindaco, con ballottaggio assicurato.
Allo stato dell’arte, quindi, sul proscenio ci sarebbero tre medici ed un insegnante, ex funzionario dell’INPS. Sorge spontanea una domanda: che la medicina non sia più una professione da esercitare? Ecco allora che la nostrana commedia degli equivoci potrebbe intitolarsi proprio così “Tre medici ed un insegnante”, dove, all’atto secondo, il diplomato la spunta sui laureati. Potrebbe darsi, perché no?
Salvatore Bernocco
Pur essendo passata molta acqua sotto i ponti della Storia e delle storie, questa commedia va in scena quotidianamente, forse perché la vita stessa è intessuta di equivoci o di errori più o meno madornali. Ed è attuale nella politica locale, dove gli equivoci si sommano alle incomprensioni, ai deliri ed alle fantasie, dando luogo ad una mistura molto pericolosa e dannosa per la politica medesima, tanto a destra quanto a sinistra.
Non so bene come stiano le cose, ma pare che l’occhio della magistratura sia caduto sulla questione dei comparti. I giudici voglio vederci chiaro, ma su quali aspetti non è dato sapere. Ed ecco che pian piano prende corpo un atto della suddetta commedia, e si fa strada l’ipotesi che ci sia stato un complotto ordito da settori della maggioranza che amministra la città per colpire soggetti della maggioranza medesima. In altre parole nelle file della maggioranza si aggirerebbe un traditore, un golpista. Vero? Falso? Chissà! Quando si solleva un polverone è difficile orientarsi e capirci qualcosa, se ci sia stato un equivoco o un errore amministrativo oppure no, tale da giustificare l’intervento della magistratura e l’acquisizione degli atti inerenti ai comparti, croce e delizia della politica locale da moltissimi anni.
Com’è ovvio che sia, ci si interpella sull’eminenza grigia dell’operazione, e, fra il serio ed il faceto, spuntano nomi più o meno noti, e si fanno illazioni che attengono agli equilibri interni ai partiti. Giochi altamente pericolosi, se così fosse. Manovre che delegittimerebbero la politica locale, che già non se la passa molto bene, a pochi mesi dalle amministrative della prossima primavera, quando saremo chiamati ad eleggere sindaco e consiglio comunale in un clima, si spera, sereno e con piena avvertenza circa uomini, squadre, programmi per il futuro della città. In questo senso, le danze sono state iniziate dal movimento/partito che sostiene la candidatura del dr. Matteo Paparella, che ha previsto una serie di incontri programmatici su diverse questioni a partire dal mese di dicembre presso la Birreria dei Cavalieri. L’obiettivo è quello di elargire ricette preconfezionate o di ascoltare gli umori, le idee, i suggerimenti degli invitati? Già, perché non vi si accede liberamente, ma dietro invito, cosa alquanto inusuale. E questo mentre il dr. Paparella è sotto tiro alla Provincia di Bari da parte di esponenti della sua stessa parte politica.
Ma andiamo avanti. Mentre prosegue la commedia degli equivoci nel centrodestra, dove l’equivoco consiste nella candidatura di due esponenti dello stesso partito, il PDL, i quali non si daranno pacche sulle spalle ma ceffoni politici, nello schieramento di sinistra si deve registrare il fraintendimento sulla scelta del PD di candidare Vito Nicola Ottombrini alla carica di sindaco. Qual è il fraintendimento? È stato detto che la scelta di candidare Ottombrini sia stata in qualche modo condizionata, obbligata, resa inevitabile dal quadrumvirato di maggioranza del PD, composto da Caterina Montaruli, Luca Crispino, Biagio Mastrorilli e lo stesso Ottombrini. Scientemente non sarebbe stato attivato un percorso virtuoso per l’individuazione del candidato ottimale. Ma ciò detto, Vito Ottombrini è il candidato della coalizione, quindi uno dei protagonisti della commedia degli equivoci, e sul punto non sembra si possa tornare indietro o obiettare. Del resto, ci risulta che siano stati condotti dei sondaggi, che siano state avvicinate alcune persone, le quali non si sarebbero rese disponibili, esibendo la carta di picche. Come questi sondaggi siano stati condotti, se in modo da provocare un rifiuto da parte degli avvicinati o in altro modo, non ci è dato, anche in questo caso, sapere.
Altro capitolo o paragrafo è rappresentato dalla posizione dell’UDC. Con chi si schiererà il partito di Casini, Cesa e Buttiglione? Con la sinistra o con la destra? E con quale destra, visto che ce ne sarebbero due? Le indiscrezioni danno ancora candidato il dr. Saverio Fatone, già sindaco di Ruvo. Se così fosse, ci sarebbe una terza candidatura a sindaco, con ballottaggio assicurato.
Allo stato dell’arte, quindi, sul proscenio ci sarebbero tre medici ed un insegnante, ex funzionario dell’INPS. Sorge spontanea una domanda: che la medicina non sia più una professione da esercitare? Ecco allora che la nostrana commedia degli equivoci potrebbe intitolarsi proprio così “Tre medici ed un insegnante”, dove, all’atto secondo, il diplomato la spunta sui laureati. Potrebbe darsi, perché no?
Salvatore Bernocco
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domenica 12 dicembre 2010
LE GRANDI MANOVRE IN VISTA DEL VOTO
Le grandi manovre in vista del voto amministrativo dell’anno prossimo sono cominciate. Il quadro politico va delineandosi in modo non sempre lineare. Dal confronto fra le forze politiche locali emergono margini di perplessità circa le future alleanze e qualche nodo gordiano da sciogliere affinché ci sia estrema chiarezza e gli elettori ruvesi possano esprimere un voto secondo scienza e coscienza, influenzato, più che dalle piccole e grandi aspettative personali, da una riflessione attenta e consapevole sugli uomini ed i programmi amministrativi, sul futuro di Ruvo, che va ridisegnato secondo logiche di progresso che combinino la tutela dell’ambiente con lo sviluppo economico e produttivo. Si parla sempre più spesso di sviluppo ecosostenibile, il che, per noi, potrebbe voler dire prestare attenzione massima al P.U.G. e al suo impatto sulla qualità della vita dei ruvesi. Corre voce che taluno intenda candidarsi per gestirne la fase attuativa. Ci sono appetiti intorno al Piano? Ci sono interessi più o meno inconfessabili alla base di certe candidature? Sono domande che al momento non possono avere una risposta. Gli inglesi dicono: “actions speak louder than words”, cioè le azioni parlano più forte delle parole. Vero. Saranno i fatti, le azioni, gli atti amministrativi a parlare chiaro e forte, al di là dei programmi amministrativi che spesso sono libri dei sogni, un’accozzaglia di buone intenzioni senza esito, il classico specchietto per le allodole. Solo che di questi tempi il numero delle allodole stolte è in netta diminuzione. C’è una coscienza critica che tenta di imporsi anche grazie ai siti web, a Ruvolive e a Ruvodipugliaweb, a certa stampa poco allineata e libera, come La Nuova Città. Facebook non è soltanto un luogo di “cazzeggio” virtuale, ma arena politica, dove si discute anche di politica locale e di politici veri o presunti, di candidati e candidature. Ben vengano.
Fatta questa premessa, pare che ormai non ci sia più alcun dubbio sulla spaccatura verticale nel PDL. Né pare esserci alcun dubbio che i margini per una ricomposizione siano praticamente nulli, come del resto ha confermato la massiccia presenza dei vertici provinciali e regionali del PDL alla convention tenutasi all’Hotel Pineta, in cui si è ufficializzata la candidatura a sindaco di Franco Catalano. Il PDL punta decisamente su di lui, mentre Matteo Paparella, stando ai rumors, gli sarà avversario con un coacervo di liste di sostegno. Ma ciò non avrà effetti indolori. Esponenti influenti del PDL ci hanno confidato che l’ufficializzazione della candidatura di Paparella a sindaco avrà conseguenze pesanti sul piano provinciale. Paparella non più assessore nella Giunta guidata dal suo sponsor politico Schittulli? Se rispondesse a verità, sarebbe un colpo micidiale inferto alle sue aspirazioni, praticamente una espulsione dal PDL. Sul punto bisognerebbe capire dove vuole andare a parare Schittulli col suo nuovo movimento regionale.
L’UDC è corteggiata da destra e da sinistra. Tutti sostengono di intrattenere ottimi rapporti con Saverio Fatone e di essere vicini ad un accordo con lui. La posizione terzista dell’UDC gli permette ampi margini di manovra ed un potere di condizionamento notevole sul piano politico ed amministrativo. Fatone, che non è uno sprovveduto, ha dato colpi al cerchio ed alla botte, il che significa che, allo stato dell’arte, è in stand by, è in attesa di comprendere meglio la forza e la consistenza delle forze in campo per poter sciogliere le riserve e decidere. Non è tuttavia esclusa una candidatura dell’UDC in prima battuta per contare il consenso di cui si dispone e farlo valere al tavolo delle trattative.
Viriamo a sinistra. Serpeggiano ancora malumori e distinguo sulla candidatura a sindaco di Vito Ottombrini, che taluni esponenti del PD ritengono sia stata pilotata ed ammannita. In altre parole, si sarebbe voluto arrivare a quella candidatura, si sarebbe manovrato perché non ne emergessero altre. È una critica all’operato della segreteria guidata da Caterina Montaruli, la quale ci consta che abbia sondato altre ipotesi ricevendone dinieghi e collezionando indisponibilità. Anche il sindaco uscente Stragapede non va esente da stoccate. Gli si addebita di essersi lavato, dal punto di vista politico, le mani, come un novello Ponzio Pilato. Egli sarebbe dovuto essere il sindaco che avrebbe dovuto preparare la transizione, traghettare una nuova classe politica verso l’assunzione di responsabilità amministrative, indicare, in un certo senso, il suo successore. Invece, ci confida uno dei suoi assessori, non l’ha fatto. Ma che il compito di un sindaco debba essere anche questo ci sembra eccessivo. La verità è che la classe politica non ha più un luogo di selezione e di crescita e che è lievitato il tasso di individualismo e autoreferenzialità, in altre parole il “tutti contro tutti”. Il fiuto politico si acquisiva nei partiti, come del resto ha capito la Lega Nord, che ha messo su delle scuole di formazione per amministratori locali. Oggi, almeno a Ruvo, ci sono dei dominus e a latere i loro scherani, i piccoli mestieranti, gli oltranzisti, i fan ottusi ed i tifosi senza capacità di discernimento. Gruppetti di fedelissimi pronti ad abbassarsi i pantaloni per un pugno di lenticchie.
Ora, ci sembra che Vito Ottombrini, che ha un compito non facile, debba agire perché il cerchio quadri presto e non si deformi. Dalla sua parte, comunque, ci sarebbero già l’Italia dei Valori, l’API di Rutelli, Città in Movimento, Rifondazione Comunista.
Gli vengono riconosciute qualità morali di bontà, onestà, umiltà e disponibilità. Per alcuni bontà ed umiltà equivarrebbero a fessaggine. Invece sono condizioni per essere in sintonia con le persone, a servizio dei più deboli, per coglierne meglio i bisogni. Siamo dell’avviso che in un mondo di malvagi un sindaco buono, di destra o di sinistra, che non ricorra alle vendette dirette e trasversali, che non usi il suo potere e la sua influenza per nuocere a chi dissente da lui, non guasti. Un sindaco buono può quindi essere un buon sindaco, non vi è nessuna controindicazione.
Primo cittadino, poi, non lo si nasce, lo si diventa con l’impegno ed avvalendosi di una squadra di coadiutori competenti e responsabili. La fortuna di un sindaco dipende per larghissima parte dai suoi collaboratori. Ritenere che un uomo solo possa risolvere i problemi del paese è una pia illusione. Una pericolosa illusione. A pensarci bene è un salto nel passato, un ritorno all’uomo della provvidenza. Con conseguenti disastri.
Salvatore Bernocco
Novembre 2010, La Nuova Città, Copyright
Fatta questa premessa, pare che ormai non ci sia più alcun dubbio sulla spaccatura verticale nel PDL. Né pare esserci alcun dubbio che i margini per una ricomposizione siano praticamente nulli, come del resto ha confermato la massiccia presenza dei vertici provinciali e regionali del PDL alla convention tenutasi all’Hotel Pineta, in cui si è ufficializzata la candidatura a sindaco di Franco Catalano. Il PDL punta decisamente su di lui, mentre Matteo Paparella, stando ai rumors, gli sarà avversario con un coacervo di liste di sostegno. Ma ciò non avrà effetti indolori. Esponenti influenti del PDL ci hanno confidato che l’ufficializzazione della candidatura di Paparella a sindaco avrà conseguenze pesanti sul piano provinciale. Paparella non più assessore nella Giunta guidata dal suo sponsor politico Schittulli? Se rispondesse a verità, sarebbe un colpo micidiale inferto alle sue aspirazioni, praticamente una espulsione dal PDL. Sul punto bisognerebbe capire dove vuole andare a parare Schittulli col suo nuovo movimento regionale.
L’UDC è corteggiata da destra e da sinistra. Tutti sostengono di intrattenere ottimi rapporti con Saverio Fatone e di essere vicini ad un accordo con lui. La posizione terzista dell’UDC gli permette ampi margini di manovra ed un potere di condizionamento notevole sul piano politico ed amministrativo. Fatone, che non è uno sprovveduto, ha dato colpi al cerchio ed alla botte, il che significa che, allo stato dell’arte, è in stand by, è in attesa di comprendere meglio la forza e la consistenza delle forze in campo per poter sciogliere le riserve e decidere. Non è tuttavia esclusa una candidatura dell’UDC in prima battuta per contare il consenso di cui si dispone e farlo valere al tavolo delle trattative.
Viriamo a sinistra. Serpeggiano ancora malumori e distinguo sulla candidatura a sindaco di Vito Ottombrini, che taluni esponenti del PD ritengono sia stata pilotata ed ammannita. In altre parole, si sarebbe voluto arrivare a quella candidatura, si sarebbe manovrato perché non ne emergessero altre. È una critica all’operato della segreteria guidata da Caterina Montaruli, la quale ci consta che abbia sondato altre ipotesi ricevendone dinieghi e collezionando indisponibilità. Anche il sindaco uscente Stragapede non va esente da stoccate. Gli si addebita di essersi lavato, dal punto di vista politico, le mani, come un novello Ponzio Pilato. Egli sarebbe dovuto essere il sindaco che avrebbe dovuto preparare la transizione, traghettare una nuova classe politica verso l’assunzione di responsabilità amministrative, indicare, in un certo senso, il suo successore. Invece, ci confida uno dei suoi assessori, non l’ha fatto. Ma che il compito di un sindaco debba essere anche questo ci sembra eccessivo. La verità è che la classe politica non ha più un luogo di selezione e di crescita e che è lievitato il tasso di individualismo e autoreferenzialità, in altre parole il “tutti contro tutti”. Il fiuto politico si acquisiva nei partiti, come del resto ha capito la Lega Nord, che ha messo su delle scuole di formazione per amministratori locali. Oggi, almeno a Ruvo, ci sono dei dominus e a latere i loro scherani, i piccoli mestieranti, gli oltranzisti, i fan ottusi ed i tifosi senza capacità di discernimento. Gruppetti di fedelissimi pronti ad abbassarsi i pantaloni per un pugno di lenticchie.
Ora, ci sembra che Vito Ottombrini, che ha un compito non facile, debba agire perché il cerchio quadri presto e non si deformi. Dalla sua parte, comunque, ci sarebbero già l’Italia dei Valori, l’API di Rutelli, Città in Movimento, Rifondazione Comunista.
Gli vengono riconosciute qualità morali di bontà, onestà, umiltà e disponibilità. Per alcuni bontà ed umiltà equivarrebbero a fessaggine. Invece sono condizioni per essere in sintonia con le persone, a servizio dei più deboli, per coglierne meglio i bisogni. Siamo dell’avviso che in un mondo di malvagi un sindaco buono, di destra o di sinistra, che non ricorra alle vendette dirette e trasversali, che non usi il suo potere e la sua influenza per nuocere a chi dissente da lui, non guasti. Un sindaco buono può quindi essere un buon sindaco, non vi è nessuna controindicazione.
Primo cittadino, poi, non lo si nasce, lo si diventa con l’impegno ed avvalendosi di una squadra di coadiutori competenti e responsabili. La fortuna di un sindaco dipende per larghissima parte dai suoi collaboratori. Ritenere che un uomo solo possa risolvere i problemi del paese è una pia illusione. Una pericolosa illusione. A pensarci bene è un salto nel passato, un ritorno all’uomo della provvidenza. Con conseguenti disastri.
Salvatore Bernocco
Novembre 2010, La Nuova Città, Copyright
domenica 14 novembre 2010
LA MISURA E' COLMA
Si badi bene: non è una questione di partiti, di schieramenti politici. Essa prescinde dal simpatizzare per la destra, il centro o la sinistra. È una questione ben più seria che attiene all’etica pubblica e all’esempio che si dà alle giovani generazioni, la cui precarietà esistenziale si nutre sempre più di scandali a sfondo sessuale che, in altre nazioni occidentali e non solo, avrebbero sollevato un’ondata di indignazione, messo sotto torchio i responsabili, costringendoli a rassegnare le dimissioni e a vivere nel privato i loro vizi.
I lettori di Fermento ricorderanno a cosa andò incontro il presidente degli U.S.A., Bill Clinton, a causa di una relazione extraconiugale con una certa Monica Lewinsky. Fu messo sotto accusa e sfiorò l’impeachment. Qualche anno prima, sempre negli U.S.A., un candidato democratico in corsa per la nomination fu costretto ad abbandonare la competizione per una relazione sessuale con una avvenente amica. Ma la lista potrebbe essere lunga e dettagliata ed evitiamo di buttarla giù.
In Italia, invece, non ci si scompone più di tanto. Che il presidente del Consiglio dei Ministri, che viaggia verso gli ottant’anni, frequenti escort e veline giovanissime, alle quali fa regali principeschi per bontà di cuore, suscita battute salaci, il commento piccato di Famiglia Cristiana e quello ironico e stupefatto dei giornali di mezzo mondo, le fustigate delle opposizioni, ma tutto resta desolatamente senza esito. Anzi, si è finanche fieri del proprio deplorevole comportamento, tant’è che il medesimo presidente, invece di fare il mea culpa, dichiara di amare la bella vita, le belle donne e che non rinuncerà mai al suo stile di vita. Se stiamo alla dottrina ed ai vangeli, egli andrebbe inserito nel novero dei gaudenti o dei lussuriosi, ai quali, a voler essere franchi, la assoluzione e la comunione andrebbero impartite con una certa attenzione, senza praticare sconti per i potenti che, dinanzi a Dio, non hanno valore alcuno. Nel frattempo ci si chiede anche come possa il succitato presidente parlare alla Conferenza nazionale della famiglia, in programma a Milano dall’8 al 10 novembre prossimi. Cosa potrebbe dire? Quale lezione potrebbe dare? Quali temi potrebbe toccare?
Qualcuno potrebbe obiettare che sono comportamenti e vizi privati che non hanno niente a che fare con le funzioni pubbliche. Non è così. Sono faccende private fino a quando e se non danneggiano l’immagine di un Paese e delle sue istituzioni democratiche. Diremo di più: lo sono se il soggetto non riveste cariche pubbliche. Se è sindaco, amministratore, presidente di provincia, di regione o del governo, insomma se è un esponente politico, ciò che è privato ha inevitabilmente risvolti pubblici, deve essere oggetto di considerazione e di giudizio da parte dell’opinione pubblica, che ha il diritto di essere governata da persone degne, serie, responsabili, eticamente corrette, dedite al bene comune piuttosto che alle sottane delle veline e delle escort, alle barzellette e all’abituale gesto delle corna in sede internazionale. L’ex sindaco di Bologna Del Bono ebbe il suo Cinziagate e rassegnò le sue dimissioni dal Consiglio comunale. Per il presidente del Consiglio c’è il Rubygate e c’è stata la vicenda D’Addario. Un’altra storiella a luci rosse sta venendo a galla con particolari piccanti ed inquietanti, mentre il sindaco di Bari Emiliano ha fatto appello alla classe dirigente barese perché eviti il consumo di cocaina.
L’impressione che si ha è quella di una nazione in cui l’immoralità regna sovrana, dove all’immondizia napoletana si aggiunge quella delle classi dirigenti, dove dilagano le mafie e la corruzione. Ne arresti dieci ed altri cento si danno ai medesimi traffici illeciti. Perché? Perché il denaro, Mammona, il potere, è il re di questo mondo, luccica. Tutti coloro che lo servono, servono il Male e si fanno del male, faranno l’esperienza della morte, che ne siano o meno consapevoli. Già, perché, prima o dopo, Mammona presenta il conto, ed è salato. Mammona chiede in cambio l’anima.
Abbiamo fatto del moralismo da cattolici bacchettoni? Non direi. Abbiamo parlato di quanto sta accadendo, di questo spettacolo desolante che preoccupa i Vescovi italiani ed il Santo Padre.
Si ha bisogno di politici cristiani, di persone sane e di buona volontà, libere e disinteressate, per imprimere una svolta a questo Paese, innanzitutto culturale e morale. Il rischio è che ci si possa assuefare all’andazzo e ritenere normale ciò che è solo frutto di libertinaggio e dissolutezza.
Copyright 2010, Salvatore Bernocco, Fermento Novembre 2010
I lettori di Fermento ricorderanno a cosa andò incontro il presidente degli U.S.A., Bill Clinton, a causa di una relazione extraconiugale con una certa Monica Lewinsky. Fu messo sotto accusa e sfiorò l’impeachment. Qualche anno prima, sempre negli U.S.A., un candidato democratico in corsa per la nomination fu costretto ad abbandonare la competizione per una relazione sessuale con una avvenente amica. Ma la lista potrebbe essere lunga e dettagliata ed evitiamo di buttarla giù.
In Italia, invece, non ci si scompone più di tanto. Che il presidente del Consiglio dei Ministri, che viaggia verso gli ottant’anni, frequenti escort e veline giovanissime, alle quali fa regali principeschi per bontà di cuore, suscita battute salaci, il commento piccato di Famiglia Cristiana e quello ironico e stupefatto dei giornali di mezzo mondo, le fustigate delle opposizioni, ma tutto resta desolatamente senza esito. Anzi, si è finanche fieri del proprio deplorevole comportamento, tant’è che il medesimo presidente, invece di fare il mea culpa, dichiara di amare la bella vita, le belle donne e che non rinuncerà mai al suo stile di vita. Se stiamo alla dottrina ed ai vangeli, egli andrebbe inserito nel novero dei gaudenti o dei lussuriosi, ai quali, a voler essere franchi, la assoluzione e la comunione andrebbero impartite con una certa attenzione, senza praticare sconti per i potenti che, dinanzi a Dio, non hanno valore alcuno. Nel frattempo ci si chiede anche come possa il succitato presidente parlare alla Conferenza nazionale della famiglia, in programma a Milano dall’8 al 10 novembre prossimi. Cosa potrebbe dire? Quale lezione potrebbe dare? Quali temi potrebbe toccare?
Qualcuno potrebbe obiettare che sono comportamenti e vizi privati che non hanno niente a che fare con le funzioni pubbliche. Non è così. Sono faccende private fino a quando e se non danneggiano l’immagine di un Paese e delle sue istituzioni democratiche. Diremo di più: lo sono se il soggetto non riveste cariche pubbliche. Se è sindaco, amministratore, presidente di provincia, di regione o del governo, insomma se è un esponente politico, ciò che è privato ha inevitabilmente risvolti pubblici, deve essere oggetto di considerazione e di giudizio da parte dell’opinione pubblica, che ha il diritto di essere governata da persone degne, serie, responsabili, eticamente corrette, dedite al bene comune piuttosto che alle sottane delle veline e delle escort, alle barzellette e all’abituale gesto delle corna in sede internazionale. L’ex sindaco di Bologna Del Bono ebbe il suo Cinziagate e rassegnò le sue dimissioni dal Consiglio comunale. Per il presidente del Consiglio c’è il Rubygate e c’è stata la vicenda D’Addario. Un’altra storiella a luci rosse sta venendo a galla con particolari piccanti ed inquietanti, mentre il sindaco di Bari Emiliano ha fatto appello alla classe dirigente barese perché eviti il consumo di cocaina.
L’impressione che si ha è quella di una nazione in cui l’immoralità regna sovrana, dove all’immondizia napoletana si aggiunge quella delle classi dirigenti, dove dilagano le mafie e la corruzione. Ne arresti dieci ed altri cento si danno ai medesimi traffici illeciti. Perché? Perché il denaro, Mammona, il potere, è il re di questo mondo, luccica. Tutti coloro che lo servono, servono il Male e si fanno del male, faranno l’esperienza della morte, che ne siano o meno consapevoli. Già, perché, prima o dopo, Mammona presenta il conto, ed è salato. Mammona chiede in cambio l’anima.
Abbiamo fatto del moralismo da cattolici bacchettoni? Non direi. Abbiamo parlato di quanto sta accadendo, di questo spettacolo desolante che preoccupa i Vescovi italiani ed il Santo Padre.
Si ha bisogno di politici cristiani, di persone sane e di buona volontà, libere e disinteressate, per imprimere una svolta a questo Paese, innanzitutto culturale e morale. Il rischio è che ci si possa assuefare all’andazzo e ritenere normale ciò che è solo frutto di libertinaggio e dissolutezza.
Copyright 2010, Salvatore Bernocco, Fermento Novembre 2010
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SAGRA DEL FUNGO CARDONCELLO
I funghi sono prelibati, squisiti, ricercati. Compaiono nei menù di haute cuisine e sulle tavole degli italiani. Eppure non sempre hanno goduto di una buona reputazione. Plinio il Vecchio, ad esempio, li annoverava “fra i cibi meno raccomandabili”, ed il Cardoncello, in particolare, chiamato anche Cardarello, Ferlengo, Fungo di Ferula, a seconda delle regioni, era considerato espressione di forze soprannaturali, afrodisiaco nel Medioevo, tanto da essere messo all'indice dal Santo Uffizio perché distoglieva i pellegrini dall'idea della penitenza che doveva essere collegata al Pellegrinaggio del Giubileo. Il vegetarianesimo li annovera fra i cibi “tamasici”, conduttori di energia inerte, che rendono statici sia fisicamente che mentalmente, ostacolando la concentrazione e il progresso spirituale. Ad essi si contrappongono quelli “sattvici”, che invece aiutano a mantenere la salute e la serenità della mente, favorendo il progresso dello spirito.
Ma il vegetarianesimo non ha moltissimi seguaci e, d’altro canto, sotto il profilo dietetico il Cardoncello fresco è un toccasana e viene utilizzato nelle diete ipocaloriche. Contiene mediamente dall'85% al 95% di acqua, il 4-5% di zuccheri, il 3,8-4% di proteine, lo 0,4-0,7 di grassi; sono presenti in esso tutti gli amminoacidi principali e le vitamine con un buon livello, insolito per i vegetali, di biotina.
Il Cardoncello, diffuso allo stato naturale nel sud dell'Italia, della Francia e della Spagna, gode quindi nel complesso di buona fama. È il fungo più apprezzato in Puglia, in Sardegna, in Basilicata e in alcune province del Lazio e della Sicilia. Spunta nella Murgia barese in autunno, predilige il clima mediterraneo e cresce e si sviluppa sui resti di eryngium campestre ed eryngium marittimum.
Negli anni 60 e 70 del precedente secolo era di rito recarsi alla Murgia alla ricerca del Cardoncello. Interi nuclei familiari si mobilitavano, talvolta tornando a casa a mani vuote, perché era (ed è) necessario possedere una sorta di “mappa del tesoro”, essere a conoscenza dei luoghi dove si annidano, avere un occhio allenato ed una mente non distratta. Un lieve luccicore può segnalare la presenza di una “fungaiola”, cioè di un corposo giacimento di funghi, ed è indescrivibile la soddisfazione del cercatore di funghi nell’atto di appropriarsene e mostrarla come ‘trofeo di caccia’ agli allibiti concorrenti. Oggi il rito si è fatto estemporaneo, anche a causa delle restrizioni imposte dalle leggi, per cui occorre essere patentati se si vuole dare la caccia al Cardoncello. Siamo maestri nel complicare le cose e nel determinare certi fenomeni, come la proliferazione dei pani, per cui i funghi nascono ‘extra utero’, hanno probabilmente un prezzo di vendita più basso, ma un sapore meno prelibato, un po’ scipito.
Con la Sagra del Fungo Cardoncello, che mette in relazione i paesi di Spinazzola, Cassano e Ruvo di Puglia, dove si svolgerà il 13 e 14 novembre prossimi nel bel centro storico, si rinverdisce quel rito collettivo ormai consegnato alla storia. Una sagra è un’occasione per mettere in rete gusti, tradizioni, sapori, luoghi, persone, per cui non si tratta di un banale “specchietto per le allodole” escogitato per richiamare a Ruvo di Puglia un flusso di turisti ed avventori a lenimento momentaneo dell’economia locale, o di settori di essa. Con la sagra si intercetta la fame degli occhi di conoscere nuovi spazi, monumenti, bellezze, “nicchie”. Si vellicano l’olfatto ed il palato dei viaggiatori del sabato e della domenica; si incentiva il cosiddetto microturismo territoriale, ponendo al centro una comunità col suo intero patrimonio enogastronomico e culturale latu sensu. Si disegnano nuovi protagonisti del sistema turistico locale, non solo le Pro Loco con le loro competenze specifiche, ma anche altri operatori, gli artigiani, i commercianti, la ristorazione, l’agriturismo, i bed and breakfast. Tutti costoro sono responsabilizzati e chiamati a fare squadra per rendere la città di Ruvo di Puglia appetibile, accogliente, calorosa, e la sagra un momento da ricordare e da trasmettere. In questo senso va la dichiarazione dell’Assessore al Turismo ed alla Cultura, Cleto Bucci, per il quale “una città ospitale è un luogo di produzione e allo stesso tempo un luogo di consumo. Il successo di ogni iniziativa, come appunto questa della Sagra del Cardoncello, consiste nel saper catturare “cittadini temporanei” e cioè i turisti, e sapergli dare opportune motivazioni affinché possano “consumare in loco”. Questo può accadere se il turista, cioè il cittadino temporaneo, riuscirà a condividere con noi ruvesi, emozioni, atmosfere, servizi, cultura, riuscirà quindi in una sola parola ad arricchirsi culturalmente e umanamente”. La sagra si avvale del fattivo contributo della Banca di Credito Cooperativo di Santeramo in Colle e dell’ASCOM – Confcommercio. Ha ottenuto il patrocinio della Provincia di Bari. È mancato il sostegno economico del Comune di Ruvo di Puglia, ma non quello morale. Motore dell’iniziativa la Pro Loco di Ruvo, presieduta da Giuseppe Tedone, il quale ha evidenziato l’importanza del fattore sinergico e di fornire risposte adeguate alle istanze di un turismo sempre più selezionato ed esigente, col decisivo apporto della popolazione ruvese, che un vecchio adagio vuole amante del forestiero.
Copyright 2010 Salvatore Bernocco, la Repubblica, 13 novembre 2010
Ma il vegetarianesimo non ha moltissimi seguaci e, d’altro canto, sotto il profilo dietetico il Cardoncello fresco è un toccasana e viene utilizzato nelle diete ipocaloriche. Contiene mediamente dall'85% al 95% di acqua, il 4-5% di zuccheri, il 3,8-4% di proteine, lo 0,4-0,7 di grassi; sono presenti in esso tutti gli amminoacidi principali e le vitamine con un buon livello, insolito per i vegetali, di biotina.
Il Cardoncello, diffuso allo stato naturale nel sud dell'Italia, della Francia e della Spagna, gode quindi nel complesso di buona fama. È il fungo più apprezzato in Puglia, in Sardegna, in Basilicata e in alcune province del Lazio e della Sicilia. Spunta nella Murgia barese in autunno, predilige il clima mediterraneo e cresce e si sviluppa sui resti di eryngium campestre ed eryngium marittimum.
Negli anni 60 e 70 del precedente secolo era di rito recarsi alla Murgia alla ricerca del Cardoncello. Interi nuclei familiari si mobilitavano, talvolta tornando a casa a mani vuote, perché era (ed è) necessario possedere una sorta di “mappa del tesoro”, essere a conoscenza dei luoghi dove si annidano, avere un occhio allenato ed una mente non distratta. Un lieve luccicore può segnalare la presenza di una “fungaiola”, cioè di un corposo giacimento di funghi, ed è indescrivibile la soddisfazione del cercatore di funghi nell’atto di appropriarsene e mostrarla come ‘trofeo di caccia’ agli allibiti concorrenti. Oggi il rito si è fatto estemporaneo, anche a causa delle restrizioni imposte dalle leggi, per cui occorre essere patentati se si vuole dare la caccia al Cardoncello. Siamo maestri nel complicare le cose e nel determinare certi fenomeni, come la proliferazione dei pani, per cui i funghi nascono ‘extra utero’, hanno probabilmente un prezzo di vendita più basso, ma un sapore meno prelibato, un po’ scipito.
Con la Sagra del Fungo Cardoncello, che mette in relazione i paesi di Spinazzola, Cassano e Ruvo di Puglia, dove si svolgerà il 13 e 14 novembre prossimi nel bel centro storico, si rinverdisce quel rito collettivo ormai consegnato alla storia. Una sagra è un’occasione per mettere in rete gusti, tradizioni, sapori, luoghi, persone, per cui non si tratta di un banale “specchietto per le allodole” escogitato per richiamare a Ruvo di Puglia un flusso di turisti ed avventori a lenimento momentaneo dell’economia locale, o di settori di essa. Con la sagra si intercetta la fame degli occhi di conoscere nuovi spazi, monumenti, bellezze, “nicchie”. Si vellicano l’olfatto ed il palato dei viaggiatori del sabato e della domenica; si incentiva il cosiddetto microturismo territoriale, ponendo al centro una comunità col suo intero patrimonio enogastronomico e culturale latu sensu. Si disegnano nuovi protagonisti del sistema turistico locale, non solo le Pro Loco con le loro competenze specifiche, ma anche altri operatori, gli artigiani, i commercianti, la ristorazione, l’agriturismo, i bed and breakfast. Tutti costoro sono responsabilizzati e chiamati a fare squadra per rendere la città di Ruvo di Puglia appetibile, accogliente, calorosa, e la sagra un momento da ricordare e da trasmettere. In questo senso va la dichiarazione dell’Assessore al Turismo ed alla Cultura, Cleto Bucci, per il quale “una città ospitale è un luogo di produzione e allo stesso tempo un luogo di consumo. Il successo di ogni iniziativa, come appunto questa della Sagra del Cardoncello, consiste nel saper catturare “cittadini temporanei” e cioè i turisti, e sapergli dare opportune motivazioni affinché possano “consumare in loco”. Questo può accadere se il turista, cioè il cittadino temporaneo, riuscirà a condividere con noi ruvesi, emozioni, atmosfere, servizi, cultura, riuscirà quindi in una sola parola ad arricchirsi culturalmente e umanamente”. La sagra si avvale del fattivo contributo della Banca di Credito Cooperativo di Santeramo in Colle e dell’ASCOM – Confcommercio. Ha ottenuto il patrocinio della Provincia di Bari. È mancato il sostegno economico del Comune di Ruvo di Puglia, ma non quello morale. Motore dell’iniziativa la Pro Loco di Ruvo, presieduta da Giuseppe Tedone, il quale ha evidenziato l’importanza del fattore sinergico e di fornire risposte adeguate alle istanze di un turismo sempre più selezionato ed esigente, col decisivo apporto della popolazione ruvese, che un vecchio adagio vuole amante del forestiero.
Copyright 2010 Salvatore Bernocco, la Repubblica, 13 novembre 2010
domenica 10 ottobre 2010
UNO SPETTACOLO DESOLANTE
Lo spettacolo a cui da tempo stiamo assistendo è a dir poco desolante. Intendiamo riferirci alla vita politica, ai politici, i quali, con le dovute eccezioni, sembrano presi da una serie di questioni che poco o nulla hanno a che fare con i problemi reali del Paese e delle fasce più deboli della popolazione. I problemi della scuola, dell’economia, della pubblica amministrazione appaiono secondari rispetto a faccende quali il legittimo impedimento e talune leggi salvacondotto che sembrano tagliate su misura per i potenti e solo per essi. Su di esse la politica è avvitata da diverso tempo. Per tacere di scandali piccoli e grandi, di escort e faccendieri, di un sistema corruttivo diffuso e trasversale, di forze politiche radicate al Nord che usano un linguaggio scriteriato e di amministratori locali che discriminano le persone a seconda del colore della pelle ed intendono fare della scuola pubblica una protesi del loro partito.
Lo spettacolo è francamente indecente, tanto da preoccupare la stessa Chiesa cattolica che, per bocca del presidente dei Vescovi italiani, il cardinale Angelo Bagnasco, invita ancora una volta i cattolici “con doti di mente e di cuore” ad entrare nell’agone politico per dare il loro contributo di idee alla costruzione di un Paese più giusto e solidale, specie in questo momento in cui il cosiddetto federalismo, voluto dalla Lega Nord, rischia di dividere il Paese in due o tre macroaree con consistenti vantaggi esclusivamente per le regioni più ricche. È il disegno della Padania – che non esiste né dal punto di vista storico né geopolitico – che prende forma attraverso l’escamotage ed il pretesto del federalismo. Di fronte allo sfascio delle istituzioni democratiche e a certa politica che pasce se stessa non si può restare indifferenti e tacere. È giunto il momento di dare il benservito a tutti quei politici che si sono arricchiti con la politica e hanno collezionato case e proprietà per sé e per la propria discendenza, alla maniera degli antichi feudatari. Emblematico il caso dell’ex ministro Scajola, il quale – non si sa come – si è ritrovato proprietario di un appartamento a Roma a sua insaputa. Caso emblematico e ridicolo. Ma non è l’unico. L’elenco sarebbe lungo ed includerebbe anche i politici delle amministrazioni locali. Come non ricordare lo scandalo della sanità alla Regione Puglia? Fiumi di denaro pubblici dirottati nelle casse di alcuni imprenditori affinché se ne potessero ottenere favori di vario genere. Anche in questo caso indagati politici, affaristi e direttori generali, con contorno di cocaina ed escort.
Il relativismo etico sta distruggendo la civile convivenza; un’idea distorta di democrazia e libertà sta minando le basi delle nostre istituzioni democratiche; una politica ridotta a bivacco e a mercato delle vacche rischia di allontanare sempre più i cittadini dalle istituzioni. Il cardinale Bagnasco fa pressione perché si sappiano coinvolgere i giovani nella vita politica, “pur se ciò significa circoscrivere ambizioni di chi già vi opera”. Ecco, ci sono giovani dotati di intelligenza e cuore che possono imprimere una svolta alla politica, tuttora prigioniera delle vecchie volpi. La difficoltà sta proprio nelle ambizioni di chi domina i partiti, anche a livello locale, i quali non vogliono rinunciare a nulla, come se la politica non possa fare a meno di loro, o meglio loro non possano fare a meno della politica. Le uniche armi in possesso dei cittadini sono il voto e la partecipazione attiva, consapevole e responsabile. Bisogna eleggere persone serie, competenti ed oneste e poi partecipare, controllare, informarsi. Dove c’è ignoranza c’è delitto e sopruso, ed un metro di misura dell’onesta dell’amministratore locale sta nel suo grado di povertà e distacco dai beni. Se questi, a termine del proprio mandato, non è diventato più ricco di quanto lo era, anzi più povero, egli sarà stato un buon amministratore. In caso contrario andrebbe rispedito a casa e dimenticato in fretta.
Salvatore Bernocco
Fermento, Ottobre 2010 @ Copyright
mercoledì 6 ottobre 2010
J'ACCUSE (PARTE 2^)
Si va di bene in meglio. La sindrome del cupio dissolvi sta manifestandosi. Era latente, ora è palese, evidente, preoccupante. Con venature di autoreferenzialità tipiche del berlusconismo, tanto odiato ed osteggiato quanto praticato. Il presidente Vendola vorrebbe un impianto fotovoltaico su ogni tetto pugliese. Cosa di per sé buona. Di sole ce n’è in abbondanza alle nostre latitudini. Se ci fosse tanto lavoro quanto sole, staremmo a posto. Intanto sostiene che D’Alema, Bersani e Fassino, tutti esponenti del PD, cioè di un partito diverso dal suo, sono “anime morte”, attingendo per la sgradevole definizione all’omonimo romanzo di Gogol’ “Anime morte” (1842), sebbene lo scrittore russo alludesse ad altro (ma anche Vendola può prendere qualche cantonata). Cosa intende Vendola per anime morte? Sono anime raminghe e dolenti, quasi da Inferno dantesco, tutti coloro che hanno un’idea della sinistra diversa dalla sua? Che ne ostacolano la premiership? Certo che per un uomo che tira spesso in ballo Aldo Moro, abile tessitore di alleanze e maestro di dialogo e confronto, la definizione non è stata felice, anzi è un sasso ulteriore tirato nel cortile del PD, già alle prese con numerosi problemi interni. Su queste basi pare impossibile costruire un’alternativa politicamente praticabile al centrodestra. L’equazione vendoliana è la seguente: io sono il nuovo, voi siete il vecchio. Voi andate rottamati, io devo emergere. Mi ripeto: non è il miglior viatico ad alleanze serie, costruttive e durature. Tuttavia, questa è politica nazionale.
A livello regionale prendiamo atto di un’altra buona notizia: il Consiglio regionale chiede altri quattro milioni e mezzo di euro, “tre milioni e mezzo per garantire gli assegni di fine mandato dei consiglieri uscenti, un milione per le pensioni d’oro dei politici pugliesi.” (Paolo Russo, la Repubblica, 5 ottobre 2010). Quando si tratta di denari siamo sempre nel campo degli atti dovuti e degli automatismi di leggi varate, guarda il caso, dallo stesso Consiglio regionale. Lo ha dichiarato il sempiterno Onofrio Introna, che sarebbe, lui, un’anima viva. Fa sorridere che la buonuscita sia sganciata per consentire il “reinserimento sociale” dei poveri Consiglieri regionali trombati che, per una o più legislature, hanno patito le conseguenze nefaste della loro scelta di candidarsi: niente vita sociale, rarefazione degli incontri con i famigliari, pochi giorni di vacanza, incomprensione ed insulti dagli elettori, richieste di favori, sospetti ed inchieste della magistratura. Una vita grama che al termine del mandato necessita evidentemente di una lauta ricompensa economica, di un cadeau.
Allora, il punto, egregio presidente Vendola, è il seguente: le riforme da attuare concernono i vostri privilegi. Tagliatevi i privilegi, le prebende. Eliminate la buonuscita. Il fotovoltaico e l’eolico seguono o procedono di pari passo. Se non darà un segno concreto in tal senso, eviti di parlare di anime morte. Per il semplice motivo che anche lei farebbe parte della detestata compagnia.
lunedì 4 ottobre 2010
LA PARABOLA DEL LUPO
Un giorno Gesù si recò a Gerusalemme ed attraversava la spianata del tempio. Con lui c’erano Giacomo e Giovanni. Appena la gente lo vide, lo attorniò, e lui, visto che c’erano molti farisei ed alcuni capi della città che discorrevano fra loro, si fermò e si mise a sedere su un gradino della scalinata del tempio. Intanto la folla aumentava ed osannava al nome di Dio. “Questa gente – disse ai due discepoli – non ha bisogno delle parole che pronuncerò”. Quindi si alzò e disse: “Un lupo aveva fame, molta fame. Non mangiava da giorni ed era stato respinto da tutti perché giudicato pericoloso. Un giorno si imbatté in un casolare e sentì che da esso proveniva il profumo del latte e del formaggio. I lupi non amano il latte ed il formaggio, ma, avendo una fame terribile, si disse: “Aspetterò che il padrone esca di casa. Mi intrufolerò nel magazzino e mangerò quel che troverò.” Si acquattò nella boscaglia ed attese che il massaro uscisse. Appena questi uscì, quatto quatto si avvicinò alla cascina. Guardò alla sua destra; poi guardò alla sua sinistra. Non c’era nessuno né si udivano rumori sospetti. Gironzolò attorno al casolare, fiutando di qua e di là, e verificò che l’unico modo di entrare nel magazzino era attraverso una grata di ferro. Lui era magro e ci passava. Senza pensarci due volte, passò attraverso la grata di ferro. Entrato, vi trovo il bendiddio: formaggio a volontà, latte, scamorze, mozzarelle. Vi si buttò a capofitto e fece man bassa. Mangiò tantissimo, al punto da scoppiare. Poi, satollo, si appisolò. Mentre dormiva, rientrò il padrone. Il lupo fu destato dal rumore del carro e fece per scappare, ma, avendo mangiato a crepapelle, non riuscì più ad uscire dalla grata attraverso cui era entrato. Il padrone lo agguantò e lo uccise. Vi dico queste cose perché sappiate che l’ingordigia, qualsiasi ingordigia, conduce alla morte.” Sentite queste parole, i farisei ed i capi del popolo si allontanarono di fretta. La gente, invece, prese a lodare il nome del Signore.
Copyright 2010 Salvatore Bernocco
Copyright 2010 Salvatore Bernocco
venerdì 1 ottobre 2010
J'ACCUSE
Il presidente della Regione Vendola ci ha abituato a discorsi di ampio respiro, a nuove narrazioni, ad un eloquio fluido e ricco di richiami romantici e finanche nostalgici. Discorsi che sollevano lo spirito, riempiono il cuore ma non le tasche degli indigenti, sebbene risponda a verità che non di solo pane vive l’uomo. Da non molto tempo, cioè da quando ha vinto la competizione regionale per la seconda volta grazie alla miopia di Raffaele Fitto, si è lanciato alla conquista dello scenario politico nazionale, volendo contendere a Bersani o a chi per lui la leadership del centrosinistra o del sinistracentro, giacché, diciamocelo francamente, di ex popolari ed ex diccì nel PD ne sono rimasti davvero pochi, i quali fanno una fatica immane per reperire ragioni per restarci. Insomma Vendola, facendo leva sulle sua capacità oratorie e su alcune suggestioni, sta cercando di imporsi sul PD nazionale dopo essersi imposto, e vinto la sua battaglia, sul PD pugliese. Solo che Vendola non fa parte del PD, è il leader nazionale di S.E.L., cioè di un’altra formazione politica di sinistra che mi sembra possa contare su percentuali nazionali esigue. Tolta la Puglia, il S.E.L. è un partito quasi ectoplasmatico. Ma queste sono altre questioni.
Ora, Vendola si fa paladino dei poveri, dei diseredati, degli emarginati, dei precari, di tutta quella fetta d’umanità dolente e ferita dall’aggressività delle politiche economiche capitaliste. Urla contro Berlusconi e Tremonti, se la prende con Fitto, e fa pure bene, dice cose di sinistra. Però, che cosa fa nel concreto Nichita il Rosso malgrado il buco di bilancio della Regione Puglia? Asseconda la casta.
È di questa mattina la notizia, che ho letto sulle pagine regionali di Repubblica (articolo a firma di Lello Parise a pagina VI), che per gli ex consiglieri regionali scatta l’aumento della pensione. I poveri ex consiglieri percepiranno 120 euro in più al mese. Con i 4.000 euro che percepiscono dopo appena una legislatura e al compimento del 55° anno d’età, non ce la facevano ad arrivare alla quarta settimana. La vita costa, tirare a campare è avvilente. Così, forse in un momento di distrazione del presidente Vendola, alle prese con le sue affabulazioni, l’Assemblea regionale il 25 febbraio del 2010 approva il ritocchino, cioè, per dirla con linguaggio tecnico, l’aumento del 3,09% degli assegni vitalizi e di reversibilità degli ex consiglieri con decorrenza 1° gennaio 2010. Costo per la Regione Puglia: 300 mila euro l’anno. Qualcosa di analogo è capitato alla Provincia di Bari, dove ci si è aumentati l’indennità di presenza, mentre il presidente Schittulli si dichiarava ignaro dell’operazione ed “i debiti extra bilancio che gravano sulla Provincia di Bari dovrebbero ammontare a 73 milioni di euro, una cifra enorme pari a quasi un terzo del suo bilancio complessivo” (ipse dixit Michele Monno, consigliere provinciale PD). Una sorta di remake in salsa politica del film “Cado dalle nubi” del pugliese Checco Zalone. Tutti sembrano cadere dalle braghe di Aronne e/o dalle nuvole quando si tratta di soldi. Si vergognano, in fondo, ma se ne fregano. Dopo un po’ il rossore passa e vivono la cosa quasi con distacco, come se avessero vinto al concorso Win for life, e senza spendere neppure un euro.
Qualche anno fa si ironizzava sul natante di Massimo D’Alema, sul costo esorbitante delle sue scarpe. Qualcuno mi rispose che essere di sinistra non significava essere poveri. Essere di sinistra implicava il riscatto anche economico dei ceti medio-bassi. Sono trascorsi un po’ di anni da quel giorno, ma di riscatto neanche l’ombra. Chi dovrebbe fare e vivere come un uomo di sinistra fa e vive come un uomo di destra. E quando si tratta di mettere mano al portafoglio cadono le distinzioni, si è tutti rapaci e a servizio del dio denaro. Ci si veste da Graffiti tutti griffati dalla testa ai piedi, si spendono migliaia di euro in viaggi ed amenità varie, ci si ricopre di vantaggi e privilegi durante e post, mentre tanta povera gente soffre, non sa come sbarcare il lunario. Figli a carico, un’unica entrata, affitto e bollette da pagare, semmai lavoro precario, e sei quasi sul lastrico, sei un quasi pezzente.
Mentre i poveri aumentano, i già ricchi si aumentano i privilegi ed accrescono le loro ricchezze. Questo è scandaloso ed inaccettabile, egregio presidente Vendola. Io ritengo che il buon politico sia quello che, a fine mandato, è meno ricco di quanto lo fosse a principio. Ma forse sto vaneggiando e vagheggiando un mondo altro. Forse sto dicendo cose troppo di sinistra. Anzi, paleocristiane.
Salvatore Bernocco
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lunedì 20 settembre 2010
IL PD ED I SUOI TORMENTI
Caro Direttore,
eccomi ancora una volta a chiederti ospitalità. La mia precedente riflessione sulla situazione politica locale, da te cortesemente pubblicata sul tuo sito, concerneva esclusivamente il centrodestra. In molti, amici e non, mi hanno chiesto, se non altro per una sorta di par condicio, che cosa pensassi invece delle vicende interne – che sempre hanno riflessi all’esterno – al Partito Democratico, da non molto retto dalla professoressa Caterina Montaruli. Come sai, ho funto da intervistatore del Sindaco Stragapede alla Festa del PD, ed in quella occasione sono emersi con nettezza due elementi: 1) il dispiacere del Sindaco per “l’ingratitudine” di alcuni esponenti del PD nei suoi confronti, i quali, per ragioni non esposte, ne avevano sminuito l’impegno e marginalizzato i risultati dell’azione amministrativa, sebbene non avessero mai rimarcato il loro dissenso né in sede consiliare né in altra sede politica; 2) la volontà di non ricandidarsi alle prossime amministrative per ragioni personali che, a mio avviso, sono anche di natura politica.
Bene, ciò premesso, il mio ragionamento è semplice e parte da una domanda: che cosa si contesta al Sindaco Stragapede? Su quali basi politiche, su quali fatti e su quali contestazioni ci si è fondati per prepararne la successione con largo anticipo e senza attenderne le decisioni? Chi intende candidarsi alla carica di sindaco, cosa ritiene di avere in più – parlo di capacità politiche – rispetto a Stragapede? Perché non si esce allo scoperto esternando disagi, distinguo, critiche, evitando vecchi tatticismi e logori schemi? Le successioni si preparano se c’è stata differenziazione, se si ritiene che il Sindaco abbia lavorato poco o male, altrimenti si insinua il sospetto nell’opinione pubblica che si punti esclusivamente ad occupare una posizione di potere a prescindere da un’analisi dei programmi, delle realizzazioni, dei consuntivi amministrativi. Una successione non si prepara a partire da presentimenti o da illazioni. Essa è fondata in punto di etica politica se le lacune sono state talmente tante e gravi e circostanziate da non lasciare alternative. Nel caso del Sindaco Stragapede si ha l’impressione che sia stato “sollecitato” ad assumere la decisione di abbandonare il campo per far spazio ad altro soggetto che, in caso di vittoria, non potrà che proseguire – si badi bene – il lavoro già cominciato. Soluzione di continuità potrà esserci con riguardo all’organizzazione del personale (nel nostro Comune sei dirigenti più la figura del direttore generale sono francamente eccessivi), al rilancio dell’apparato burocratico, alla scelta dei nuovi dirigenti, fermo restando le tre patate bollenti che richiederanno un forte impegno comune, bipartisan: questione Ruvo Servizi, questione rifiuti, questione espropri. Rispetto a questa discontinuità, le necessarie e consequenziali azioni possono venire pianificate anche da un sindaco uscente. Un nuovo assetto amministrativo può meglio poggiare sulle esperienze pregresse, di cui si è fatto tesoro e si è preso consapevolezza. Ora, ritengo che il miglior candidato sindaco per il centrosinistra sia - allo stato dell’arte e se non si dirimono le questioni politiche a cui ho accennato - il sindaco uscente, Michele Stragapede. Tanto di cappello agli altri nomi che circolano in questi giorni, alcuni dei quali invisi finanche a ampi settori dello stesso PD forse per insanabile pregiudizio (il matrimonio fra ex popolari ed ex diesse non funziona molto bene ed è foriero di incognite), i quali però potrebbero condurre il PD sull’orlo di una crisi di nervi, portarlo ad uno scontro interno dagli esiti imprevedibili. Il percorso democratico delle primarie convince, ma, in un momento di difficoltà evidente del centrodestra, secondo me la candidatura di Michele Stragapede sederebbe i contrasti interni al Pd e compatterebbe il centrosinistra.
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NESSUNO VA DEMONIZZATO, MA...
Caro Direttore,
vorrei partire da un principio di natura etica: nessuno va demonizzato, anche se dovesse risultarci antipatico o dovessero dividerci differenti visioni della politica e della vita amministrativa. In un sistema democratico tutti hanno il diritto di presentare la propria candidatura a sindaco della città, a meno che non sia la legge a frapporre ostacoli giuridici. Ho letto con interesse la nota del Dr. Luciano Lorusso di sostegno alla candidatura del Dr. Franco Catalano, al quale mi lega un’antica amicizia e che ritengo sia un validissimo candidato sindaco, e trovo che sia fondata la sua critica al Dr. Paparella per il mancato rispetto degli accordi pubblicamente sanciti. Ma, ciò detto, non gli si può impedire di presentare la propria candidatura a sindaco della città. Non glielo si può impedire sia per legge che per rispetto assoluto dei principi che fondano la vita democratica di un consesso civile e di una comunità, che è in attesa di un riscatto, di un colpo d’ali, di un nuovo inizio, sebbene non risponda a verità che questa Amministrazione sia rimasta inerte e abbia lavorato con la flebo al braccio per cinque anni. Il punto essenziale è politico ed è interno al PDL, perchè, per estrema chiarezza e lealtà verso l’elettorato, occorrerebbe sgombrare il campo da pasticci ed equivoci, non essendo immaginabile che il PDL possa esprimere due candidati alla carica di sindaco. O il Dr. Paparella sta nel PDL, tuttora retto da Giovanni Mazzone e da Salvatore Barile e che ha riconfermato la candidatura del Dr. Catalano, oppure sta altrove. E la Lista Schittulli, per costituire la quale si è dimesso il consigliere Testini, dove sta? Sta nel centrodestra, appoggia i candidati del centrodestra o gioca a Bari e a Napoli? E se così fosse, non verrebbero alterati gli equilibri in seno alla Giunta della Provincia di Bari? Questi equivoci andrebbero sciolti rapidamente e con estrema chiarezza, pena il disorientamento dell’elettorato ruvese ed in particolare di quello di centrodestra, il quale non si attendeva un assist di tale portata al campo avverso. Se la candidatura del Dr. Paparella sarà confermata, egli sarà un competitore al quale si dovrà rispetto ed attenzione, e che l’elettorato ruvese giudicherà sulla scorta dei programmi e dei progetti per Ruvo. Personalmente sono per il ricambio generazionale e per l’avvento di volti e menti nuovi. Sono dalla parte di una classe politica giovane, competente, colta e disinteressata, portatrice di interessi e di passioni limpidi. Ci sono giovani già vecchi e scafati, certo, il politico perfetto è di là da venire, ma la coscienza del giovane è in formazione, può più facilmente aprirsi a scenari nuovi ed alternativi. I valori possono sopravvivere anche in chi fa politica da anni o non è più anagraficamente giovane, ma il futuro, come ci insegnava Aldo Moro, sta nei giovani, appartiene a loro, che sono la nostra speranza e la nostra attesa.
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lunedì 6 settembre 2010
L'interpretazione della Bibbia nella Chiesa
È indubbio che gli studi teologici sono causa di incomprensioni e, talvolta, di “scomuniche” preventive, laddove invece dovrebbero contribuire all’approfondimento della Parola di Dio per una maggiore comprensione del mistero dell’incarnazione del Cristo, del suo messaggio di salvezza, talvolta annacquato in senso troppo umano oppure spiritualizzato al punto di renderlo distante dalla concreta realtà dell’uomo.
La Pontificia Commissione Biblica col documento “L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa” del 1993 ha ben chiarito che “l’esegesi cattolica deve […] mantenere la sua identità di disciplina teologica, il cui scopo principale è l’approfondimento della fede. Questo non significa un minore impegno nella ricerca scientifica più rigorosa, né la deformazione dei metodi a causa di preoccupazioni apologetiche. Ogni settore della ricerca (critica testuale, studi linguistici, analisi letterarie, ecc.) ha le sue proprie regole, che deve seguire in piena autonomia. Ma nessuna di queste specialità è fine a se stessa. Nell’organizzazione d’insieme del compito esegetico, l’orientamento verso lo scopo principale deve restare effettivo e fare evitare dispersioni di energie. L’esegesi cattolica non ha il diritto di somigliare a un corso d’acqua che si perde nelle sabbie di un’analisi ipercritica. Adempie, nella Chiesa e nel mondo, una funzione vitale: quella di contribuire a una trasmissione più autentica del contenuto della Scrittura ispirata”.
Tuttavia, se occorre conservarne l’unitarietà, è altresì indubbio partire dal presupposto che “l’interpretazione deve necessariamente essere pluralistica. Nessuna interpretazione particolare può esaurire il significato dell’insieme, che è una sinfonia a più voci. L’interpretazione di un testo particolare deve quindi evitare di essere esclusiva”. Nessuno ha quindi il monopolio dell’interpretazione, che abbisogna di contributi umili e generosi, evitando di incorrere nella tentazione di stabilire che vi sia come una sorta di dogma interpretativo. Ciò detto, non possiamo non sottolineare, ad esempio, il pensiero di santa Caterina da Siena, secondo la quale l’Esegeta per eccellenza è Cristo: più siamo uniti a Cristo più conosciamo in profondità la Sacra Scrittura. Quindi, in sintesi, se non possiamo fare a meno degli studi biblici, dobbiamo in ogni caso sottolineare che il senso profondo delle S. Scritture è rivelato dal Signore alle coscienze. Lo Spirito Santo illumina gli ultimi, coloro che mancano di scienza umana, ma non di sapienza secondo Dio. Fa riflettere la circostanza che la Vergine Maria si sia rivelata a gente umile, mai ai sapienti della terra. In loro c’è spesso supponenza, distinguo, esercizio di lana caprina, mentre negli umili c’è accoglienza incondizionata e fede limpida. E la differenza, forse, sta tutta qui.
Salvatore Bernocco
Fermento, Settembre 2010
La Pontificia Commissione Biblica col documento “L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa” del 1993 ha ben chiarito che “l’esegesi cattolica deve […] mantenere la sua identità di disciplina teologica, il cui scopo principale è l’approfondimento della fede. Questo non significa un minore impegno nella ricerca scientifica più rigorosa, né la deformazione dei metodi a causa di preoccupazioni apologetiche. Ogni settore della ricerca (critica testuale, studi linguistici, analisi letterarie, ecc.) ha le sue proprie regole, che deve seguire in piena autonomia. Ma nessuna di queste specialità è fine a se stessa. Nell’organizzazione d’insieme del compito esegetico, l’orientamento verso lo scopo principale deve restare effettivo e fare evitare dispersioni di energie. L’esegesi cattolica non ha il diritto di somigliare a un corso d’acqua che si perde nelle sabbie di un’analisi ipercritica. Adempie, nella Chiesa e nel mondo, una funzione vitale: quella di contribuire a una trasmissione più autentica del contenuto della Scrittura ispirata”.
Tuttavia, se occorre conservarne l’unitarietà, è altresì indubbio partire dal presupposto che “l’interpretazione deve necessariamente essere pluralistica. Nessuna interpretazione particolare può esaurire il significato dell’insieme, che è una sinfonia a più voci. L’interpretazione di un testo particolare deve quindi evitare di essere esclusiva”. Nessuno ha quindi il monopolio dell’interpretazione, che abbisogna di contributi umili e generosi, evitando di incorrere nella tentazione di stabilire che vi sia come una sorta di dogma interpretativo. Ciò detto, non possiamo non sottolineare, ad esempio, il pensiero di santa Caterina da Siena, secondo la quale l’Esegeta per eccellenza è Cristo: più siamo uniti a Cristo più conosciamo in profondità la Sacra Scrittura. Quindi, in sintesi, se non possiamo fare a meno degli studi biblici, dobbiamo in ogni caso sottolineare che il senso profondo delle S. Scritture è rivelato dal Signore alle coscienze. Lo Spirito Santo illumina gli ultimi, coloro che mancano di scienza umana, ma non di sapienza secondo Dio. Fa riflettere la circostanza che la Vergine Maria si sia rivelata a gente umile, mai ai sapienti della terra. In loro c’è spesso supponenza, distinguo, esercizio di lana caprina, mentre negli umili c’è accoglienza incondizionata e fede limpida. E la differenza, forse, sta tutta qui.
Salvatore Bernocco
Fermento, Settembre 2010
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mercoledì 18 agosto 2010
Presentazione del libro "Insights on Life and Love"
It's hard to describe a poet in a few words. It's not easy to contain what remains between the dawn and sunset; and what returns after the sunset until the next dawn, Poetry is light, and this poet is able to enlighten many people. His poetry is strong yet gentle. It creates openings like pores, but not wounds, so that the heart can breathe through the pores which Salvatore is able to open. His words are able to stay on our minds like many little, bright spheres, which roll across them saying, "Your heads are too sloped". My best wishes, Sal!
Lucio Freni
È difficile descrivere un poeta in poche parole. È difficile racchiudere ciò che rimane tra l'alba e il tramonto e torna dopo il tramonto per la prossima alba. La poesia è luce, e questo poeta può illuminare molte persone. La poesia è forte e gentile: buca senza ferire solo quel tanto che necessita al cuore per respirare, e dai fori che sa aprire Salvatore le parole si stampano nella mente come piccole sfere luminose che rotolano avvertendoci che ogni giorno teniamo la testa troppo china. Auguri Sal!
Lucio Freni
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lunedì 26 luglio 2010
NEL SEGNO DEL TRATTO
In origine vi è il disegno, preceduto semmai dal tratto, dallo schizzo, che ne è un avanzamento verso il “prodotto finito”, il dipinto.
Ma non si creda che il disegno non possa avere e non abbia una sua propria autonomia, una sua propria vita nel contesto dell’arte del ritratto o pittorica.
Così, senza eccessiva forzatura, potrei affermare che vi sono disegni che non balbettano il soggetto pittorico, ma che essi stessi sono temi finiti, consegnati ai cultori del bello, forse meno alla categoria leziosa dei critici, i quali spesso amano crogiolarsi nei codici consolidati (non a caso il grande De Chirico sosteneva che nessun uomo serio e coscienzioso potrebbe attribuirsi il titolo di ‘critico d’arte’). Se compito dell’artista non è rappresentare ma esprimere, come sosteneva van Gogh, è immediato concludere che un disegnatore è un artista a tutto tondo al quale non manca nulla, né talento né espressività; anch’egli è un tornitore di sensi, come un vasaio all’opera al suo tornio, una mano che si libra su un foglio bianco per dare espressione visiva e simbolica a quel mondo interiore che scalcia e scalpita, che si agita a contatto col visibile, che tenta di ritrarne i contenuti estetici a partire da una percezione intima e soggettiva, anch’essa estetica, talvolta nevrotica, il che accade tutte le volte che il futuribile titilla l’anima, tentandola ad una affannosa ed estenuante ricerca di novità di fogge e contenuti.
Qui si va ben oltre l’invito alle forme semplici di Cézanne (“Trattare la natura secondo il cilindro, la sfera, il cono”) o le sei leggi della pittura citate da Shieh Ho, poiché si procede oltre le regole e certo formalismo . Qui si parla di Spirito , il quale talvolta troverebbe arduo adattarsi alla carne, secondo la tesi del grande umanista francese Jean Guitton, sebbene sia lungi da me la visione platonica della scissione fra anima e corpo, più convincente e prossima al vero quella olistica. Eppure per chi coltiva le arti pare si determini una frattura insanabile fra lo “spirito” ed il “bruto”, che Charles Baudelaire, l’inverecondo autore della raccolta poetica Les Fleurs du Mal, esponeva con schietta rozzezza nell’approccio diverso alla sessualità dell’artista rispetto al popolano (“Più l’uomo coltiva le arti, meno scopa. Si ha un divorzio sempre più sensibile fra lo spirito ed il bruto. Soltanto il bruto fotte bene, e fottere è il lirismo del popolo”).
Il testo “Nel Segno del Tratto – Disegni del Novecento Pugliese”, egregiamente curato da Carmelo Cipriani e Domenico Toto, è un inno allo Spirito, un’appendice preziosa e finanche necessaria al volume “Echi dal Novecento Pugliese. Omaggio a Domenico Cantatore”, anch’esso offertoci dai due curatori nel contesto della mostra omonima svoltasi a Ruvo di Puglia dal 26 luglio al 9 agosto del 2008, il quale già conteneva alcuni disegni di Domenico Cantatore (ad esempio, i ritratti di Leonardo Sinisgalli e di Caterina Lelj, entrambi del 1938).
Anche “Nel Segno del Tratto – Disegni del Novecento Pugliese” scaturisce dalla omonima mostra tenutasi nell’ex Convento dei Domenicani di Ruvo dal 10 al 20 settembre del 2009, e ci presenta una raffinata carrellata di disegni di artisti del calibro di Francesco Saverio Netti, Gioacchino Toma, Geremia Re, Francesco Di Terlizzi e Domenico Cantatore, Giuseppe Ar, Antonio Lanave, Antonio Piccini ed altri di non minore talento e tecnica.
Un testo, quello di Cipriani e Toto, che spazia con leggerezza e leggiadria nel mondo del tratto, impropriamente reputato parente povero dell’opera pittorica, e che ci allerta sulla urgenza di conservare e promuovere un patrimonio culturale che, se sa di antico, ci restituisce per tale ragione alle nostre origini, ai volti, alle fisionomie, ai luoghi di un tempo, passato solo per l’incuria, la superficialità e la volgarità di chi, non amando il bello ed ignorando lo Spirito, inevitabilmente sottovaluta o distrugge.
Salvatore Bernocco
Copyright 2010 - Studi Bitontini, n. 88/2009
Ma non si creda che il disegno non possa avere e non abbia una sua propria autonomia, una sua propria vita nel contesto dell’arte del ritratto o pittorica.
Così, senza eccessiva forzatura, potrei affermare che vi sono disegni che non balbettano il soggetto pittorico, ma che essi stessi sono temi finiti, consegnati ai cultori del bello, forse meno alla categoria leziosa dei critici, i quali spesso amano crogiolarsi nei codici consolidati (non a caso il grande De Chirico sosteneva che nessun uomo serio e coscienzioso potrebbe attribuirsi il titolo di ‘critico d’arte’). Se compito dell’artista non è rappresentare ma esprimere, come sosteneva van Gogh, è immediato concludere che un disegnatore è un artista a tutto tondo al quale non manca nulla, né talento né espressività; anch’egli è un tornitore di sensi, come un vasaio all’opera al suo tornio, una mano che si libra su un foglio bianco per dare espressione visiva e simbolica a quel mondo interiore che scalcia e scalpita, che si agita a contatto col visibile, che tenta di ritrarne i contenuti estetici a partire da una percezione intima e soggettiva, anch’essa estetica, talvolta nevrotica, il che accade tutte le volte che il futuribile titilla l’anima, tentandola ad una affannosa ed estenuante ricerca di novità di fogge e contenuti.
Qui si va ben oltre l’invito alle forme semplici di Cézanne (“Trattare la natura secondo il cilindro, la sfera, il cono”) o le sei leggi della pittura citate da Shieh Ho, poiché si procede oltre le regole e certo formalismo . Qui si parla di Spirito , il quale talvolta troverebbe arduo adattarsi alla carne, secondo la tesi del grande umanista francese Jean Guitton, sebbene sia lungi da me la visione platonica della scissione fra anima e corpo, più convincente e prossima al vero quella olistica. Eppure per chi coltiva le arti pare si determini una frattura insanabile fra lo “spirito” ed il “bruto”, che Charles Baudelaire, l’inverecondo autore della raccolta poetica Les Fleurs du Mal, esponeva con schietta rozzezza nell’approccio diverso alla sessualità dell’artista rispetto al popolano (“Più l’uomo coltiva le arti, meno scopa. Si ha un divorzio sempre più sensibile fra lo spirito ed il bruto. Soltanto il bruto fotte bene, e fottere è il lirismo del popolo”).
Il testo “Nel Segno del Tratto – Disegni del Novecento Pugliese”, egregiamente curato da Carmelo Cipriani e Domenico Toto, è un inno allo Spirito, un’appendice preziosa e finanche necessaria al volume “Echi dal Novecento Pugliese. Omaggio a Domenico Cantatore”, anch’esso offertoci dai due curatori nel contesto della mostra omonima svoltasi a Ruvo di Puglia dal 26 luglio al 9 agosto del 2008, il quale già conteneva alcuni disegni di Domenico Cantatore (ad esempio, i ritratti di Leonardo Sinisgalli e di Caterina Lelj, entrambi del 1938).
Anche “Nel Segno del Tratto – Disegni del Novecento Pugliese” scaturisce dalla omonima mostra tenutasi nell’ex Convento dei Domenicani di Ruvo dal 10 al 20 settembre del 2009, e ci presenta una raffinata carrellata di disegni di artisti del calibro di Francesco Saverio Netti, Gioacchino Toma, Geremia Re, Francesco Di Terlizzi e Domenico Cantatore, Giuseppe Ar, Antonio Lanave, Antonio Piccini ed altri di non minore talento e tecnica.
Un testo, quello di Cipriani e Toto, che spazia con leggerezza e leggiadria nel mondo del tratto, impropriamente reputato parente povero dell’opera pittorica, e che ci allerta sulla urgenza di conservare e promuovere un patrimonio culturale che, se sa di antico, ci restituisce per tale ragione alle nostre origini, ai volti, alle fisionomie, ai luoghi di un tempo, passato solo per l’incuria, la superficialità e la volgarità di chi, non amando il bello ed ignorando lo Spirito, inevitabilmente sottovaluta o distrugge.
Salvatore Bernocco
Copyright 2010 - Studi Bitontini, n. 88/2009
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domenica 25 luglio 2010
LA TRADIZIONE TRADITA
Dovremmo partire da un’analisi semantica. Che cosa significa tradizione? Da dove deriva questo termine talvolta abusato, conculcato per transitorie quanto incomprensibili motivazioni, legate alle mode o, peggio ancora, ai capricci di qualcuno?
Dunque, il termine tradizione viene dal latino traditio-onis, ‘consegna, trasmissione’, e deriva da traděre, ‘consegnare’. La tradizione reca in sé il suo tradimento, giacché il verbo tradire deriva anch’esso da traděre. Forse non è un caso. È arduo conservare integro quanto ci è stato tramandato da coloro che ci hanno preceduto, un po’ per sciatteria, un po’ per lassismo, un po’ per il maledetto nuovismo, che è una forma di nevrosi, e un po’ perché vi è il vezzo di voler lasciare un’impronta, la propria, sul suolo della tradizione, come accade alle star di Hollywood sulla Hollywood Boulevard, la celeberrima "strada delle stelle", disseminata di impronte dei divi sul cemento. Un’orma o una ferita. Il risultato è lo stesso che è dato osservare quando un pavimento musivo secolare viene calpestato da centinaia di piedi villici e rozzi: non si distingue più il disegno; i tasselli sopravvissuti appaiono scoloriti; alcune aree sono scarnificate. Insomma, una devastazione che griderebbe vendetta al cospetto di un’autorità garante delle tradizioni, che purtroppo non è stata ancora istituita.
Questo proemio è inerente alla nostra tradizionale festa dell’Ottavario del Corpus Domini, che si tiene nel mese di giugno (almeno questo è scontato e non è soggetto a stravolgimenti). Lo scenario non è più quello tradizionale, ma quello deciso da non si sa bene chi e perché. C’erano una volta cinque altari, cinque momenti di sosta per onorare il SS. Sacramento, in devoto raccoglimento: Piazza Bovio, Corso Carafa (S. Giacomo al Corso), Piazza Matteotti, Porta Nuova (Purgatorio), Piazza Menotti Garibaldi. Questa volta ci sono state tre soste ed un nuovo giro del corteo processionale, che si è snodato per Via Corato e ha fatto tappa nei pressi dell’Ospedale. Il centro storico è andato a farsi benedire. Zero soste, nessun altare: un contributo all’abbandono di un’area che andrebbe valorizzata e che è stata destinata a zona di sosta, sì, ma di autovetture. È sopravvissuta Piazza Matteotti, dove, a detta di molti presenti, il Vescovo ha dettato una meditazione incentrata più sul rispetto delle tradizioni, che palesemente non c’è stato, che sul significato religioso della festa del Corpus Domini. Scarsissimo il raccoglimento, a cui pure i sacerdoti avevano richiamato i fedeli durante le messe celebrate la domenica mattina. Probabilmente ha complottato lo svolgimento contestuale del mercato, enfaticamente chiamato fiera, che, sempre secondo la tradizione, non dovrebbe tenersi. Il mercato, per consuetudine, si tiene infatti il sabato mattina lungo l’Estramurale Pertini, e là dovrebbe restare confinato, senza interferire con la festa religiosa. Glissiamo sul programma delle iniziative di contorno, ancora una volta deludenti. Per mancanza di fondi? Per la mancata contribuzione dei ruvesi? Anche per queste ragioni, certo, sebbene non si veda perché si debba contribuire a sostenere tradizioni che poi verranno tradite e stravolte.
Già numerose – orami innumerevoli – volte, la Pro Loco ha richiamato l’attenzione delle istituzioni civili e religiose sulla necessità di salvaguardare le tradizioni culturali, religiose, popolari della nostra città, dedicando riflessioni pubbliche puntuali proprio alla festa patronale dell’Ottavario del Corpus Domini. Dobbiamo constatare che il silenzio sul punto è frastornante. Nessuna iniziativa degna di nota è stata assunta per rimettere ordine nel caos della festa ed arginare le mene di qualcuno.
La festa patronale è patrimonio di tutti i ruvesi. Non è appannaggio di questo o di quello. Se si partisse da questo assunto di base, probabilmente si farebbe qualche passo avanti. Purtroppo temiamo che anche questa volta il nostro appello cadrà nel vuoto, certificando l’insensibilità di certi poteri nei confronti di un paese che vanta tradizioni secolari.
Salvatore Bernocco
Copyright 2010 Il Rubastino
Dunque, il termine tradizione viene dal latino traditio-onis, ‘consegna, trasmissione’, e deriva da traděre, ‘consegnare’. La tradizione reca in sé il suo tradimento, giacché il verbo tradire deriva anch’esso da traděre. Forse non è un caso. È arduo conservare integro quanto ci è stato tramandato da coloro che ci hanno preceduto, un po’ per sciatteria, un po’ per lassismo, un po’ per il maledetto nuovismo, che è una forma di nevrosi, e un po’ perché vi è il vezzo di voler lasciare un’impronta, la propria, sul suolo della tradizione, come accade alle star di Hollywood sulla Hollywood Boulevard, la celeberrima "strada delle stelle", disseminata di impronte dei divi sul cemento. Un’orma o una ferita. Il risultato è lo stesso che è dato osservare quando un pavimento musivo secolare viene calpestato da centinaia di piedi villici e rozzi: non si distingue più il disegno; i tasselli sopravvissuti appaiono scoloriti; alcune aree sono scarnificate. Insomma, una devastazione che griderebbe vendetta al cospetto di un’autorità garante delle tradizioni, che purtroppo non è stata ancora istituita.
Questo proemio è inerente alla nostra tradizionale festa dell’Ottavario del Corpus Domini, che si tiene nel mese di giugno (almeno questo è scontato e non è soggetto a stravolgimenti). Lo scenario non è più quello tradizionale, ma quello deciso da non si sa bene chi e perché. C’erano una volta cinque altari, cinque momenti di sosta per onorare il SS. Sacramento, in devoto raccoglimento: Piazza Bovio, Corso Carafa (S. Giacomo al Corso), Piazza Matteotti, Porta Nuova (Purgatorio), Piazza Menotti Garibaldi. Questa volta ci sono state tre soste ed un nuovo giro del corteo processionale, che si è snodato per Via Corato e ha fatto tappa nei pressi dell’Ospedale. Il centro storico è andato a farsi benedire. Zero soste, nessun altare: un contributo all’abbandono di un’area che andrebbe valorizzata e che è stata destinata a zona di sosta, sì, ma di autovetture. È sopravvissuta Piazza Matteotti, dove, a detta di molti presenti, il Vescovo ha dettato una meditazione incentrata più sul rispetto delle tradizioni, che palesemente non c’è stato, che sul significato religioso della festa del Corpus Domini. Scarsissimo il raccoglimento, a cui pure i sacerdoti avevano richiamato i fedeli durante le messe celebrate la domenica mattina. Probabilmente ha complottato lo svolgimento contestuale del mercato, enfaticamente chiamato fiera, che, sempre secondo la tradizione, non dovrebbe tenersi. Il mercato, per consuetudine, si tiene infatti il sabato mattina lungo l’Estramurale Pertini, e là dovrebbe restare confinato, senza interferire con la festa religiosa. Glissiamo sul programma delle iniziative di contorno, ancora una volta deludenti. Per mancanza di fondi? Per la mancata contribuzione dei ruvesi? Anche per queste ragioni, certo, sebbene non si veda perché si debba contribuire a sostenere tradizioni che poi verranno tradite e stravolte.
Già numerose – orami innumerevoli – volte, la Pro Loco ha richiamato l’attenzione delle istituzioni civili e religiose sulla necessità di salvaguardare le tradizioni culturali, religiose, popolari della nostra città, dedicando riflessioni pubbliche puntuali proprio alla festa patronale dell’Ottavario del Corpus Domini. Dobbiamo constatare che il silenzio sul punto è frastornante. Nessuna iniziativa degna di nota è stata assunta per rimettere ordine nel caos della festa ed arginare le mene di qualcuno.
La festa patronale è patrimonio di tutti i ruvesi. Non è appannaggio di questo o di quello. Se si partisse da questo assunto di base, probabilmente si farebbe qualche passo avanti. Purtroppo temiamo che anche questa volta il nostro appello cadrà nel vuoto, certificando l’insensibilità di certi poteri nei confronti di un paese che vanta tradizioni secolari.
Salvatore Bernocco
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LA CABALA
Il giovane Pasquale De Palo lascia la segreteria del PD ed al suo posto si insedia Caterina Montaruli, frequentatrice di lungo corso della politica ruvestina, già candidata a sindaco per il centrosinistra e consigliere comunale. La scelta della Montaruli sembra derivare da un accordo fra l’area degli ex popolari (grassiani), quella che fa capo all’Assessore regionale Minervini e qualche ex pidiessino. Non tutti erano d’accordo, al di là della raggiunta unanimità. Obiettivo inconfessato: arginare l’influenza politica di qualcun altro? Potrebbe darsi, non mi meraviglierei più di tanto. Ci sono incrostazioni e vecchie logiche che potrebbero dileguarsi solo se ci fosse un generale repulisti, cosa altamente improbabile. Le rivoluzioni radicali non piacciono a nessuno, specie nella nostra Ruvo dove gli intrecci parentali ed amicali (e gli interessi personali e di cordata) condizionano pesantemente il quadro politico e la sua evoluzione. Ma non sono bene accette neppure le mezze rivoluzioni, un po’ per amore del quieto vivere, un po’ perché si temono ripercussioni, punizioni trasversali, convergenze parallele. E mi sovviene quanto mi confidò mio padre anni or sono con riguardo all’ambito politico e non solo: a Ruvo tutti hanno paura di tutti. Le pecore prevalgono, e di molto, sui leoni. Le lepri, poi, non si contano, e le iene e gli avvoltoi si aggirano minacciosi intorno ai presunti cadaveri politici.
A ben vedere, quindi, le rivoluzioni non piacciono proprio, e ciò è segno di stagnazione e di chiusura. Lo stesso ex segretario del PD è stato molto esplicito al riguardo nel corso della sua brillante ed applaudita relazione, quando ha detto che a Ruvo “il tempo degli “ex-qualcosa” è finito, il tempo dei “neo” non è ancora maturato, ma nel contempo si sono create e solidificate diverse sensibilità nel nostro partito ruvese, sulla base di fattori aggreganti a me poco chiari. Si è scelta la strada breve dell’individuare l’unitarietà delle candidature, quella facile dei numeri, non già quella della condivisione di percorsi ed obiettivi.” Il questo passaggio c’è tutto il reale disagio di un giovane segretario che ha dovuto prendere atto della mancata rivoluzione, totale e parziale, che è prima culturale e quindi politica. È storia francamente non nuova, e mi sorprende che ci si possa ancora sorprendere del fatto che la politica tenda a rinnovare se stessa senza rinnovare un fico secco, in un gioco lezioso di parole che fanno da contorno a scenari triti e ritriti. Il Gattopardo docet. In politica si va dall’estetista per rifarsi il look e dare una limata alle unghie, che comunque restano ben affilate come lame di coltelli. Questa è la politica con la “p” minuscola. Le maiuscole appartengono al mondo delle utopie e soltanto agli esordi dei periodi. Non è forse vero che in ortografia il punto è seguito dalla lettera maiuscola? Dopo, inevitabilmente, seguono le minuscole, e dal Bolscioi si transita ai teatrini di provincia, maleodoranti e pregni di fumo, in un batter d’occhio, con tutto, o quasi, il carro di Tespi. Durante il tragitto i meloni si assestano: non si deve disturbare il manovratore, e con gli altri meloni è saggio andare d’amore e d’accordo. Dal lifting e dall’alta chirurgia plastica alla cafonaggine delle dita nel naso il passo è breve, talvolta impercettibile. Molti se ne accorgono ma si distraggono e girano la testa dall’altro lato: il galateo lasciamolo ai salotti e alle cene di gala, la politica è lacrime e sangue, dicono, sgomitate e compromesso, perché no! La polvere intanto si deposita sui mobili delle tradizioni e delle culture politiche d’origine. Le occasioni mancate gridano vendetta al cospetto dei grandi del pensiero politico e di quanti, di tutti gli schieramenti politici, consentirono a Ruvo di fare un salto di qualità, molto, ma molto tempo addietro.
Intanto il centrosinistra candiderà chi? Stragapede? Ottombrini? Crispino? Le scommesse sono aperte. Siamo alla cabala. Varrà la logica del consenso interno o quella della qualità programmatica? Si terrà conto del gradimento dell’opinione pubblica o dei consuntivi? Si partirà, come è giusto che sia, da un esame dell’attività amministrativa svolta o non svolta in questi cinque anni, evidenziandone luci ed ombre, terrazzi e scantinati, oppure se ne farà pregiudizialmente a meno, aderendo all’invalso luogo comune per cui questa Amministrazione ha fatto poco o non ha fatto niente?
Nel PDL siamo alla bagarre. Accuse incrociate, minacce di stroncare carriere e di commissariamenti sono state affidate a documenti di chiara provenienza, a dichiarazioni più o meno pubbliche e alle voci della notte. Giovanni Mazzone, e non solo, si è opposto a Matteo Paparella, il quale ha messo sul tavolo una questione politica: l’autoreferenzialità del direttivo del PDL, sublimando il disagio del coordinatore Salvatore Barile e mettendo sul banco degli imputati Mazzone, il quale, come altri dirigenti del PDL, devono “dimostrare di avere una personale legittimazione elettorale verificabile con consultazioni elettorali amministrative che ne attestino il reale radicamento sul territorio. Trattasi evidentemente di un antica regola democratica propedeutica per legittimare aspettative personali elettive comunque di rappresentanza a tutti i livelli”.
Intelligenti pauca. Qui c’è sotto la questione dei patti non mantenuti, che siano della crostata, della braciola o del caminetto poco importa. Chi fu a rompere il patto di ferro fra le componenti interne, ora carta straccia, Paparella o Fitto? Avrebbe potuto il candidato locale del PDL alle Regionali opporre il grande rifiuto, alla maniera di Celestino V? Che cosa si siano detti Fitto e Paparella non si sa. I colloqui sono privati e coperti da una coltre di segreto. Tuttavia, secondo un’antica quanto saggia regola, pacta sunt servanda, i patti si onorano. Sempre. Il proprio contributo consistente alla campagna elettorale di un altro si può dare anche stando dietro le quinte, lavorando per questi dopo che questi si è prodigato in altre occasioni. Non si deve lavorare solo per se stessi. Su questo ci sono pochi dubbi: le parole date non si ritirano, se non in un caso, se c’è l’accordo comune ed una nuova intesa. Nel frattempo, chi subisce i contraccolpi di questa querelle è il candidato a sindaco del centrodestra, Franco Catalano, lanciato in tempi di bonaccia, forse con largo anticipo. Alcuni danno ora in bilico la sua candidatura, indebolita dalla frattura interna al PDL, che potrebbe aprire scenari inediti. Di certo c’è che, come un regno diviso al suo interno è destinato a perire, così una coalizione lacerata semplicemente non c’è più, è destinata ad implodere. E, temo, a seppellire chi avrebbe dovuto condurla alla vittoria.
Salvatore Bernocco
Copyright 2010 Il Rubastino
A ben vedere, quindi, le rivoluzioni non piacciono proprio, e ciò è segno di stagnazione e di chiusura. Lo stesso ex segretario del PD è stato molto esplicito al riguardo nel corso della sua brillante ed applaudita relazione, quando ha detto che a Ruvo “il tempo degli “ex-qualcosa” è finito, il tempo dei “neo” non è ancora maturato, ma nel contempo si sono create e solidificate diverse sensibilità nel nostro partito ruvese, sulla base di fattori aggreganti a me poco chiari. Si è scelta la strada breve dell’individuare l’unitarietà delle candidature, quella facile dei numeri, non già quella della condivisione di percorsi ed obiettivi.” Il questo passaggio c’è tutto il reale disagio di un giovane segretario che ha dovuto prendere atto della mancata rivoluzione, totale e parziale, che è prima culturale e quindi politica. È storia francamente non nuova, e mi sorprende che ci si possa ancora sorprendere del fatto che la politica tenda a rinnovare se stessa senza rinnovare un fico secco, in un gioco lezioso di parole che fanno da contorno a scenari triti e ritriti. Il Gattopardo docet. In politica si va dall’estetista per rifarsi il look e dare una limata alle unghie, che comunque restano ben affilate come lame di coltelli. Questa è la politica con la “p” minuscola. Le maiuscole appartengono al mondo delle utopie e soltanto agli esordi dei periodi. Non è forse vero che in ortografia il punto è seguito dalla lettera maiuscola? Dopo, inevitabilmente, seguono le minuscole, e dal Bolscioi si transita ai teatrini di provincia, maleodoranti e pregni di fumo, in un batter d’occhio, con tutto, o quasi, il carro di Tespi. Durante il tragitto i meloni si assestano: non si deve disturbare il manovratore, e con gli altri meloni è saggio andare d’amore e d’accordo. Dal lifting e dall’alta chirurgia plastica alla cafonaggine delle dita nel naso il passo è breve, talvolta impercettibile. Molti se ne accorgono ma si distraggono e girano la testa dall’altro lato: il galateo lasciamolo ai salotti e alle cene di gala, la politica è lacrime e sangue, dicono, sgomitate e compromesso, perché no! La polvere intanto si deposita sui mobili delle tradizioni e delle culture politiche d’origine. Le occasioni mancate gridano vendetta al cospetto dei grandi del pensiero politico e di quanti, di tutti gli schieramenti politici, consentirono a Ruvo di fare un salto di qualità, molto, ma molto tempo addietro.
Intanto il centrosinistra candiderà chi? Stragapede? Ottombrini? Crispino? Le scommesse sono aperte. Siamo alla cabala. Varrà la logica del consenso interno o quella della qualità programmatica? Si terrà conto del gradimento dell’opinione pubblica o dei consuntivi? Si partirà, come è giusto che sia, da un esame dell’attività amministrativa svolta o non svolta in questi cinque anni, evidenziandone luci ed ombre, terrazzi e scantinati, oppure se ne farà pregiudizialmente a meno, aderendo all’invalso luogo comune per cui questa Amministrazione ha fatto poco o non ha fatto niente?
Nel PDL siamo alla bagarre. Accuse incrociate, minacce di stroncare carriere e di commissariamenti sono state affidate a documenti di chiara provenienza, a dichiarazioni più o meno pubbliche e alle voci della notte. Giovanni Mazzone, e non solo, si è opposto a Matteo Paparella, il quale ha messo sul tavolo una questione politica: l’autoreferenzialità del direttivo del PDL, sublimando il disagio del coordinatore Salvatore Barile e mettendo sul banco degli imputati Mazzone, il quale, come altri dirigenti del PDL, devono “dimostrare di avere una personale legittimazione elettorale verificabile con consultazioni elettorali amministrative che ne attestino il reale radicamento sul territorio. Trattasi evidentemente di un antica regola democratica propedeutica per legittimare aspettative personali elettive comunque di rappresentanza a tutti i livelli”.
Intelligenti pauca. Qui c’è sotto la questione dei patti non mantenuti, che siano della crostata, della braciola o del caminetto poco importa. Chi fu a rompere il patto di ferro fra le componenti interne, ora carta straccia, Paparella o Fitto? Avrebbe potuto il candidato locale del PDL alle Regionali opporre il grande rifiuto, alla maniera di Celestino V? Che cosa si siano detti Fitto e Paparella non si sa. I colloqui sono privati e coperti da una coltre di segreto. Tuttavia, secondo un’antica quanto saggia regola, pacta sunt servanda, i patti si onorano. Sempre. Il proprio contributo consistente alla campagna elettorale di un altro si può dare anche stando dietro le quinte, lavorando per questi dopo che questi si è prodigato in altre occasioni. Non si deve lavorare solo per se stessi. Su questo ci sono pochi dubbi: le parole date non si ritirano, se non in un caso, se c’è l’accordo comune ed una nuova intesa. Nel frattempo, chi subisce i contraccolpi di questa querelle è il candidato a sindaco del centrodestra, Franco Catalano, lanciato in tempi di bonaccia, forse con largo anticipo. Alcuni danno ora in bilico la sua candidatura, indebolita dalla frattura interna al PDL, che potrebbe aprire scenari inediti. Di certo c’è che, come un regno diviso al suo interno è destinato a perire, così una coalizione lacerata semplicemente non c’è più, è destinata ad implodere. E, temo, a seppellire chi avrebbe dovuto condurla alla vittoria.
Salvatore Bernocco
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giovedì 15 luglio 2010
IL PDL SI SPACCA
Cosa sta succedendo in casa PDL? Ci sono frange finiane in rivolta che reclamano decisioni collegiali, che sgomitano per ottenere più spazio, che si battono per sterilizzare altre frange che, stando ad un comunicato diramato dai paparelliani (tanto per esemplificare), comandano troppo pur non avendo ottenuto nessun consenso popolare? Quanto vale sotto il profilo politico chi non si è mai candidato a niente? Questa è la sottolineatura di fondo dei paparelliani. Oppure tutto nasce da un accordo siglato qualche tempo addietro, poco prima delle elezioni provinciali, quando si decise il tridente da schierare agli appuntamenti elettorali: Franco Catalano, candidato alla carica di sindaco; Matteo Paparella, candidato al Consiglio provinciale; Antonello Paparella o un altro politico di area ex AN, candidato alle regionali? Un patto di ferro sancito pubblicamente, con annessa foto di gruppo. Tutti soddisfatti. Tutti al settimo cielo. Col placet dei coordinatori Giovanni Mazzone e Salvatore Barile.
I finiani non c’entrano niente. Crediamo che a Ruvo non ce ne siano o, se ci sono, non ne siamo a conoscenza. Di vero c’è che Matteo Paparella entra in Consiglio provinciale e viene nominato assessore. Una risurrezione politica in piena regola che molti non si aspettavano. A chi va il merito? Chi ha vestito i panni del Cristo che risuscita Lazzaro? Qui la questione si fa un tantino delicata, proprio perché tira in ballo il potenziale elettorale dei singoli, la capacità organizzativa di un partito, il lavoro dei coordinatori e dei comitati. Ebbene, secondo alcuni si sarebbe trattato di auto-resurrezione, nel senso che Paparella avrebbe fatto tutto da solo, secondo la tradizione anglosassone del selfmade man o sulla scia del vecchio adagio italico “chi fa da sé fa per tre”. Secondo altri, l’apporto dei coordinatori, consiglieri, componenti del direttivo, sarebbe stato decisivo. Comunque stiano le cose, fatto sta che, probabilmente galvanizzato dal consenso ottenuto, Paparella non seppe resistere alle avance del Ministro Raffaele Fitto, il quale gli avrebbe chiesto di candidarsi al Consiglio regionale per sostenere la candidatura, deboluccia, di Rocco Palese. Il patto di ferro si sfarina, nascono i primi dissensi. Il coordinatore Mazzone, che pure si era impegnato perché Paparella entrasse in Giunta, minaccia di dimettersi. Per un certo periodo si dimette. Poi, sollecitato dai vertici sovracomunali del partito, vi rientra, ma con un suo piglio e con le sue ragioni. I patti vanno mantenuti, disse. Come non dargli ragione?
Due domande nascono spontanee. Fitto decide ed il PDL ruvese non ne sa nulla? Grave mancanza di tatto. Scarsissimo rispetto per gli organismi di partito. I dissidenti/dissenzienti prendono strade diverse, appoggiano candidati forestieri, portano via fette di consenso al candidato locale. La resa dei conti è già nell’aria, e si terrà subito dopo l’esito elettorale, negativo tanto per Palese che per Paparella.
Seconda domanda: perché non chiedere la convocazione dell’organismo interno di partito e discutere della scelta di Fitto o di chi per lui? Che cosa sarebbe accaduto di così grave? Posti di fronte alla decisione inappellabile del leader indiscusso del PDL pugliese, pensiamo che nessuno avrebbe potuto eccepire alcunché. Si sarebbe preso atto. Si sarebbero rivisti i termini dell’accordo iniziale. Si sarebbero trovati altri aggiustamenti. Così non è stato. Il mistero è Fitto.
Duro scontro interno, dunque. Una riunione finita in malo modo. Mazzone che attacca Paparella, il quale, per tutta risposta, articola un documento politico in cui, sostanzialmente, si chiede la sua destituzione, anzi il commissariamento della sezione. Viene salvato, non si sa bene perché, Salvatore Barile. I firmatari del documento si asterranno dal partecipare alle riunioni del direttivo fino a soluzione del problema da parte degli organismi di partito sovracomunali. Contro-documento puntuale del Coordinamento, anch’esso sottoposto a Bari, firmato da consiglieri comunali e componenti del direttivo, la maggioranza.
Dove condurrà questa diatriba? Di certo c’è che essa rischia seriamente di danneggiare il cammino del candidato a sindaco del centrodestra, Francesco Catalano, lanciato forse troppo presto ed in epoca di bonaccia. Poi, com’è noto e risaputo, in politica le cose cambiano. Basta un nonnulla per far saltare tavoli ed accordi e semmai immaginare candidature a sindaco fuori dagli accordi primigeni. Oppure, come profetizzò il Lupo Marsicano, alias Franco Marini, il momento migliore per siglare un accordo a tenuta stagna è proprio quello di massimo conflitto. Staremo a vedere.
Salvatore Bernocco
Copyright 2010 La Nuova Città
BONIFICHE E CONVERSIONI: PER UN’ESTATE DI RIPENSAMENTI
Stamattina, appena alzato e prima di correre al mare, mi sono casualmente imbattuto in un pensiero del padre gesuita indiano Anthony de Mello (1931-1987): “La religione non è una questione di rituali o di studi accademici. Non è un tipo di culto o compiere delle buone azioni. La religione consiste nello sradicare le impurità del cuore. Questa è la via da percorrere per incontrare Dio.” È proprio così: la religione può essere una manifestazione puramente esteriore che lascia intatto il desolante quadro interiore. Nessun reale cambiamento, nessuna bonifica dei pensieri, nessuna conversione del cuore, ma esteriorità, rituale, paravento che cela ogni sorta di deficienza morale e spirituale. Quelle che de Mello chiama “le buone azioni” possono anch’esse veicolare all’esterno il nostro egoismo, per cui compio una buona azione per gratificare il mio ego piuttosto che per vero amore del mio prossimo. Peggio ancora sarebbe compiere una buona azione per amore di Dio e non dell’uomo, col quale Dio ha voluto identificarsi.
E che dire di certa teologia (gli “studi accademici”) che scava nel mistero insondabile di Dio, confondendo le acque e tramutando il Vangelo in testo filosofico? Comprendere sempre meglio il Vangelo non implica un atto o uno sforzo intellettuale, ma l’adozione di un altro modus vivendi: farsi piccoli, perché soltanto i piccoli, gli umili, i dimenticati hanno accesso alle profondità del mistero di Dio. È Dio stesso che si mostra ai suoi piccoli senza mediazioni umane. L’accesso al cuore del Padre dei poveri è precluso ai dotti ed ai sapienti. Lo ha detto il Cristo: “Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli” (Mt 11, 25-30). Chi sono “i piccoli”? Qualcuno asserisce che siano i discepoli. Può darsi, sebbene preferisca pensare agli umili, ai pastori che si recarono alla grotta di Betlemme, ai tre pastorelli di Fatima, a Bernadette Soubirous, all'indio Juan Diego, al quale apparve la Madonna a Guadalupe, in Messico, a san Francesco D’Assisi. Povertà nel senso letterale del termine, semplicità, assenza di beni cui attaccarsi, rinuncia e distacco dalle sicurezze del denaro e del potere per aderire alle ricchezze del Cristo.
Dobbiamo essere sinceri. Dire la verità non è mai peccato, anzi. C’è una parte della Chiesa-istituzione che cinguetta col potere. Ci sono stati e ci sono esempi nella Chiesa cattolica da non seguire. Alla implacabilità dei principi morali impartiti al popolo dei fedeli non sempre ha corrisposto un comportamento moralmente ineccepibile da parte di molti aderenti alla Chiesa cattolica, si tratti di prelati, di sacerdoti, di suore o di semplici fedeli laici. Portiamo sulle spalle un fardello pesante di responsabilità verso il mondo, al quale avremmo dovuto rivelare il Cristo nella sua onnipotenza d’amore e di salvezza. Sua Santità Benedetto XVI ha ammesso, con verità e senza mezzi termini, che il pericolo peggiore per la Chiesa viene dal suo interno, dal peccato dei suoi membri. È una dichiarazione di forte impatto e dalle molteplici prospettive, cui faranno seguito atti consequenziali. Questo Papa non è affatto debole, sta affrontando con coraggio e fermezza molti nodi venuti al pettine, e lo farà al meglio delle sue possibilità.
È una fase di catarsi e di conversione dei cuori. È una stagione delicata, dolorosa, ma necessaria. Dal male Dio trarrà il bene. Ciascuno di noi è interpellato a collaborare a questo rinnovamento morale e spirituale, partendo da se stesso, dalle proprie azioni, dalle proprie idee, che vanno ri-orientate. Bonificarci per bonificare ed essere meno indegni di Colui che diede la vita per noi. È il compito per questa estate. Arrivederci a settembre! Salvatore Bernocco
Copyright 2010 Fermento, Luglio-Agosto 2010
E che dire di certa teologia (gli “studi accademici”) che scava nel mistero insondabile di Dio, confondendo le acque e tramutando il Vangelo in testo filosofico? Comprendere sempre meglio il Vangelo non implica un atto o uno sforzo intellettuale, ma l’adozione di un altro modus vivendi: farsi piccoli, perché soltanto i piccoli, gli umili, i dimenticati hanno accesso alle profondità del mistero di Dio. È Dio stesso che si mostra ai suoi piccoli senza mediazioni umane. L’accesso al cuore del Padre dei poveri è precluso ai dotti ed ai sapienti. Lo ha detto il Cristo: “Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli” (Mt 11, 25-30). Chi sono “i piccoli”? Qualcuno asserisce che siano i discepoli. Può darsi, sebbene preferisca pensare agli umili, ai pastori che si recarono alla grotta di Betlemme, ai tre pastorelli di Fatima, a Bernadette Soubirous, all'indio Juan Diego, al quale apparve la Madonna a Guadalupe, in Messico, a san Francesco D’Assisi. Povertà nel senso letterale del termine, semplicità, assenza di beni cui attaccarsi, rinuncia e distacco dalle sicurezze del denaro e del potere per aderire alle ricchezze del Cristo.
Dobbiamo essere sinceri. Dire la verità non è mai peccato, anzi. C’è una parte della Chiesa-istituzione che cinguetta col potere. Ci sono stati e ci sono esempi nella Chiesa cattolica da non seguire. Alla implacabilità dei principi morali impartiti al popolo dei fedeli non sempre ha corrisposto un comportamento moralmente ineccepibile da parte di molti aderenti alla Chiesa cattolica, si tratti di prelati, di sacerdoti, di suore o di semplici fedeli laici. Portiamo sulle spalle un fardello pesante di responsabilità verso il mondo, al quale avremmo dovuto rivelare il Cristo nella sua onnipotenza d’amore e di salvezza. Sua Santità Benedetto XVI ha ammesso, con verità e senza mezzi termini, che il pericolo peggiore per la Chiesa viene dal suo interno, dal peccato dei suoi membri. È una dichiarazione di forte impatto e dalle molteplici prospettive, cui faranno seguito atti consequenziali. Questo Papa non è affatto debole, sta affrontando con coraggio e fermezza molti nodi venuti al pettine, e lo farà al meglio delle sue possibilità.
È una fase di catarsi e di conversione dei cuori. È una stagione delicata, dolorosa, ma necessaria. Dal male Dio trarrà il bene. Ciascuno di noi è interpellato a collaborare a questo rinnovamento morale e spirituale, partendo da se stesso, dalle proprie azioni, dalle proprie idee, che vanno ri-orientate. Bonificarci per bonificare ed essere meno indegni di Colui che diede la vita per noi. È il compito per questa estate. Arrivederci a settembre! Salvatore Bernocco
Copyright 2010 Fermento, Luglio-Agosto 2010
giovedì 17 giugno 2010
INTERVISTA AD HYPERION
Don Tonino ci spiega il multiculturalismo
Intervista a Salvatore Bernocco, autore di un saggio su Don Tonino Bello
Una semplice lezione spesso è l’occasione giusta per mettere a confronto idee ed emozioni senza barriere linguistiche: il discorso potrebbe nascere in inglese e concludersi facilmente accarezzando un altro idioma. Parlando di multiculturalità e fenomeni migratori, non è stato difficile considerare il testo che il nostro amico Salvatore Bernocco, un affezionatissimo della “penna”, ha pubblicato su Mons. Antonio Bello dal titolo “Sul passo degli ultimi”.
La voglia di voler condividere quei pensieri con tutti gli amici di Hyperion ha bussato subito alla porta, tanto da spingerci a parlare con Salvatore (che abbiamo già conosciuto con le sue poesie qualche mese fa) sul nostro blog, quasi fossimo in una normale lezione. Ora, se volete, tocca a voi commentare e apportare il vostro contributo.
In copertina, Don Tonino accarezza dei bambini africani. Scorrendo tra i capitoli spesso si parla di “convivialità delle differenze”.
«Più volte nei discorsi e negli scritti di Don Tonino si è parlato di diversità tra i popoli, di accoglienza come valori positivi. L’espressione “convivialità delle differenze” si riferisce ad una tavola imbandita, dove siedono tutti gli uomini senza distinzioni. L’idea della tavola assume un valore importante poiché offre l’immagine di una vera uguaglianza sostanziale: tutti i commensali sono sullo stesso livello, hanno gli stessi diritti, non ci sono discriminazioni».
Perché esorcizzare lo straniero?
«Abbiamo timore dello straniero perché ci mette in crisi apportando nuovi valori e culture con le quali confrontarsi. Ovviamente, non tutti vogliono mettersi in discussione. Don Tonino ha concretizzato la parola “accoglienza” con la prima mensa domenicale per marocchini, alla quale egli stesso sedeva per condividere la povertà, accettando quello che avanzava. Oggi c’è il rischio di confondere l’accoglienza con lo sfruttamento di poveri immigrati messi nei campi a lavorare per pochi soldi».
Cosa ha rappresentato Don Tonino per la tua vita?
«Quando era in vita, lo ascoltavamo perché era carismatico, ma non ne ero un “seguace in senso stretto”. Dalla sua morte in poi ho scoperto cose che prima non conoscevo».
Cosa?
«In una lettera, ad esempio, mi parlava di libertà e tolleranza verso chi non la pensa come noi, di guardarmi dagli adulatori. Sii fiero della tua libertà, mi scrisse da Alessano».
Perché è ancora amato?
«Si è concretamente occupato degli umili: recupero dei tossicodipendenti; viaggi negli scenari di guerra, come a Sarajevo quando era ormai già segnato dalla malattia; la mensa per gli immigrati, come abbiamo visto. Ha vissuto realmente la povertà evangelica».
Abbiamo aperto parlando di “accoglienza” e “convivialità delle differenze”. Che ruolo gioca, in questo, la conoscenza delle lingue straniere?
«Conoscere le lingue straniere, l’inglese in particolare, ti permette di entrare in contatto con tantissima gente eliminando qualsiasi barriera linguistica e di avere quindi un contatto diretto, tangibile, con chi non condivide la stessa cultura. Personalmente, ho sempre avuto una grande passione per le lingue straniere. Negli anni ’70 iniziai a frequentare il Lord Byron College, che fondò la prima sede proprio a Ruvo. L’amore per l’inglese nasce sicuramente grazie alla musica, considerandomi un grande estimatore di Barry White».
Per qualcuno, la passione per le culture straniere mette a repentaglio l’identità nazionale…
«Non sono in contrasto. È un arricchimento mantenere la propria cultura originaria ed orientarsi verso una straniera. In USA, per esempio, c’è un grande interesse per la lingua italiana e per quella latina. Proprio gli States, come sappiamo, ci mostrano la convivenza reale di più culture».
Siamo giunti al termine. L’occasione, lo speriamo, ci ha fatto conoscere attraverso le parole di Salvatore Bernocco un minimo tratto del pensiero di Don Tonino Bello. Chiudiamo con questo passaggio riportato nel quarto capitolo: «se il colore della pelle è una variabile dipendente, l’amore è indipendente da ogni valutazione cromatica. Nelle diversità dei popoli, anzi, si annida una ricchezza che solo i miopi non scorgono».
a cura di Alessandro Acella
Intervista a Salvatore Bernocco, autore di un saggio su Don Tonino Bello
Una semplice lezione spesso è l’occasione giusta per mettere a confronto idee ed emozioni senza barriere linguistiche: il discorso potrebbe nascere in inglese e concludersi facilmente accarezzando un altro idioma. Parlando di multiculturalità e fenomeni migratori, non è stato difficile considerare il testo che il nostro amico Salvatore Bernocco, un affezionatissimo della “penna”, ha pubblicato su Mons. Antonio Bello dal titolo “Sul passo degli ultimi”.
La voglia di voler condividere quei pensieri con tutti gli amici di Hyperion ha bussato subito alla porta, tanto da spingerci a parlare con Salvatore (che abbiamo già conosciuto con le sue poesie qualche mese fa) sul nostro blog, quasi fossimo in una normale lezione. Ora, se volete, tocca a voi commentare e apportare il vostro contributo.
In copertina, Don Tonino accarezza dei bambini africani. Scorrendo tra i capitoli spesso si parla di “convivialità delle differenze”.
«Più volte nei discorsi e negli scritti di Don Tonino si è parlato di diversità tra i popoli, di accoglienza come valori positivi. L’espressione “convivialità delle differenze” si riferisce ad una tavola imbandita, dove siedono tutti gli uomini senza distinzioni. L’idea della tavola assume un valore importante poiché offre l’immagine di una vera uguaglianza sostanziale: tutti i commensali sono sullo stesso livello, hanno gli stessi diritti, non ci sono discriminazioni».
Perché esorcizzare lo straniero?
«Abbiamo timore dello straniero perché ci mette in crisi apportando nuovi valori e culture con le quali confrontarsi. Ovviamente, non tutti vogliono mettersi in discussione. Don Tonino ha concretizzato la parola “accoglienza” con la prima mensa domenicale per marocchini, alla quale egli stesso sedeva per condividere la povertà, accettando quello che avanzava. Oggi c’è il rischio di confondere l’accoglienza con lo sfruttamento di poveri immigrati messi nei campi a lavorare per pochi soldi».
Cosa ha rappresentato Don Tonino per la tua vita?
«Quando era in vita, lo ascoltavamo perché era carismatico, ma non ne ero un “seguace in senso stretto”. Dalla sua morte in poi ho scoperto cose che prima non conoscevo».
Cosa?
«In una lettera, ad esempio, mi parlava di libertà e tolleranza verso chi non la pensa come noi, di guardarmi dagli adulatori. Sii fiero della tua libertà, mi scrisse da Alessano».
Perché è ancora amato?
«Si è concretamente occupato degli umili: recupero dei tossicodipendenti; viaggi negli scenari di guerra, come a Sarajevo quando era ormai già segnato dalla malattia; la mensa per gli immigrati, come abbiamo visto. Ha vissuto realmente la povertà evangelica».
Abbiamo aperto parlando di “accoglienza” e “convivialità delle differenze”. Che ruolo gioca, in questo, la conoscenza delle lingue straniere?
«Conoscere le lingue straniere, l’inglese in particolare, ti permette di entrare in contatto con tantissima gente eliminando qualsiasi barriera linguistica e di avere quindi un contatto diretto, tangibile, con chi non condivide la stessa cultura. Personalmente, ho sempre avuto una grande passione per le lingue straniere. Negli anni ’70 iniziai a frequentare il Lord Byron College, che fondò la prima sede proprio a Ruvo. L’amore per l’inglese nasce sicuramente grazie alla musica, considerandomi un grande estimatore di Barry White».
Per qualcuno, la passione per le culture straniere mette a repentaglio l’identità nazionale…
«Non sono in contrasto. È un arricchimento mantenere la propria cultura originaria ed orientarsi verso una straniera. In USA, per esempio, c’è un grande interesse per la lingua italiana e per quella latina. Proprio gli States, come sappiamo, ci mostrano la convivenza reale di più culture».
Siamo giunti al termine. L’occasione, lo speriamo, ci ha fatto conoscere attraverso le parole di Salvatore Bernocco un minimo tratto del pensiero di Don Tonino Bello. Chiudiamo con questo passaggio riportato nel quarto capitolo: «se il colore della pelle è una variabile dipendente, l’amore è indipendente da ogni valutazione cromatica. Nelle diversità dei popoli, anzi, si annida una ricchezza che solo i miopi non scorgono».
a cura di Alessandro Acella
venerdì 11 giugno 2010
PERCHE’ I CATTOLICI IN POLITICA?
Periodicamente torna di attualità la questione della partecipazione dei cattolici alla vita politica del nostro Paese. Ne ha scritto ultimamente sulla Gazzetta del Mezzogiorno anche Mons. Ruppi. Perché sarebbe necessaria tale presenza? Quale sarebbe lo specifico apporto dei cattolici alla politica? Quale diversa qualità li connoterebbe rispetto ai “laici”?
Il discorso è complesso ed attiene al messaggio evangelico, che tutto trasuda amore per l’uomo e le comunità degli uomini, dove si sperimentano la quotidianità del vivere, la difficoltà di essere uomini e donne portatori naturalmente di diritti inalienabili, di dignità non conculcabili né dallo Stato né da altri. Vi sono diritti alla vita, alla pace ed alla felicità che rivengono per via diretta da una lettura in termini sociali ed economici dei vangeli. Il messaggio di Dio agli uomini è un messaggio di pace e di fecondità di vita.
Non appartiene al Cristianesimo una visione di una felicità posticipata all’aldilà. È una lettura errata e nera dei vangeli, pessimistica e demotivante: se la felicità è raggiungibile solo in Paradiso, perché saremmo venuti al mondo? Solo per soffrire e morire, come talune correnti cattoliche postulano? Esse seminano dolore in eccesso e timori di cui Gesù non ha mai parlato. Egli, anzi, ha parlato di felicità piena, conseguibile già qui ed ora. Come? In che modo? Mettendosi al servizio degli altri, senza nulla pretendere in cambio, inaugurando un circolo virtuoso di amore a cui risponde altro amore. Questo è il centro del messaggio evangelico: la letizia e l’amore che la genera.
Il cristiano che si impegna in politica porta con sé questa visione della vita; è capace, con la preghiera e la meditazione, di scrutare i segni dei tempi grazie ad una sensibilità spirituale che molti non posseggono. Il cristiano scruta i segni, li legge alla luce del vangelo, ne trae spunti di analisi per progettare città a misura d’uomo, in cui regnino la solidarietà e la prosperità. Il bene comune è il bene pubblico, e su questa simmetria egli si incontra con tutti gli uomini e le donne di buona volontà che, partendo da altri umanesimi, hanno a cuore l’uomo, la vita, la creazione. Il dialogo fra culture politiche diverse nasce da questo comune fondamento: la tutela della vita umana, dalla nascita alla fine naturale. Su queste questioni etiche ci sono scontri e polemiche e, direi, grosse contraddizioni che andrebbero superate con intelligenza e sapienza. Un esempio: aree di pacifismo e di ambientalismo laici postulano la difesa dell’ambiente e della vita animale, ma dicono cose poco convincenti rispetto alla tutela della vita nascente e morente. Aborto ed eutanasia, secondo me, contrastano finanche con i presupposti ideologici del pacifismo e dell’ambientalismo. Prenderne coscienza sarebbe un grosso passo avanti. Ecco, il cattolico pone questioni di merito senza integralismi e con pieno rispetto per le altrui visioni, in un rapporto che, come ci insegnavano Moro e Dell’Andro, è di confronto e di dialogo, giacché nel dialogo qualcosa di noi resta in loro e viceversa. La nuova umanità nasce sempre da atti di amore e di dialogo, da un arricchimento reciproco che è vita nuova in corso d’opera.
Salvatore Bernocco
Il discorso è complesso ed attiene al messaggio evangelico, che tutto trasuda amore per l’uomo e le comunità degli uomini, dove si sperimentano la quotidianità del vivere, la difficoltà di essere uomini e donne portatori naturalmente di diritti inalienabili, di dignità non conculcabili né dallo Stato né da altri. Vi sono diritti alla vita, alla pace ed alla felicità che rivengono per via diretta da una lettura in termini sociali ed economici dei vangeli. Il messaggio di Dio agli uomini è un messaggio di pace e di fecondità di vita.
Non appartiene al Cristianesimo una visione di una felicità posticipata all’aldilà. È una lettura errata e nera dei vangeli, pessimistica e demotivante: se la felicità è raggiungibile solo in Paradiso, perché saremmo venuti al mondo? Solo per soffrire e morire, come talune correnti cattoliche postulano? Esse seminano dolore in eccesso e timori di cui Gesù non ha mai parlato. Egli, anzi, ha parlato di felicità piena, conseguibile già qui ed ora. Come? In che modo? Mettendosi al servizio degli altri, senza nulla pretendere in cambio, inaugurando un circolo virtuoso di amore a cui risponde altro amore. Questo è il centro del messaggio evangelico: la letizia e l’amore che la genera.
Il cristiano che si impegna in politica porta con sé questa visione della vita; è capace, con la preghiera e la meditazione, di scrutare i segni dei tempi grazie ad una sensibilità spirituale che molti non posseggono. Il cristiano scruta i segni, li legge alla luce del vangelo, ne trae spunti di analisi per progettare città a misura d’uomo, in cui regnino la solidarietà e la prosperità. Il bene comune è il bene pubblico, e su questa simmetria egli si incontra con tutti gli uomini e le donne di buona volontà che, partendo da altri umanesimi, hanno a cuore l’uomo, la vita, la creazione. Il dialogo fra culture politiche diverse nasce da questo comune fondamento: la tutela della vita umana, dalla nascita alla fine naturale. Su queste questioni etiche ci sono scontri e polemiche e, direi, grosse contraddizioni che andrebbero superate con intelligenza e sapienza. Un esempio: aree di pacifismo e di ambientalismo laici postulano la difesa dell’ambiente e della vita animale, ma dicono cose poco convincenti rispetto alla tutela della vita nascente e morente. Aborto ed eutanasia, secondo me, contrastano finanche con i presupposti ideologici del pacifismo e dell’ambientalismo. Prenderne coscienza sarebbe un grosso passo avanti. Ecco, il cattolico pone questioni di merito senza integralismi e con pieno rispetto per le altrui visioni, in un rapporto che, come ci insegnavano Moro e Dell’Andro, è di confronto e di dialogo, giacché nel dialogo qualcosa di noi resta in loro e viceversa. La nuova umanità nasce sempre da atti di amore e di dialogo, da un arricchimento reciproco che è vita nuova in corso d’opera.
Salvatore Bernocco
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DALLA PARTE DEL SANTO PADRE
Se guardiamo, a distanza di qualche tempo e a mente più serena, alla campagna di stampa ordita contro il Santo Padre e la Chiesa cattolica, non possiamo esimerci dall’evidenziarne la virulenza e la pretestuosità. Intendiamoci bene su un punto: la pedofilia è un crimine abominevole, degno della massima riprovazione, di una severa condanna non soltanto morale ma anche penale. Chi lo compie commette un peccato di inaudita gravità, specie poi se veste l’abito talare o è un religioso. Chi ha fatto voto di servire Dio non può nel contempo servire l’Anticristo. L’inferno sarà semmai più duro per costoro (ma aggiungo anche per chi, pur sapendo, omise di intervenire), ha ammonito Monsignor Charles Scicluna, il "promotore di giustizia" della Congregazione per la Dottrina della Fede, come se ci fosse una sorta di gradazione della pena là dove le anime bruciano per la lontananza da Dio. Se l’Inferno dantesco fosse attuale, costoro sarebbero posti nel girone dei lussuriosi o dei traditori. Tuttavia, ci preme sottolineare che la reazione del Santo Padre è stata ferma e decisa. Non ci sono sconti per nessuno né più coperture o trasferimenti di sede. La sofferenza di Benedetto XVI è intensa per i peccati della Chiesa, a cui si richiede totale conformità all’insegnamento evangelico, esempio coerente e fedele, amore casto verso gli uomini, specie i più indifesi. La conversione della Chiesa è un tema di estrema attualità. Anch’essa infatti è chiamata a convertirsi, a vestire i panni del buon samaritano, liberandosi di quelli del fariseo e del levita o del lupo travestito da pecora. Come scrive il più grande esorcista vivente, Padre Gabriele Amorth, anche nella Chiesa si avverte puzza di zolfo. Lo affermò, suscitando un certo stupore, anche Paolo VI molti anni or sono.
Ma, detto questo, non comprendiamo come mai analoghi polveroni mediatici non siano stati sollevati per analoghi terribili episodi accaduti all’interno di altre confessioni religiose. Non si comprende fino in fondo perché si sia spulciato nella vita di Benedetto XVI e finanche in quella di Giovanni Paolo II, a caccia di scoop, di elementi da cui potesse evincersi l’infedeltà di costoro, un’azione sistematicamente volta a coprire i misfatti di taluni loschi individui. Non parliamo di complotto, ce ne guarderemmo bene, ma di una tendenza a demonizzare tutta la Chiesa per i peccati di alcuni, partendo dal basso per sferrare colpi in alto, alla cieca, facendo di tutta l’erba un fascio. È un’operazione pericolosa e dagli esiti imprevedibili.
Ma non tutto il male viene per nuocere. Questo è il momento propizio per liberarsi di pesi e zavorre, imboccare nuove vie, separare, per quanto possibile, il grano dalla zizzania, anche se la zizzania ha il colore della porpora. L’umanità ha bisogno di esempi positivi, di credere che Dio ami attraverso l’amore disinteressato di uomini e donne cristiani. Rivelare il Dio infinitamente buono spetta a ciascun cristiano. In caso contrario assisteremmo ad una fuga non soltanto dalla Chiesa, ma dall’idea stessa di un Dio misericordioso e amante. Non ci sarebbe esito più nefasto di questo.
Salvatore Bernocco
Fermento, Giugno 2010
Ma, detto questo, non comprendiamo come mai analoghi polveroni mediatici non siano stati sollevati per analoghi terribili episodi accaduti all’interno di altre confessioni religiose. Non si comprende fino in fondo perché si sia spulciato nella vita di Benedetto XVI e finanche in quella di Giovanni Paolo II, a caccia di scoop, di elementi da cui potesse evincersi l’infedeltà di costoro, un’azione sistematicamente volta a coprire i misfatti di taluni loschi individui. Non parliamo di complotto, ce ne guarderemmo bene, ma di una tendenza a demonizzare tutta la Chiesa per i peccati di alcuni, partendo dal basso per sferrare colpi in alto, alla cieca, facendo di tutta l’erba un fascio. È un’operazione pericolosa e dagli esiti imprevedibili.
Ma non tutto il male viene per nuocere. Questo è il momento propizio per liberarsi di pesi e zavorre, imboccare nuove vie, separare, per quanto possibile, il grano dalla zizzania, anche se la zizzania ha il colore della porpora. L’umanità ha bisogno di esempi positivi, di credere che Dio ami attraverso l’amore disinteressato di uomini e donne cristiani. Rivelare il Dio infinitamente buono spetta a ciascun cristiano. In caso contrario assisteremmo ad una fuga non soltanto dalla Chiesa, ma dall’idea stessa di un Dio misericordioso e amante. Non ci sarebbe esito più nefasto di questo.
Salvatore Bernocco
Fermento, Giugno 2010
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mercoledì 12 maggio 2010
RUVO DIMENTICA IL 9 MAGGIO E ALDO MORO
Gentile Direttore,
premetto di essere stato allevato politicamente alla scuola di Aldo Moro fin da diciassettenne, quando entrai a far parte del Movimento Giovanile della D.C. Mio padre ne fu un seguace della prima ora, apprezzandone le qualità politiche, culturali ed umane, non disgiunte dalla testimonianza cristiana, tenace e sincera, emersa anche nei giorni terribili della sua detenzione nella prigione del popolo delle Brigate Rosse. Con mia madre furono a casa sua, in via dei Fori Trionfali a Roma, orami molti anni fa. Mi descrissero una casa senza sfarzi, comune, ed una famiglia semplice ed accogliente. Nel mio studio, accanto alla mia scrivania, vi è una foto di Moro a Ruvo dei primi anni ’70 del precedente secolo. Gli sono accanto Trisorio Liuzzi, Francesco Anselmi, indimenticato segretario politico della D.C., l’on. Laforgia, che ho avuto il piacere di rivedere qualche giorno addietro. Alle sue spalle si scorgono l’on. Dell’Andro e uno degli uomini della sua scorta, Oreste Leonardi, che sarà trucidato quel terribile 16 marzo 1978 in via Fani.
Quando rileggo i suoi scritti e discorsi, mi accorgo di quale capacità di analisi della situazione politica vi fosse in lui, della sua visione lungimirante e, per molti versi, profetica. Descritto, anche in un recente libro di Pansa, “I Cari estinti”, come involuto ed incomprensibile, Moro in realtà aveva una sottile e complessa dialettica, non già per gusto intellettualoide o per confondere le acque, ma perché l’esercizio del pensare e del riflettere è complesso, non è affatto agevole. Complesso sì, quindi, ma non complicato. La realtà, specie quella odierna, è variegata ed articolata; la politica, che è esercizio di realismo, ne rispecchia l’articolazione, la complessità dei rapporti e delle relazioni, degli interessi e delle istanze. Ma c’era in lui anche l’utopia come prefigurazione di una nuova fase storica e sociale, che andava affrancandosi da zavorre e pesi ereditati dal passato. Le sue riflessioni sul ’68 – che non fu tutto rose e fiori - non furono trancianti o reclamanti un ritorno all’ordine e alla severità, spesso di facciata, di un mondo ormai tramontato, che sopravviveva in determinate sacche della società italiana, ma aperte al confronto, attente ai segni dei tempi, che andavano letti e decifrati con intelligenza e spirito libero ed aperto.
Moro non fu un passatista né un conservatore. Semplicemente perché il cristiano non può esserlo, in quanto figlio di Colui che fa nuove tutte le cose. E con Ruvo Moro ebbe un rapporto molto stretto, che si rinnovava ad ogni tornata elettorale e tutte le volte che il paese necessitava di interventi per sollevarsi dal punto di vista economico. Sarebbe lunghissimo l’elenco delle opere pubbliche realizzate grazie al suo interessamento.
Ma Ruvo fa fatica a ricordarlo pubblicamente, come pare abbia dimenticato un altro suo grande benefattore, il sen. Onofrio Jannuzzi. Mi rammarica constatare che parti politiche che dovrebbero mantenerne vivo il ricordo e l’insegnamento abbiano fatto passare sotto silenzio il 9 maggio, in cui si commemorano Moro e tutte le vittime del terrorismo, comprese quelle del terrore mafioso come il siciliano Peppino Impastato, ucciso lo stesso giorno in cui fu assassinato Moro. Mi rammarica per una semplice ragione, perché i giovani, specie coloro che intendessero occuparsi di politica, saranno sempre più privi di punti di riferimento culturali e morali, incalzati dai vaniloqui della attuale classe politica nazionale che, tranne poche eccezioni, non offre uno spettacolo particolarmente edificante, o meglio uno show con veline, corruttori ed escort. Ricordare Aldo Moro, Salvemini, Tommaso Fiore, Berlinguer ed altri, con opportune manifestazioni, non è esercizio di retorica o sfoggio di vecchiume e dell’argenteria di famiglia, tanto per darle una lucidata, ma un momento di riflessione sui contenuti della politica e della vita, su cosa significhi fare politica al servizio delle persone e delle comunità. Senza cultura, ci diceva Renato Dell’Andro, non c’è politica. C’è solo improvvisazione e goffaggine, azioni scoordinate e senza respiro.
Caro Direttore, è uno sfogo sommesso che affido a lei e alla folta platea di Ruvo live, certo di interpretare il pensiero e la perplessità di molti iscritti ai partiti del centrosinistra ruvese, che mi hanno accostato e con i quali ho lungamente parlato. La mia speranza è che si comprenda che soltanto arieggiando le nostre radici culturali sarà possibile favorire un reale cambiamento, in senso più umano e civile, della politica, tanto a livello locale che nazionale.
Gradisca i miei ossequi.
(Lettera a ruvolive e ruvodipugliaweb)
premetto di essere stato allevato politicamente alla scuola di Aldo Moro fin da diciassettenne, quando entrai a far parte del Movimento Giovanile della D.C. Mio padre ne fu un seguace della prima ora, apprezzandone le qualità politiche, culturali ed umane, non disgiunte dalla testimonianza cristiana, tenace e sincera, emersa anche nei giorni terribili della sua detenzione nella prigione del popolo delle Brigate Rosse. Con mia madre furono a casa sua, in via dei Fori Trionfali a Roma, orami molti anni fa. Mi descrissero una casa senza sfarzi, comune, ed una famiglia semplice ed accogliente. Nel mio studio, accanto alla mia scrivania, vi è una foto di Moro a Ruvo dei primi anni ’70 del precedente secolo. Gli sono accanto Trisorio Liuzzi, Francesco Anselmi, indimenticato segretario politico della D.C., l’on. Laforgia, che ho avuto il piacere di rivedere qualche giorno addietro. Alle sue spalle si scorgono l’on. Dell’Andro e uno degli uomini della sua scorta, Oreste Leonardi, che sarà trucidato quel terribile 16 marzo 1978 in via Fani.
Quando rileggo i suoi scritti e discorsi, mi accorgo di quale capacità di analisi della situazione politica vi fosse in lui, della sua visione lungimirante e, per molti versi, profetica. Descritto, anche in un recente libro di Pansa, “I Cari estinti”, come involuto ed incomprensibile, Moro in realtà aveva una sottile e complessa dialettica, non già per gusto intellettualoide o per confondere le acque, ma perché l’esercizio del pensare e del riflettere è complesso, non è affatto agevole. Complesso sì, quindi, ma non complicato. La realtà, specie quella odierna, è variegata ed articolata; la politica, che è esercizio di realismo, ne rispecchia l’articolazione, la complessità dei rapporti e delle relazioni, degli interessi e delle istanze. Ma c’era in lui anche l’utopia come prefigurazione di una nuova fase storica e sociale, che andava affrancandosi da zavorre e pesi ereditati dal passato. Le sue riflessioni sul ’68 – che non fu tutto rose e fiori - non furono trancianti o reclamanti un ritorno all’ordine e alla severità, spesso di facciata, di un mondo ormai tramontato, che sopravviveva in determinate sacche della società italiana, ma aperte al confronto, attente ai segni dei tempi, che andavano letti e decifrati con intelligenza e spirito libero ed aperto.
Moro non fu un passatista né un conservatore. Semplicemente perché il cristiano non può esserlo, in quanto figlio di Colui che fa nuove tutte le cose. E con Ruvo Moro ebbe un rapporto molto stretto, che si rinnovava ad ogni tornata elettorale e tutte le volte che il paese necessitava di interventi per sollevarsi dal punto di vista economico. Sarebbe lunghissimo l’elenco delle opere pubbliche realizzate grazie al suo interessamento.
Ma Ruvo fa fatica a ricordarlo pubblicamente, come pare abbia dimenticato un altro suo grande benefattore, il sen. Onofrio Jannuzzi. Mi rammarica constatare che parti politiche che dovrebbero mantenerne vivo il ricordo e l’insegnamento abbiano fatto passare sotto silenzio il 9 maggio, in cui si commemorano Moro e tutte le vittime del terrorismo, comprese quelle del terrore mafioso come il siciliano Peppino Impastato, ucciso lo stesso giorno in cui fu assassinato Moro. Mi rammarica per una semplice ragione, perché i giovani, specie coloro che intendessero occuparsi di politica, saranno sempre più privi di punti di riferimento culturali e morali, incalzati dai vaniloqui della attuale classe politica nazionale che, tranne poche eccezioni, non offre uno spettacolo particolarmente edificante, o meglio uno show con veline, corruttori ed escort. Ricordare Aldo Moro, Salvemini, Tommaso Fiore, Berlinguer ed altri, con opportune manifestazioni, non è esercizio di retorica o sfoggio di vecchiume e dell’argenteria di famiglia, tanto per darle una lucidata, ma un momento di riflessione sui contenuti della politica e della vita, su cosa significhi fare politica al servizio delle persone e delle comunità. Senza cultura, ci diceva Renato Dell’Andro, non c’è politica. C’è solo improvvisazione e goffaggine, azioni scoordinate e senza respiro.
Caro Direttore, è uno sfogo sommesso che affido a lei e alla folta platea di Ruvo live, certo di interpretare il pensiero e la perplessità di molti iscritti ai partiti del centrosinistra ruvese, che mi hanno accostato e con i quali ho lungamente parlato. La mia speranza è che si comprenda che soltanto arieggiando le nostre radici culturali sarà possibile favorire un reale cambiamento, in senso più umano e civile, della politica, tanto a livello locale che nazionale.
Gradisca i miei ossequi.
(Lettera a ruvolive e ruvodipugliaweb)
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domenica 9 maggio 2010
Don Tonino Bello, amante di Cristo ed amico degli uomini
Diciassette anni fa, il 20 aprile 1993, Don Tonino spirava, lasciando segni indelebili del suo passaggio su questa terra di Puglia e nella Chiesa diocesana e non solo. Il suo insegnamento non sta tanto nelle sue parole, leggere ed incisive come poesie, quanto nei suoi gesti ed atti, nel suo comportamento, autentiche testimonianze dell’amore di Cristo per i poveri, gli ultimi, i dimenticati, gli oppressi dalle tante strutture di peccato che soffocano l’uomo e ne uccidono la speranza nell’avvento di un tempo isaitico, tempo di pace, di eclissi definitiva del male, di esaltazione del bene e del bello, di vittoria della paternità e della maternità di Dio sugli escamotage e gli inganni dell’Anticristo, il quale ordisce soffocanti reticoli di morte.
Don Tonino fu difensore della vita umana, attore e protagonista di battaglie per il lavoro, per la risurrezione dei giovani abbindolati dalle lusinghe delle droghe, che danno piacere senza benessere e poi dolori infiniti, per la difesa del territorio pugliese dall’occupazione manu militari con aerei e testate mortifere. Fu propugnatore di politiche dal volto umano, misericordiose, rivolgendo ai politici molti (ed inascoltati) appelli a prendersi cura delle città e delle parti più deboli e ferite di esse.
Si rivolse ai suoi sacerdoti con la tenerezza di un padre, invitandoli ad abbracciare la povertà evangelica in vista della ricchezza inestimabile del regno di Dio, a disfarsi di ritualismi senza anima per condividere la ferialità del quotidiano, per scendere a testa alta nelle piazze e nelle strade non per fare opera di proselitismo, ma per operare il bene, dal quale scaturiscono credibilità, fiducia, fede e rinnovato desiderio di Dio.
La nuova evangelizzazione di don Tonino verteva sulla veridicità della testimonianza personale. Evangelizzare, in altre parole, vuol dire essere cristiani piuttosto che dirsi cristiani, secondo la penetrante riflessione del cardinale Tettamanzi. Fedele interprete del Concilio Vaticano II, avrebbe tradotto sul piano pastorale le attese e le speranze da esso suscitate, quella nuova primavera punteggiata di freschezza, pulizia, carità, apertura al mondo di cui sono portatori sani gli uomini e le donne permeati dalla forza dello Spirito Santo che, se accolto, fa nuove tutte le cose. Senza dimenticare quanto sta scuotendo la Chiesa, chiamata a purificarsi e a convertirsi per le miserie di pochi che vengono spacciate come mancanze di una moltitudine, con don Tonino, memori del suo messaggio e dei suoi gesti, siamo chiamati ad interpretare una diversità che non è mai lontananza dalle cose del mondo, ma lievito e fermento di una coscienza rinnovata e sensibile, refrattaria all’egoismo, che interpella gli animi ed i cuori di chi è alla ricerca della verità e di un senso da dare alla propria vita.
Salvatore Bernocco - Fermento Maggio 2010
venerdì 23 aprile 2010
La Chiesa ed i suoi peccati
Nascondersi dietro un dito non serve a nulla. Celare, glissare, inventarsi giustificazioni, trasferire, assumere contegni sdegnati è profondamente errato. La verità, come ci è stato insegnato fin da piccoli, prima o poi viene a galla, e si impone sulle mistificazioni e le menzogne. Bisogna andare a fondo, fare pulizia, giudicare partendo da se stessi, disfarsi senza indugio del male fatto agli altri, pagare un prezzo che, se riguarda creature innocenti ed indifese, deve essere altissimo. La pedofilia è una pratica abominevole e diffusa. È un peccato mortale ed è un reato penale. Per i sacerdoti ed i religiosi che si siano macchiati di tale infamante peccato (e reato), tale prezzo non può che consistere nell’allontanamento immediato dal ministero. Non hanno vocazione, sono predatori di anime candide, lupi travestiti da pecore. Bisogna dargli il benservito. Che vadano altrove a curarsi, se possibile, e a riflettere sulle loro miserie, sottomettendosi alla giustizia umana, ai tribunali civili, senza godere di coperture e scudi.
La Chiesa di Cristo non può assolutamente tollerare che uomini e donne che hanno fatto voto di fedeltà ad essa, di amare, di essere casti, di perseguire la purezza, violentino i piccoli di Dio, i bambini. È meglio per costoro che si mettano una macina al collo e si gettino a mare. Papa Benedetto XVI ha intrapreso un cammino di pulizia, malgrado gli attacchi di certa stampa. E non da oggi. Ricordo perfettamente che uno dei primi atti del suo pontificato è consistito nel rimuovere dal suo ministero padre Gino Burresi, fondatore dei Servi del Cuore Immacolato di Maria, il quale si è ritirato a vita privata. Tra i motivi del provvedimento, il decreto del 27 maggio 2005 della Congregazione per la dottrina della fede – il primo emesso dalla Congregazione nel pontificato di Benedetto XVI e che porta la firma del nuovo Prefetto, l’ex Arcivescovo di San Francisco, il Cardinale Levada -, anche le accuse di abuso sessuale rivolte contro il religioso da alcuni che furono suoi seguaci e seminaristi negli anni Settanta e Ottanta.
Idem dicasi per il sacerdote messicano, fondatore dei Legionari di Cristo, Marcial Maciel Degollado, sospeso a divinis il 19 maggio 2006 per pedofilia, violazione del segreto confessionale ed alcune relazioni sessuali che il fondatore aveva intrattenuto con donne dalle quali ha avuto anche alcuni figli. La prima visita apostolica, dal 1956 al 1959, non giunse mai a una formale conclusione a causa della morte di Pio XII. Nel 2004, l'allora cardinale Joseph Ratzinger chiese ed ottenne da Giovanni Paolo II l'autorizzazione a riaprire il caso. A seguito di questa nuova indagine, nel gennaio del 2005 il sacerdote fu costretto a dimettersi dal Prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, sotto il pontificato di Benedetto XVI.
Provvedimenti che parlano da soli e sui quali occorre perseverare, ove necessario. È un momento di penitenza e di conversione, come ha ricordato Sua Santità. È un periodo di prova, di sofferenza e di buio da cui può sorgere una Chiesa più cristiana. Non è questione di omosessualità né di celibato: l’omosessualità è una tendenza che non conduce necessariamente al peccato, mentre la pedofilia è una depravazione (come non rammentare il turismo sessuale di tanti italiani? Moltissimi non sono né celibi né tanto meno gay). Piuttosto è questione di coerenza e di fede, di santità, di invocazione incessante allo Spirito Santo, affinché non abbandoni il cuore dell’uomo e lo renda un essere nuovo e nobile, un alter Christus.
copyright Salvatore Bernocco
La Chiesa di Cristo non può assolutamente tollerare che uomini e donne che hanno fatto voto di fedeltà ad essa, di amare, di essere casti, di perseguire la purezza, violentino i piccoli di Dio, i bambini. È meglio per costoro che si mettano una macina al collo e si gettino a mare. Papa Benedetto XVI ha intrapreso un cammino di pulizia, malgrado gli attacchi di certa stampa. E non da oggi. Ricordo perfettamente che uno dei primi atti del suo pontificato è consistito nel rimuovere dal suo ministero padre Gino Burresi, fondatore dei Servi del Cuore Immacolato di Maria, il quale si è ritirato a vita privata. Tra i motivi del provvedimento, il decreto del 27 maggio 2005 della Congregazione per la dottrina della fede – il primo emesso dalla Congregazione nel pontificato di Benedetto XVI e che porta la firma del nuovo Prefetto, l’ex Arcivescovo di San Francisco, il Cardinale Levada -, anche le accuse di abuso sessuale rivolte contro il religioso da alcuni che furono suoi seguaci e seminaristi negli anni Settanta e Ottanta.
Idem dicasi per il sacerdote messicano, fondatore dei Legionari di Cristo, Marcial Maciel Degollado, sospeso a divinis il 19 maggio 2006 per pedofilia, violazione del segreto confessionale ed alcune relazioni sessuali che il fondatore aveva intrattenuto con donne dalle quali ha avuto anche alcuni figli. La prima visita apostolica, dal 1956 al 1959, non giunse mai a una formale conclusione a causa della morte di Pio XII. Nel 2004, l'allora cardinale Joseph Ratzinger chiese ed ottenne da Giovanni Paolo II l'autorizzazione a riaprire il caso. A seguito di questa nuova indagine, nel gennaio del 2005 il sacerdote fu costretto a dimettersi dal Prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, sotto il pontificato di Benedetto XVI.
Provvedimenti che parlano da soli e sui quali occorre perseverare, ove necessario. È un momento di penitenza e di conversione, come ha ricordato Sua Santità. È un periodo di prova, di sofferenza e di buio da cui può sorgere una Chiesa più cristiana. Non è questione di omosessualità né di celibato: l’omosessualità è una tendenza che non conduce necessariamente al peccato, mentre la pedofilia è una depravazione (come non rammentare il turismo sessuale di tanti italiani? Moltissimi non sono né celibi né tanto meno gay). Piuttosto è questione di coerenza e di fede, di santità, di invocazione incessante allo Spirito Santo, affinché non abbandoni il cuore dell’uomo e lo renda un essere nuovo e nobile, un alter Christus.
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