venerdì 30 ottobre 2009

La Dolce Vita - Sweet Life (English version)


Su spartito di vita dolce

amore era in ogni nota

senza uso di ragione

per il solo piacere di cantare.



On the score of sweet life

love was in every note

without reason

for the pleasure of singing.

mercoledì 28 ottobre 2009

Viaggio spirituale (cap.6)


6.Le statue dell’Immacolata e di S. Giuseppe
Procedendo verso l’artistico altare realizzato nel 1992 da Vito Zaza, troviamo sulla sinistra la bella statua dell’Immacolata, che si attribuisce ad Achille De Lucrezi. Realizzata nel 1904, fu donata da Francesco Girasoli. L’icona sorprende per la gentilezza dei tratti della Vergine, della quale si esalta il dogma della sua immacolatezza, sancito da Pio IX con la bolla Ineffabilis Deus del 1854. “La Madonna è l’Immacolata Concezione – scrive mons. Mennonna nel suo Piccolo Glossario del Cristianesimo – perché concepita immune dal peccato originale o macchia originale per singolare privilegio divino […] confermato dalla stessa Vergine SS. nelle apparizioni a S. Bernadetta Soubirou (25 marzo 1858)”. La Vergine, Madre di Dio e madre nostra, è stata cantata da poeti e scrittori. Di straordinaria potenza evocativa, mistica direi, è la Vergine del Sommo Poeta. Nel Canto XXXI del Paradiso, S. Bernardo invita Dante a guardare verso la schiera dei beati, disposti a forma di candida rosa, dove nel punto più alto c’è Maria, grazie alla quale egli potrà sostenere la visione di Dio. La straordinaria ed impareggiabile bellezza della Vergine emerge dai versi del Poeta: “Vidi a lor giochi quivi e a lor canti/ridere una bellezza, che letizia/era ne li occhi a tutti li altri Santi;/e s’io avessi in dir tanta dovizia/quanta ad immaginar, non ardirei/lo minimo tentar di sua delizia[1]”. Una visione che è l’incanto e la gioia dei santi, e che nessuna parola umana, per quanto ricca e capace di volute immaginifiche, può minimamente descrivere. In controluce compaiono le parole di Paolo, che scrive alla comunità di Corinto, citando Isaia: “Sta scritto infatti: Quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono in cuore di uomo, queste ha preparato Dio per coloro che lo amano[2]”. L’uomo che vive secondo lo Spirito è in grado di esprimere “cose spirituali in termini spirituali”, come ancora si esprime l’Apostolo. Dante è uno di costoro, dà voce ad un anelito profondo presente nell’animo umano di bellezza infinita, di gioia senza fine, quindi di Dio. L’Immacolata è segno dell’infinita bellezza di Dio che fa nuove tutte le cose in Cristo. L’uomo naturale – sono sempre insegnamenti di Paolo – non è in grado di comprendere le cose dello Spirito di Dio perché non ha “il pensiero di Cristo”. È quindi necessario vigilare affinché l’uomo cosiddetto naturale, che cioè vive la dimensione esclusivamente materiale senza curarsi di farla fermentare, di farla lievitare per portarla al suo massimo significato e senso, non prenda il sopravvento sull’uomo che vive secondo il piano di Dio, secondo il suo Spirito, che non imbriglia ma libera, e liberando porta a compimento ogni cosa. Qui non si tratta di postulare una sorta di fuga dalla realtà di ogni giorno o di dimenticare la materia, ma di viverla e di usarne secondo i valori e la misura suggeriti dall’amore in cui è lo Spirito di Dio. Maria fu creatura spirituale in sommo grado perché fu capace di amare secondo quello Spirito. L’icona donata dal Girasoli, e alla quale la comunità ruvese è molto legata, immette in questo circuito virtuoso di pensieri ed aneliti, regala di questi inebriamenti, dona la speranza del Paradiso.
La statua di S. Giuseppe (1907), opera di Giuseppe Manzo, schiude altri scenari spirituali ricchi di implicazioni ed insegnamenti. Nulla quaestio sulla purezza di Giuseppe, che tuttavia talvolta viene relegato in un angolo, come se fosse un santo di serie inferiore, persino inferiore per importanza alla sua sposa, Maria. Il centenario dell’icona è stato particolarmente significativo grazie alla presenza ed alla parola di uno dei massimi esperti cattolici del padre putativo di Gesù, Padre Tarcisio Stramare osj, che ho avuto modo di incontrare e di intervistare, il quale mi strappò un sorriso quando disse che se “sulla Madonna ci sono quattro dogmi, tutti contestati, su S. Giuseppe ce ne sono due, sicurissimi: su S. Giuseppe c’è poco da sapere; quel poco da sapere io già lo so, e quindi il discorso è chiuso”. In realtà S. Giuseppe, scelto da S. Teresa D’Avila quale patrono della vita interiore, andrebbe rivalutato quanto meno per i suoi corposi silenzi, senza i quali non può esserci vita spirituale, non si è più in contatto con la propria sfera intima, si è disarmonici ed inconcludenti. L’uomo veramente attivo e paziente conosce bene la pratica del silenzio interiore. L’uomo che ama ne fa esperienza, poiché non vi può essere amore vero se di esso si fa propaganda o lo si dà in pasto all’agorà. La stessa carità ha valore presso Dio se è discreta e silenziosa, come pure la preghiera, che necessita del romitorio interiore, di uno spazio libero sia dagli impegni che dall’incessante mormorio del mondo, non vacante ma popolato di presenze altre. Le anime contemplative sono maestre di silenzio, che potrei definire come la culla delle parole, il logos dove ogni parola trova il suo senso autentico, non artefatto o impoverito, il suo conforto e sapore. Se Carmelo Bene disse che il silenzio “è un tempo musicale”, Boris Pasternak, l’autore del Dottor Zivago, andò oltre, definendolo la cosa più bella che avesse mai udito. Ma S. Giuseppe ci parla anche di paternità responsabile, della figura del pater familias cristiano, di quest’uomo che in famiglia giganteggia senza mai opprimere, educa con autorità, dialoga senza mai imporre, orienta con amore e saggezza. Un padre autorevole concepisce figli che non si perderanno d’animo e sapranno affrontare le prove della vita con coraggio; un padre non autorevole, in cui è assente un tratto di virilità, che non attiene assolutamente alla sfera sessuale ma alla personalità del soggetto, darà alla luce una discendenza con una personalità fragile e per molti versi autoritaria. L’autoritarismo, a cui si accompagna spesso la violenza verbale o fisica, è una reazione psicologica caduca e spropositata alla mancanza del sentimento della forza interiore che non fu esplicitamente trasmesso dal padre al figlio o percepito da questi attraverso l’esame delle azioni paterne. In questo senso possiamo affermare che la qualità della discendenza risale a trent’anni prima della nascita della prole, per cui potremmo dire “dimmi come fu educato tuo padre, e ti dirò chi sei e come sarà la tua discendenza”. Tra genitorialità e paternità vi è una grande differenza, e di essa apprendiamo da S. Giuseppe. Se il genitore genera, assolvendo una funzione biologica, materiale, il padre assolve una missione spirituale, consistente non solo nel trasmettere il dono della vita, ma nell’arricchirla di continuo nell’ordine morale, culturale, spirituale. Ciò equivale a dire che la missione di un padre autentico dura tutta la vita perché la missione educativa, propria ed altrui, dura tutta la vita. Da questa prospettiva, S. Giuseppe non fu genitore del Cristo, ma svolse le veci del Padre celeste, quindi rivestì un ruolo ben più importante di quello di chi genera e semmai dimentica di essere padre, cioè un educatore, una persona che contribuisce a creare l’uomo elevandolo nell’ordine spirituale.

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[1] D. Alighieri, La Divina Commedia, Paradiso, Canto XXXI, vv. 134-138.
[2] 1 Cor 2,9

lunedì 26 ottobre 2009

Viaggio spirituale (cap.5)

5. Il santo eptagono
Proseguendo nel cammino, con un solo colpo d’occhio abbraccio sette immagini sante e significative, in grado di parlare alla mente ed al cuore degli uomini d’oggi. Tracciamone un succinto ritratto, utile ai fini di una proficua meditazione, tenendo presente che esse comunque si inseriscono mirabilmente in una sorta di economia della grazia, di progetto della salvezza, nella vicenda spirituale degli uomini e delle donne del SS. Redentore. Emergeranno collegamenti ed ispirazioni, intrecci antichi e nuovi, ed una inaspettata modernità del messaggio evangelico trasmessoci dai santi, autentici amici dell’uomo.
Antonio da Padova, alias Fernando di Buglione, discendente del crociato Goffredo di Buglione, nasce a Lisbona il 15 agosto 1195. A quindici anni entra nel monastero di San Vincenzo a Lisbona, poi si trasferisce in quello di Santa Croce di Coimbra, sotto l’egida dell’ordine agostiniano. Studia scienze e teologia e riceve l’ordinazione sacerdotale nel 1219, all’età di 24 anni. Lascia l’ordine agostiniano perché non gradisce i maneggi politici fra i canonici agostiniani e Alfonso II. Abbraccia il francescanesimo, aspirando ad una vita religiosamente più severa. Predicatore eccezionale, teologo, combatte l’eresia catara in Italia e quella albigese in Francia, dove giunge nel 1225 (è chiamato anche il “martello degli eretici”). A Padova in due mesi scrive i Sermoni domenicali e ottiene la riforma del Codice statutario repubblicano, per cui un debitore insolvente e non colpevole, dopo aver ceduto tutti i suoi beni, non può essere anche incarcerato. Tiene testa ad Ezzelino da Romano, soprannominato il Feroce, che in un solo giorno fece uccidere undicimila padovani che gli erano ostili. Antonio chiede la liberazione dei capi guelfi incarcerati. Scrive poi i Sermoni per le feste dei santi. I suoi temi preferiti sono i precetti della fede, della morale e della virtù, l’amore di Dio e la pietà verso i poveri, la preghiera e l’umiltà, la mortificazione. Si scaglia contro l’orgoglio e la lussuria, l’avarizia e l’usura, di cui è acerrimo nemico. È convinto assertore dell’assunzione della Vergine. Papa Gregorio IX lo definisce “arca del Testamento”. Spira a Padova il 13 giugno 1231. Si racconta – è un particolare che mi ha colpito – che nella città di Padova al momento della sua morte frotte di fanciulli presero a correre e a gridare che il Santo era morto. La statua custodita nella nostra chiesa lo ritrae con in mano un giglio, simbolo di purezza, e col Bambino Gesù in braccio. La sua attualità è plurale, non può limitarsi alla considerazione di un solo aspetto, sebbene emerga prepotentemente la sua formazione teologica e spirituale, da cui sgorga come un fiume in piena una parola potente ed efficace. Il potere della parola in Antonio si radica tutto nella sua incrollabile fede nel Signore, che lo visita visibilmente. Quanto peso si dia oggi alle parole è evidente. Come ha affermato lo scrittore Mario Rigoni Stern, “oggi c’è troppo rumore, perdiamo il senso delle parole, la loro forza terapeutica”[1]. La scissione fra parola e contenuti si è realizzata di pari passo con il progredire della cultura consumistica, che tende a contrarre i tempi, le sensazioni, la comunicazione, non di certo per ragioni di sintesi, ma perché in quel modo paradossalmente si dilatano i tempi di un certo tipo di comunicazione, quella tecnologica imposta dall’uso abnorme dei cellulari, ad esempio, per mere ragioni di profitto economico. Gli short messages si moltiplicano, si usa certa simbologia al posto delle lettere alfabetiche, la parola si rarefa, i contenuti sono pressoché assenti. Si viaggia per impressioni, si amplifica la sfera emotiva a scapito di quella razionale. La stessa cosa accade con Internet, nelle chat lines, luoghi virtuali dove incontri migliaia di persone, anche interessanti, ma che spesso comunicano per frasi fatte e stereotipi, in modo molto rapido, raramente svelando qualcosa di interessante circa se stessi. Sono dialoghi virtuali, condotti sulla scorta semmai di qualche fotografia che rende l’idea del tipo umano con cui sei in contatto. Emergono vite che non comunicano da essenza ad essenza, che usano la parola come veicolo di sensazioni o di sentimenti flebili e assai volatili; sembrano vite in fotocopia, allevate in qualche pollaio ultratecnologico.
La comunicazione profonda è latitante. È come se si avesse timore di svelarsi, e svelandosi di essere feriti o intercettati nella proprio vuoto esistenziale, il che attesta per l’appunto la preminenza della sfera emozionale su quella razionale e dei significati vitali. Il punto è che manca il Senso, e mancando il Senso manca pure la Direzione, per cui si viaggia a lume di naso, affidandosi alle sensazioni del momento, senza un preciso progetto di vita o solo un orientamento significativo, condizionante e stimolante. La parola è un’altra cosa, e Antonio ne è artefice e testimone. La parola vera salva, pone le basi del futuro, comunica speranza e verità, mette in luce l’essenza. Non meri vocaboli messi assieme perché ne risulti un suono o un’eco, ma un veicolo di vita, un trasmettitore di anima, di quella verità che era prima dell’uomo e che può accompagnarlo nella piena realizzazione di sé. La parola poi è anche fedele all’uomo, non è un mezzo per imbonire o sedurre, e tale fedeltà si manifesta nella sua nettezza, che è tranciante: “Sia invece il vostro parlare sì, sì; no, no; il di più viene dal maligno” (Mt 5, 37). La stessa preghiera, che è l’incontro dell’essere con Dio, non ammette nell’ottica cristiana lo sciupio di parole: “Pregando poi, non sprecate parole come i pagani, i quali credono di venire ascoltati a forza di parole” (Mt 6, 7). L’esubero di parole è difatti atteggiamento contrario alla fiducia nella provvidenza di Dio, che sa di cosa abbiamo bisogno prima ancora che glielo chiediamo (cfr Mt 6,8). L’effimero ed i suoi molteplici corollari appaiono così ampi ed agevoli, facili e leggeri, mentre in realtà producono povertà e miseria morale e spirituale, fardelli pesanti, difficili da portare. Gli spazi apparentemente ampi si rivelano in realtà assai angusti. Trovano così puntuale conferma le parole del Signore: “Prendete il mio giogo sopra di voi […]. Il mio giogo infatti è dolce e il mio carico leggero” (Mt 11, 29); “Entrate per la porta stretta, perché larga è la porta e spaziosa la via che conduce alla perdizione […]; quanto stretta invece è la porta e angusta la via che conduce alla vita […]” (Mt 7, 13-14). Non siamo alla esaltazione della sofferenza e del dolore come via catartica, ma al cospetto di inviti a seguire un percorso di purificazione interiore e di disintossicazione dagli idoli, di affermazioni sulla bontà per l’uomo della “porta stretta” e della “via angusta”, che poi in realtà è quella più agevole da percorrere, piena di pace e di intime soddisfazioni, apportatrice di libertà interiore. Possiamo così senz’altro sottoscrivere anche noi, come fece il professor Giovanni Modugno di Bitonto, morto in concetto di santità, questo profondo pensiero di Alessandro Manzoni, espresso nelle sue Osservazioni sulla morale cattolica: “le filosofie puramente umane, richiedendo molto meno, sono molto più esigenti”, mentre “la religione, chiedendo all’uomo cose più perfette, chiede cose più facili, vuole ch’egli arrivi ad una grande altezza, ma gli ha fatto la scala, ma l’ha condotto per mano: le filosofie umane, accontentandosi ch’egli tocchi un punto assai meno elevato, pretendono spesso di più, pretendono un salto, che non è nella forza dell’uomo”[2].
Altra tematica di stretta attualità che la vita e le opere di Sant’Antonio ci suggeriscono è quella della lotta all’usura, per tacere dell’avversione alla commistione fra il sacro ed il profano, fra il potere politico e le realtà spirituali. L’usura ha ucciso molte vite umane, distrutto famiglie, depresso intere economie. È uno dei peccati più gravi che possano commettersi. Mi sovviene ancora una volta Dante che nella Divina Commedia dedica agli usurai alcuni versi. Siamo nel XVII canto dell’Inferno; mentre Virgilio parlamenta con Gerione, il mostruoso re di Spagna che nutriva i suoi tori con carne umana, Dante raggiunge il gruppo degli usurai, l’ultimo delle schiere di anime violente: “Per li occhi fora scoppiava lor duolo;/di qua, di là soccorrien con le mani;/quando a’ vapori, e quando al caldo suolo:/non altrimenti fan di state i cani/or col ceffo or col pié, quando son morsi/o da pulci o da mosche o da tafani” (vv. 46-51). Gli usurai sono trasformati da Dante, in segno di grande disprezzo, in cani tormentati da pulci, mosche e tafani. Essi commisero violenza contro l’arte, cioè contro l’onesto lavoro altrui, che sfruttarono da parassiti. Né arte né ingegno, ma denaro accumulato alle spalle degli altri. Nel canto XI Dante nutre un dubbio, e domanda alla sua guida perché l’usura sia violenza contro Dio. Virgilio gli risponde che ogni uomo trae i suoi mezzi di sostentamento dalla natura e dall’arte, e Dio prescrive il lavoro come legge fondamentale. L’usuraio, non lavorando ma sfruttando il lavoro altrui, offende l’arte e quindi Dio.
Il lavoro onesto e competente è sempre svolto in funzione del bene e del progresso della comunità, non soltanto di se stessi. In questo senso partecipa dell’opera creativa di Dio. L’usura non crea, distrugge; chi la pratica va contro l’amore del suo simile e, secondo la Scrittura, alla fine dei conti neppure ne trae vantaggio: “Chi accresce il patrimonio con l’usura e l’interesse, lo accumula per chi ha pietà dei poveri” (Pv 28,8). Al di là di ogni altra considerazione, forse superflua, l’unico debito legittimo per il cristiano è quello indicato dall’apostolo Paolo, “un amore vicendevole; perché chi ama il suo simile ha adempiuto la legge” (Rm 13, 8). E ancora: “L’amore non fa nessun male al prossimo: pieno compimento della legge è l’amore” (Rm 13, 10). Paolo rimarca quindi che l’amore è tutto, e non v’è nulla al di fuori di esso che possa salvare l’uomo. Poiché la fede senza le opere è vana, e giacché le opere senza l’amore sono niente, la fede senza l’amore non conduce da nessuna parte, è menzognera. Questo perché Dio stesso, che è continuamente all’opera, è amore, ed ogni sua azione o pensiero è intriso d’amore per le sue creature, assurte alla dignità di figli per mezzo del supremo sacrificio d’amore del Cristo. D’altra parte non è superfluo osservare che storicamente il primo esplicito divieto dell’usura si trova proprio nella Bibbia, nel libro dell’Esodo: “Se tu presti denaro a qualcuno del mio popolo, all’indigente che sta con te, non ti comporterai con lui da usuraio: voi non dovete imporgli alcun interesse” (22, 24). Altri passi contro tale pratica si rinvengono nel Levitico e nel Deuteronomio[3]. Né va probabilmente sottaciuta una pratica immorale ricollegabile in qualche modo all’usura: nei riguardi dei torti ricevuti non ci comportiamo forse da usurai nel momento in cui pretendiamo gesti, atti, azioni che vanno ben oltre il perdono? Ogni qualvolta non perdoniamo il fratello che sbaglia ci comportiamo da usurai, imponiamo risarcimenti ed interessi morali altissimi.
Ed eccomi alla statua di Maria Goretti, splendida creatura, figura femminile eccezionale, canonizzata il 24 giugno 1950 da Pio XII, poco prima della proclamazione del dogma dell’Assunzione di Maria. In questa comunità parrocchiale fiorì presto una grande devozione a lei, martire del vero amore, spirata all’età di dodici anni per essersi rifiutata di sottostare alle voglie di un giovane, Alessandro Serenelli (1882 – 1970), che lei perdonò sul letto di morte. Alessandro, dopo aver scontato la pesante pena, respinto dai suoi familiari, lavorò come ortolano dai Padri Cappuccini di Ascoli Piceno, coi quali rimase fino al 1956. Non più abile al lavoro, fu ospitato dai frati nella loro casa di riposo di Macerata, dove morì il 6 maggio 1970. Trascorse gli ultimi anni in grande raccoglimento, pregando ed accostandosi ai sacramenti con grande fervore. Ciò che colpisce, accanto alla purezza di Maria, è la rinascita alla vita di fede del suo omicida, che nel 1961 dettò il suo testamento, che vale la pena di riportare integralmente: "Sono vecchio di quasi 80 anni, prossimo a chiudere la mia giornata. Dando uno sguardo al passato, riconosco che nella mia giovinezza infilai una strada falsa: la via del male, che mi condusse alla rovina. Vedevo, attraverso la stampa, gli spettacoli e i cattivi esempi, che la maggior parte dei giovani seguiva quella via senza darsi pensiero ed io pure non me ne preoccupai. Persone credenti e praticanti le avevo vicino a me, ma non ci badavo, accecato da una forza bruta, che mi sospingeva per una strada cattiva. Consumai a vent'anni il delitto passionale, del quale oggi inorridisco al solo ricordo. Maria Goretti, ora Santa, fu l'angelo buono che la Provvidenza aveva messo avanti ai miei passi. Ho impresse ancora nel cuore le sue parole di rimprovero e di perdono. Pregò per me, intercedette per me, suo uccisore. Seguirono trenta anni di prigione. Se non fossi stato minorenne, sarei stato condannato a vita. Accettai la sentenza meritata; rassegnato espiai la colpa. Maria fu veramente la mia luce, la mia protettrice. Col suo aiuto mi diportai bene e cercai di vivere onestamente, quando la società mi riaccettò tra i suoi membri. I Figli di San Francesco, i Minori Cappuccini delle Marche, con carità serafica mi hanno accolto fra loro non come servo, ma come fratello. Con loro convivo dal 1936. Ed ora aspetto sereno il momento di essere ammesso alla visione di Dio, di riabbracciare i miei cari, di essere vicino al mio Angelo protettore e alla sua cara mamma Assunta. Coloro che leggeranno questa mia lettera vogliano trarre il felice insegnamento di fuggire il male, di seguire il bene sempre, fin da fanciulli. Pensino che la religione con i suoi precetti non è una cosa di cui si può fare a meno, ma è il vero conforto, l'unica via sicura in tutte le circostanze, anche le più dolorose della vita. Pace e bene!".
Una lettera densa di insegnamenti morali che ci induce a riflettere anche sulla portata di certi nostri giudizi, che suonano inappellabili con chi sbaglia, carenti di misericordia. Mentre mi soffermo sull’icona di Maria Goretti, memore della mia visita al Santuario di Nettuno dove il suo corpo è custodito dai Padri Passionisti, mi tornano alla mente alcune parole che Giovanni Paolo II inviò a mons. Agostino Vallini, vescovo di Albano, in occasione del centenario della morte della Santa (6 luglio 2002): “Quale fulgido esempio per la gioventù! La mentalità disimpegnata, che pervade non poca parte della società e della cultura del nostro tempo, fatica talora a comprendere la bellezza e il valore della castità. Dal comportamento di questa giovane Santa emerge una percezione alta e nobile della propria e dell'altrui dignità, che si riverberava nelle scelte quotidiane conferendo loro pienezza di senso umano. Non v'è forse in ciò una lezione di grande attualità? Di fronte a una cultura che sopravvaluta la fisicità nei rapporti tra uomo e donna, la Chiesa continua a difendere e a promuovere il valore della sessualità come fattore che investe ogni aspetto della persona e che deve quindi essere vissuto in un atteggiamento interiore di libertà e di reciproco rispetto, alla luce dell'originario disegno di Dio. In tale prospettiva, la persona si scopre destinataria di un dono e chiamata a farsi, a sua volta, dono per l'altro”. Lo stesso Enrico Berlinguer avrebbe indicato Maria Goretti quale esempio da seguire alle giovani ed alle donne comuniste.
Castità, perdono, misericordia, ravvedimento. Sono i quattro pilastri spirituali di una ideale costruzione etica suggeritaci dalla vicenda umana e religiosa di Maria Goretti[4] e di Alessandro Serenelli.
Mentre di San Giovanni Bosco[5] ricordiamo quale tratto saliente, sebbene non esaustivo, il trittico ragione, religione e amorevolezza, posto a fondamento del suo famoso sistema educativo, e, anche in lui, una sorta di distacco dalla politica[6], di Francesco da Paola, eremita e fondatore dell’Ordine dei Minimi, ricordiamo l’amore per gli infermi ed i poveri. Fu canonizzato nel 1519 a soli dodici anni dalla morte, durante il pontificato di Papa Leone X. Ma in questa comunità parrocchiale agisce anche lo spirito di S. Vincenzo de’ Paoli, il cui amore verso i poveri lo rese celebre al punto che Luigi XIII di Francia lo volle come suo consigliere. Chiamato nel 1643 dalla reggente Anna d’Austria a far parte del Consiglio della Coscienza o Congregazione degli Affari Ecclesiastici, ebbe aspri scontri col suo presidente, il potente cardinale Giulio Mazzarino, il quale faceva scelte opportunistiche in materia di scelta dei vescovi e di rilascio di benefici ecclesiastici. Nel 1649 chiese alla regina di allontanare Mazzarino, ma la sua richiesta non fu accolta, e quindi cadde in disgrazia. La reggente gli conferì tuttavia l’incarico di Ministro della Carità, per organizzare su scala nazionale gli aiuti ai poveri. Grande amico di San Francesco di Sales, elaborò una nuova dottrina spirituale, per cui le virtù dello spirito vincenziano sono date dalle cosiddette “cinque pietre di Davide”: semplicità, umiltà, mansuetudine, mortificazione e zelo per la salvezza delle anime. Francesco di Sales, che si preoccupò di sviluppare una predicazione e un modello di vita cristiana che fosse approcciabile anche dalla gente comune, è quindi una figura che idealmente collega Vincenzo de’ Paoli a Don Bosco, il quale nel 1854 diede inizio alla Società Salesiana, con cui assicurò stabilità alle sue opere e continuità al suo spirito. Il Volontariato Vincenziano, che nacque a Ruvo nel 1899 per volontà del vescovo mons. Pasquale Berardi[7], opera dal finire del 1990 in parrocchia con un centro di ascolto che ha seguito molti casi, adoperandosi concretamente per la loro soluzione o per il loro lenimento. Un’attività benemerita che ha trovato e trova in don Vincenzo un attento e sensibile interlocutore, anzi un incalzante promotore.
Infine, il gruppo statuario della Madonna del Rosario di Pompei, realizzato da Carmelo Bruno nel 1937. La Vergine, assisa in trono con il Bambino in braccio, porge la corona del rosario a S. Caterina da Siena, mentre Gesù la dà a S. Domenico di Guzmàn, inginocchiati ai lati del trono (in altri gruppi statuari è raffigurata S. Rosa da Lima invece di S. Caterina). Il culto del rosario è molto antico, risale al XIII secolo, quando fu propagato dai Domenicani. Ebbe una immediata diffusione perché consentiva di pregare facilmente e nello stesso tempo di meditare i misteri cristiani senza la necessità di leggere un testo, cosa che riusciva ostica a molti, in specie alla povera gente, totalmente priva di istruzione. Per tale ragione il rosario fu chiamato il “vangelo dei poveri”. Il suo culto si diffuse dopo le apparizioni di Lourdes del 1858, ed in Italia a Pompei grazie all’avvocato Bartolo Longo, pugliese di nascita[8], beatificato da Giovanni Paolo II il 26 ottobre 1980. Preghiera potentissima, ad essa si riferì San Pio da Pietrelcina, presentandola addirittura quale suo testamento spirituale ed eredità: “Questo è il mio testamento e la mia eredità: amate e fate amare la Madonna, recitate e fate recitare il Rosario”. Domenico di Guzmàn attuò una straordinaria sintesi fra vita contemplativa e apostolica. Combatte l’eresia catara e fonda l’Ordine dei Predicatori, le cui comunità si ispirano alla prima comunità di Gerusalemme, con una vita fondata sulla comunione fraterna, sulla preghiera e lo studio. Vuole che i frati si dedichino allo studio per essere più capaci di “parlare con Dio nella preghiera e a parlare di Dio nella predicazione”. Una vita monastica, quindi, ma aperta alla missione della predicazione per la conversione, in cui grande importanza ha lo studio della teologia. Spira a Bologna il 6 agosto 1221. Al Prado di Madrid è custodito il quadro che Tomàs de Torquemada commissionò al pittore Pedro Berruguete, intitolato “Autodafé presieduto da San Domenico di Guzmàn” (ca 1495). L’autodafé[9] (o sermo generalis) era una cerimonia pubblica in cui veniva eseguita la penitenza o la condanna comminata dalla Inquisizione. È una rappresentazione che ha nuociuto non poco alla figura di S. Domenico, poiché gli si attribuisce un ruolo che non gli appartenne[10]. Difatti egli morì dodici anni prima che Gregorio IX nominasse dei frati domenicani a capo dei tribunali dell’Inquisizione. Chiarito l’eventuale equivoco, fugata l’ombra, si staglia nettamente la grande personalità cristiana di Domenico, che ci invita ad acquisire una maggiore consapevolezza circa la nostra identità e vocazione attraverso la preghiera e lo studio. È impressionante l’ignoranza religiosa che ci circonda e che purtroppo alligna anche fra molti battezzati. Non si conoscono i dieci comandamenti e men che meno le otto beatitudini; si fa grande confusione fra verità di fede e semplici dicerie e si cade facilmente preda delle suggestioni di talune sette religiose. Non si è in grado di replicare alle tesi dei Testimoni di Geova e si danno per buone le fantasie più stravaganti. Mi ricordo di un matrimonio che fu celebrato in una chiesa di Roma non più tardi di quattro anni fa, a cui ero presente. I convenuti facevano fatica a recitare il Credo e a mala pena conoscevano la preghiera del Padre nostro. Una tristezza assoluta. Di qui l’esigenza di una nuova evangelizzazione, di una nuova alfabetizzazione religiosa. Se manca la conoscenza delle principali verità di fede e si hanno poche e confuse idee sulla Chiesa cattolica, si cadrà facilmente nella rete delle eresie moderne, delle pseudo-religioni, delle sette, come pure di cartomanti e maghi, filtri, formule, oroscopi e pozioni, il cui unico miracolo consiste nello svuotamento dei portafogli ed in un’accresciuta miseria morale e spirituale, con gravi ripercussioni di natura psichica. Ogni inganno sull’uomo e sulla sua natura contribuisce a rendere deboli le menti e fragili le personalità, si rivela distruttivo.
Santa Caterina nasce a Siena, nel rione di Fontebranda, il 25 marzo 1347. Mistica domenicana, di lei mi ha impressionato la “virilità”. Era una donna dal carattere forte e di incrollabili convinzioni, capace di parlare ai potenti del tempo senza alcun timore reverenziale. Suoi interlocutori furono cardinali, vescovi e papi. Si batté per la riforma dei costumi del clero, e non esiterà a definire “demoni incarnati” tredici cardinali che seguirono l’antipapa Clemente VII, eletto a Fondi il 20 settembre 1378. Nel suo Trattato della Provvidenza scrive, fra l’altro, che “essere la serva di Dio significa non essere soggetta all’autorità di nessun uomo.” Un pensiero che induce a riflettere sulla nostra facile remissività dinanzi ai potenti di oggi, che facilmente si muta in pavidità. Piuttosto di non offendere la suscettibilità del potente di turno, sia in ambito civile che religioso, preferiamo glissare, addolcire, o far finta di niente. Per amore del quieto vivere non esitiamo a sacrificare sull’altare dell’ipocrisia e del perbenismo cospicue quote di verità, la sola in grado di produrre non solo candore individuale, ma anche progresso civile[11]. Finché terremo celate le scomode verità, terremo ingabbiate energie positive di crescita personale e comunitaria. È un danno incalcolabile sotto il profilo della giustizia, che può darsi solo se la verità affiora e la menzogna arretra. Di certo c’è che oggi molti di noi, pur avendone l’autorità, eviterebbero di rivolgersi ad un potente con le stesse parole e con la stessa passione e santa intransigenza con cui Caterina si rivolse a Pietro, cardinale di Ostia, quando lo invitò ad essere “uomo virile e non timoroso”.
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[1] Cfr la Repubblica del 24 settembre 2006, pag. 50.
[2] Cfr Giovanni Modugno, F. W. Förster e la crisi dell’anima contemporanea, Giuseppe Laterza & Figli, Bari, 1931, ristampa 2005, pag. 170.
[3] Cfr Lv 25, 35-37; Dt 23, 20.
[4] Alla vicenda di Maria Goretti si ispira il bel film Cielo sulla palude, girato nel 1949 dal regista Augusto Genina.
[5] A S. Giovanni Bosco è intitolato l’oratorio parrocchiale. L’inaugurazione avvenne il 5 dicembre 1955 alla presenza di mons. Aurelio Marena, vescovo di Ruvo e Bitonto, e del parroco mons. Michele Montaruli, il quale fu molto legato alla figura del santo. In quell’occasione fu inaugurato il nuovo complesso di campane di bronzo e consacrato il nuovo campanile neo-romanico. Cfr AA.VV., La Chiesa del SS. Redentore in Ruvo – Aspetti di storia urbana, civile e religiosa a cento anni dalla fondazione (1902-2002), CSL Editrice, Terlizzi, 2003, pagg. 97 e segg.
[6] “E’ mio fermo sistema tenermi estraneo ad ogni cosa che si riferisca a politica. Non mai pro, non mai contro” III, 294; “Il prete cattolico non ha altra politica che quella del Santo Vangelo” VI, 679.
[7] Cfr AA.VV., La Chiesa del SS. Redentore in Ruvo – Aspetti di storia urbana, civile e religiosa a cento anni dalla fondazione (1902-2002), op. cit., pagg. 109 e 110.
[8] Nacque a Latiano (Brindisi) il 10 febbraio 1841.
[9] Il nome deriva dal portoghese auto da fé, cioè “atto di fede”. La tradizione fu inaugurata dall’inquisitore Tomàs de Torquemada nel 1481 a Siviglia, sebbene il primo autodafé di cui si ha notizia si svolse a Parigi nel 1242, durante il regno di Luigi IX.
[10] Si parla a proposito di “leggenda nera” o di “triste leggenda”, prosperata grazie agli stessi predicatori, i quali, come sostiene Michel Roquebert, “ritenevano che essere nati per combattere l’eresia fosse motivo di gloria”.
[11] Secondo Marcel Eck un mondo in cui la verità fosse esibita senza criterio assomiglierebbe “più ad un inferno che ad un paradiso.” Ed aggiunge che mentire è qualche volta un dovere. Taluni distinguono poi fra bugie bianche e nere, con le prime che sarebbero sostanzialmente innocue. Possiamo osservare che la verità va manifestata con criterio, che occorre essere tempestivi, semmai scegliere i tempi ed i modi più opportuni, che tacere la verità non è un dovere, bensì un atto di codardia o di scarsa fiducia in se stessi. L’uomo dovrebbe essere sempre consapevole delle proprie azioni ed assumersene la paternità. Tacere la verità impedisce alla giustizia di fare il suo corso, in taluni casi può esporre altri a gravi pericoli, per cui ha in sé un alto potenziale antievangelico.

sabato 24 ottobre 2009

Ai partecipanti a "Poetare è d'Amore" 2^ edizione





E’ con grande piacere che vogliamo condividere con Voi la soddisfazione per il notevole successo ottenuto da questa edizione del concorso.
Con 107 autori e 176 opere provenienti da tutta l’Italia, ci sentiamo di poter dire che “Poetare d’amore” è diventato un punto di riferimento per gli autori di opere sull’amore.
La giuria ha ricevuto le Vostre liriche ed entro il 15 novembre ci fornirà i giudizi attraverso i quali saranno eletti i vincitori e redatta la classifica.
Un sincero grazie va all’Assessorato alla Cultura del Comune di Ruvo di Puglia, alla Pro Loco di Ruvo ed ai nostri partner: il periodico La Nuova Città di Terlizzi, Ruvolive e Ruvodipugliaweb, I Presidi del Libro. Questo risultato si deve anche a loro.
Un saluto di cuore a tutti e un sentito ringraziamento per la Vostra graditissima e qualificata partecipazione.

Un saluto di serenità e di amore.

Ruvo di Puglia, ottobre 2009

Salvatore Bernocco
Presidente “Sehaliah” a.s.d.

Viaggio spirituale (cap.4)

4. L’icona del Battesimo di Gesù
Proseguendo nel cammino all’interno del tempio, mi imbatto nella recente (2006) e stupenda icona[1] del Battesimo di Gesù, che sormonta il fonte battesimale del 1904, dono del can. Giuseppe Pellegrini, e collocata nell’omonima cappella. In realtà più che di una icona sarebbe corretto parlare di un dipinto che si rifà o si ispira al codice iconografico classico. E’ anch’essa opera del pittore Gaetano Valerio, che pare sia stato ispirato da Dio, il quale, anzi, secondo la tradizione, ne è il vero artefice. Si credeva infatti che Dio stesso esprimesse la sua perfezione attraverso l’iconografo[2]. Una breve digressione. Mi sovviene il dipinto “San Matteo e l’Angelo” del Caravaggio (1602), che si può ammirare a Roma nella chiesa di San Luigi dei Francesi. Ve ne furono due versioni, in realtà. In entrambe compare l’angelo ispiratore, il quale nella prima versione, quella che fu respinta perché non ortodossa e che andò distrutta negli eventi bellici del 1945 a Berlino, guida materialmente la mano di San Matteo nella stesura del vangelo, mentre nella seconda versione, quella accettata in quanto rispondente alle idee più canoniche circa la rappresentazione di un santo o di un angelo, gli parla dall’alto[3]. L’idea dominante è anche qui quella dell’intervento divino, come se Dio stesso fosse l’artefice dei vangeli, colui che realmente li detta attraverso uno dei suoi angeli. San Matteo quindi è solo un amanuense, l’autore dei testi è il Signore. Un parallelismo che, al di là del valore non comparabile delle due opere, evidenzia in ogni caso quanto pregnante e radicata sia l’idea che ad ispirare certe opere sia Dio, e che l’artista non sia che il mero esecutore dei deliberati divini, seppure con l’apporto determinante della propria sensibilità e la propria tecnica[4].
Per altro verso l’iconografia presupponeva non soltanto una notevole preparazione tecnica, ma anche spirituale da parte dell’artista. Il pittore si preparava adeguatamente per creare l’opera iconografica proprio perché egli diveniva la mano di Dio, con la sua arte entrava in stretto, intimo contatto con la divinità, e ciò richiedeva una profonda e generale catarsi, una generale purificazione mentale, spirituale e fisica.
Prima di addentrarci nel significato evangelico e di fede dell’icona o “festa” del Battesimo di Gesù, ricordiamo brevemente come si perveniva all’icona. Ne emergerà anche l’estrema perizia del suo autore, che si è attenuto a quanto stabilito in proposito dal Concilio in Trullo[5] nonché ai principali dettami della ortodossia iconografica. L’icona era dipinta su tavolette di legno (tiglio, larice o abete). La parte interna della tavola era scavata e chiamata tecnicamente KOVČEG[6] o più comunemente arca. Su questa tavola veniva poi applicata una tela di lino, che voleva ricordare il telo della Veronica, e su di essa si applicavano diversi strati, almeno sette, di LEVKAS[7], che serviva a creare il fondo dell’icona ed era composto dal bianco di Medon mescolato alla colla di coniglio. Sulla superficie che veniva così a crearsi si cominciava a tratteggiare il disegno. Si partiva con uno schizzo della rappresentazione, quindi si passava alla fase della pittura. S’iniziava con la doratura di tutti i particolari (bordi dell’icona, pieghe dei vestiti, sfondo e corone o nimbi), quindi si passava a dipingere i vestiti, gli edifici e il paesaggio. L’effetto tridimensionale dell’icona si otteneva partendo da un fondo scuro che si andava a schiarire in varie fasi fino a raggiungere il bianco che veniva dato solo nei tratti più in rilievo del volto, come zigomi, naso, fronte. Questo procedimento che parte dallo scuro per giungere fino al chiaro prende spunto da quanto Dio operò nella creazione: la luce di Dio irrompe nel caos e, via via che la luce sorge e si diffonde nel creato, si delineano le forme di tutte le cose[8]. La vernice rossa era disposta in uno strato sottile attorno alle labbra, sulle guance e sulla punta del naso. Con una vernice marrone chiara erano dipinti gli occhi, le ciglia ed eventualmente i baffi o la barba. Quanto poi all’espressione del soggetto religioso ritratto, lo sguardo delle icone è ricercato, volto a suscitare inquietudine, riflessione, ricerca di un dialogo con l’aldilà. È una finestra aperta su Dio. Ma essa suscita anche speranza, trattandosi di sguardi provenienti dall’eternità.
Per tali ragioni non si pensi che l’icona sia assimilabile ad un quadro o ad un dipinto qualsiasi. L’icona parla di eternità, parla di Dio, e può essere compresa soltanto da chi conosce le Sacre Scritture, da chi si pone in un’ottica di fede o spirituale per cui Dio è “il giudice ed il supremo occhio che osserva e al quale nulla sfugge”. Non sarebbe quindi corretto parlare di semplice rappresentazione artistica, ricca come essa è di significati simbolici. In tale contesto, ad esempio, i colori hanno una grandissima importanza per la comprensione dell’icona. I colori fondamentali sono quattro. Il blu è il colore della trascendenza, mentre il rosso è il simbolo dell’umano e del sangue sparso dai martiri. Il verde simboleggia la natura, la fertilità o l’abbondanza. Il giallo è, infine, il colore della conoscenza e della sapienza. Quando assume la sfumatura di giallo oro è simbolo della luce divina, della verità. Il marrone non è un colore primario, ma derivato (formato dal rosso e dal verde), e designa ciò che appartiene alla terra e nella sua natura più umile e povero. Anche le lettere dipinte sull’icona assumono un particolare valore: le icone del Cristo presentano sempre la dicitura “IC XC” (forma greca abbreviata di Gesù Cristo) e anche “O ΩN” ("colui che è"; il simbolo è generalmente inserito nel nimbo[9]). La Vergine Maria invece presenta la dicitura “MP OY” (forma greca abbreviata di Madre di Dio); vicino al suo nome possono comparire altre diciture, come ad esempio “Onnipotente”, “Datore di Vita”, “Vergine Madre”.
E veniamo più nel dettaglio alla nostra icona del Battesimo di Gesù. Notiamo, sul lato destro, tre angeli in vesti di colore marrone, i quali reggono un drappo blu che nasconde le loro mani. Il nascondimento delle mani indica una impossibilità o una proibizione, un divieto. Ad essi difatti è precluso toccare la divinità. La loro fisionomia è oblunga come lo sono quelle del Cristo nel fiume Giordano, al centro della scena, e di Giovanni il Battista, sul versante sinistro. Tale raffigurazione ne vuole enfatizzare la natura spirituale[10]. Si tratta di figure esili ed affusolate, prive d’ogni contenuto o elemento corporeo o materiale, quasi diafane. Sono figure che si allungano, si proiettano verso l’alto, il cielo, sede della divinità. Anche questa scelta è in linea con la ortodossia iconografica. Nelle icone i volti dei santi sono chiamati lichi, cioè volti che si trovano fuori dal tempo e dallo spazio, che hanno abbandonato il mondo delle passioni terrene, eternati dalla pittura iconografica. Pur essendo trascinati e coinvolti in questa dimensione spirituale ed eterea, tuttavia mantengono la loro dimensione umana: restano uomini e in qualità d’essere umani mantengono l’immagine di Dio sul loro volto. I tre angeli hanno sembianze umane. Sono puri spiriti, e come tali sarebbero non rappresentabili. Di qui l’attribuzione della sembianza antropomorfa che intende dare una pallida idea di ciò che appartiene alle realtà invisibili e non rappresentabili, con un aggancio probabile ed intuitivo alla Sacra Scrittura dove, a proposito dell’uomo, si dice che fu creato di poco inferiore alle creature angeliche[11]. Questo scarto minimale fra l’uomo e le creature angeliche autorizzerebbe la loro rappresentazione antropomorfa.
Il Cristo quindi si fa uomo e riceve nel fiume Giordano il battesimo da Giovanni il Battista, il precursore. Gesù entra nudo nelle acque, che rappresentano il peccato e la morte, mentre il fiume rappresenta il lento scorrere della vita. Cristo entra nella storia fatta di morte e peccato per uscirne vittorioso dopo il battesimo. Egli, entrando nelle acque, le benedice e queste diventano sante e fonte di vita perché tale è Gesù, il Santo di Dio e datore di vita. E’ importante notare la posizione della mano benedicente del Cristo che indica che egli è sia uomo-Dio (questo il senso dell’unione dell’ indice e del medio), sia una delle tre persone della Santissima Trinità (questo il senso delle altre tre dita: pollice, anulare e mignolo, che si toccano alle punte).
Come per altro verso scrive Micaela Soranzo, “senz’acqua non esiste vita. Nella tradizione ebraica e cristiana l’acqua è legata all’origine della creazione: è la sostanza-madre dalla quale venne creato il mondo, ma, per la sua mancanza di forma, è anche immagine del caos, delle condizioni esistenti prima della creazione del mondo. Prima che fosse creata la luce «le tenebre ricoprivano l’abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque» (Gen 1,2). L’acqua può essere creativa o distruttiva, sorgente di vita o di morte: tutto l’Antico Testamento esalta il segno di benedizione dell’acqua, poiché «un fiume usciva da Eden per irrigare il giardino» (Gen 2,10) e il Signore ha fondato la terra sui mari «e sui fiumi l’ha stabilita» (Sal 24,2), anche se constata la sua forza distruttiva nel diluvio e nel passaggio del Mar Rosso”[12]. In un certo senso Gesù, entrando nelle acque, completa l’opera di benedizione e di pacificazione universale del Padre. Il caos è vinto una volta per tutte, le acque si placano. In una prospettiva psicologica e del profondo, il mare si collega alla vita, al cambiamento, a fenomeni di mutazione[13], e con la fede nel Cristo anche il mare magnum dell’inconscio, con le sue acque talvolta torbide ed agitate, scure ed angoscianti, è rasserenato. Agile e non eludibile il riferimento all’episodio della tempesta sedata che può leggersi nel vangelo di Matteo[14].
Tutti i personaggi hanno la testa contornata dal nimbo. Il nimbo, come ho accennato, indica la presenza di Dio nella vita di tutti gli esseri, sia terrestri che celesti. E’ Dio che sorregge la vita. Il nimbo del Cristo è crociato per indicare di quale morte morirà. In questa croce ci sono le scritte Ό ΏΝ, che significano “io sono colui che sono”, nome con cui Dio si manifestò a Mosè sul monte Sinai. Alla destra di Cristo c’è Giovanni il Battista, che è l’unico personaggio a cui è concesso di toccare Gesù. Egli è vestito di pelli di cammello e simboleggia l’uomo vecchio, Adamo, che Cristo, l’uomo nuovo, è venuto a riscattare[15]. La scritta ΙС ХС (Gesù Cristo) è posta sopra le acque, vi aleggia come aleggiò lo spirito del Creatore sulle acque all’origine dei tempi [16].
La natura è arida e brulla, e ciò sta ad indicare la condizione di peccato in cui versa l’umanità. Le montagne poi hanno un significato particolare. Sono quattro, distinguibili solo nella parte alta, mentre alla base sono unite e compatte. Su questa base poggiano i personaggi. Le cime rappresentano i quattro evangelisti; sulla loro testimonianza poggiano i misteri principali della fede cristiana. Se si osserva il movimento delle punte delle montagne, si nota che tre di esse, quelle poste a destra, puntano al cielo, mentre una quarta, quella a sinistra, è ricurva e sembra piegare verso l'emisfero blu, colore che, come si è detto, rappresenta la divinità. Questa montagna ricurva rappresenta il quarto evangelista, Giovanni, che, come dice Clemente d'Alessandria, "vedendo che nei Vangeli degli altri erano narrate piuttosto le cose che riguardavano la parte umana di Cristo, per impulso divino, a richiesta dei suoi discepoli, ultimo di tutti, scrisse un Vangelo spirituale". Questa montagna, quindi, traccia una linea ideale che si protende verso l'alto e conduce a Cristo, e sta a significare che Giovanni evangelista tende a Dio nella sommità e in basso è di sostegno al Battista, il quale con il suo gesto riconduce lo sguardo alla persona del Cristo.
Tuttavia, a ben vedere, nel dipinto è presente tutta la SS. Trinità. La presenza del Padre è simboleggiata dalla nube posta in alto, da cui promana un fascio di luce, mentre una colomba indica la presenza dello Spirito Santo. Le lettere greche che compaiono accanto alla figura di Giovanni significano “Giovanni Battista precursore”, mentre l’espressione collocata in alto, HBAП TIGIG, vorrebbe dire “Battesimo di Gesù”.
L’opera di Gaetano Valerio può dirsi un compendio di teologia che si offre alla vista del visitatore, invogliato a soffermarsi sui particolari per scoprirne il messaggio di fede e di speranza. E per inclinare alla preghiera, quel movimento essenziale dell’anima che si volge al Padre come al sole della vita, e che è facilitato dalle immagini sacre. Queste aiutano la fede senza mai sostituirsi ad essa o esserne una pericolosa scorciatoia o deviazione. Se così fosse dovremmo dare ragione, seppure postuma, alle eresie iconoclastiche[17], mentre siamo nel campo della latria e della dulia, non dell’idolatria[18], quando ci serviamo delle immagini sacre scolpite o raffigurate.
Valgano in questa sede alcune considerazioni di ordine teologico di cui sono in parte debitore all’apologeta Giampaolo Barra. Ma prima un po’ di storia. Nel 730 Leone III Isaurico, imperatore d’Oriente, si intromette nelle questioni ecclesiastiche, essendoci state in Oriente degli episodi di fanatismo nella venerazione delle immagini sacre, e vieta il culto delle icone e delle immagini, diffuso in tutto l’orbe cristiano. Egli ordina la distruzione di un’immagine del Cristo assai venerata. La proibizione dà la stura alla distruzione feroce di stupende opere d’arte. Germano, patriarca di Costantinopoli, gli si oppone, ma viene destituito ed i difensori delle immagini sacre duramente perseguitati. La persecuzione durerà anche dopo Leone III. Nel 787 il Concilio di Nicea finalmente sancì l’assoluta liceità di rappresentare con immagini le figure di Gesù, di Maria, degli angeli e dei santi, in quanto la contemplazione di esse invita il fedele ad imitare i personaggi rappresentati. Imitazione, ma non solo. Esse servono anche ad abbellire i luoghi di culto e ad approfondire la conoscenza degli episodi biblici. Come affermò Gregorio Magno[19], “la pittura può servire all’analfabeta quanto la scrittura a chi sa leggere”. Nel XVI secolo l’iconoclastia riprese impulso. Furono soprattutto i calvinisti a distinguersi nella distruzione di molte statue e di molte immagini nelle chiese che occuparono dopo lo strappo con la Chiesa romana. A fianco del mondo protestante, anche la setta dei Testimoni di Geova è contraria alla venerazione delle immagini.
Tale contrarietà si fonda su una lettura errata della Bibbia. I versetti 2, 3 e 4 del capitolo 20 del libro dell’Esodo sono quelli sub judice: “Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dal paese d’Egitto, dalla condizione di schiavitù: non avrai altri dèi di fronte a me. Non ti farai idolo né immagine alcuna di quanto è lassù nel cielo né di quanto è quaggiù sulla terra, né di ciò che è nelle acque sotto la terra.” Ad una lettura superficiale, il divieto parrebbe esistere. Ma così non è perché soccorre il versetto 5, che spiega la ragione di quel divieto: “Non ti prostrerai davanti a loro e non li servirai.” Dio quindi non proibisce l’uso delle immagini sacre in quanto tali, ma l’idolatria, cioè la sostituzione di Dio con un idolo e la sua adorazione. Ma soccorrono altri passi. Sempre nel libro dell’Esodo si legge che Mosé convocò tutti gli uomini di ingegno perché eseguissero i lavori della costruzione del santuario, facendo ogni cosa secondo i voleri del Signore[20], consistenti nell’adornare con statue ed immagini l’Arca dell’Alleanza. Esplicita fu la richiesta di Dio di fare due cherubini d’oro. Egli impartì espresse disposizioni sul modo come lavorarli e sulla loro disposizione[21]. Ancora, Bezaleel, uno degli artisti convocati da Mosé, “fece il velo di porpora viola e di porpora rossa, di scarlatto e di bisso ritorto. Lo fece con figure di cherubini, lavoro di disegnatore”.[22] E finanche troppo agevole concludere che il Signore non aborre né le statue né i disegni, purché siano “funzionali” al suo culto, cioè al culto dell’unico vero Dio, e non siano piegate o dirette all’idolatria. Altri esempi possono estrapolarsi dalla Bibbia ed altri ancora dalla storia delle prime comunità cristiane. Ad esempio, lo scrittore Tertulliano nel De Pudicitia ci parla delle immagini del Buon Pastore con cui i primi cristiani adornavano i calici, mentre lo storico Eusebio di Cesarea nell’Historia Ecclesiastica dice di aver visto coi propri occhi le immagini dipinte di Gesù e dei Santi apostoli Pietro e Paolo. Per quanto attiene al culto dei santi, la stessa Bibbia e la storia della chiesa primitiva ci autorizzano a sostenere che la loro venerazione è gradita a Dio, non è contraria all’insegnamento della Bibbia e in sintonia con quello che i cristiani hanno sempre fatto.
Per venire a tempi più recenti, Giovanni Paolo II chiese ai Vescovi di tutto il mondo di “mantenere fermamente l’uso di proporre nelle Chiese alla venerazione dei fedeli le immagini sacre”. Questo perché il fedele deve essere aiutato nella preghiera e nella vita spirituale con la visione di opere che cercano di esprimere il mistero senza occultarlo. Per il predecessore di Benedetti XVI, “la scoperta dell’icona cristiana aiuterà anche a far prendere coscienza dell’urgenza di reagire contro gli effetti spersonalizzanti, e talvolta degradanti, delle molteplici immagini che condizionano la nostra vita nella pubblicità e nei mass-media”. Sono parole che confortano l’impegno costante di don Vincenzo Pellegrini a voler conservare il patrimonio ereditato e nel contempo a dotare il tempio di opere significative ai fini spirituali, volte a favorire l’espressione del culto che si deve a Dio ed ai suoi santi che, in ultima analisi, si risolve sempre in un atto di culto a Colui che è la sorgente sempre viva e zampillante della Santità[23]. Trovo ad abundantiam che la sua dedizione sia perfettamente conforme ai dettami della Chiesa in materia di arte sacra.
Ne fornisco qualche riscontro documentale, con un incipit “laico” dello scrittore Hermann Hesse, che nel suo libro “Peter Camenzind” così scrive: “L’arte di tutti i tempi si sforza di dare espressioni al muto desiderio del divino che è in noi”. È un efficace proemio a quanto segue, una straordinaria sintesi. Ad esempio, la Pontificia Commissione per i Beni Culturali della Chiesa in un documento del 15 ottobre 1992 intitolato “La formazione dei futuri presbiteri all’attenzione verso i beni culturali della Chiesa” ed indirizzato ai vescovi diocesani, pose l’accento sulla “promozione, la custodia e la valorizzazione delle più alte espressioni dello spirito umano in campo artistico e storico”. La Chiesa, si legge fra l’altro nel documento, “ha infatti annunciato il Vangelo e perfezionato il culto divino in molteplici modi attraverso le arti letterarie, figurative, musicali, architettoniche; nonché attraverso la conservazione di memorie storiche e di preziosi documenti della vita e della riflessione dei credenti. Il messaggio della salvezza si è comunicato, e ancora oggi si comunica, pure attraverso tali mezzi a intere moltitudini di credenti e non credenti”. In un contesto storico caratterizzato da grossolanità e volgarità, come pure dalla immanenza e dal fallimento della cultura dell’effimero, “sono molti, e sempre più numerosi, le donne e gli uomini che si fanno sensibili al valore umanizzante delle espressioni culturali e artistiche. Cresce di conseguenza la convinzione che è importante, per il futuro dell'umanità, por mano alla loro retta conservazione, alla difesa dalla dispersione e dalla strumentalizzazione (che derivano da un loro uso orientato solo a fini economici), alla loro valorizzazione come veicoli di senso e di valore per la vita umana”. La stessa preghiera comunitaria ed individuale dei futuri presbiteri, prosegue il documento, deve farsi spazio estetico, nel senso che essi devono essere educati alla preghiera “in modo da lasciare spazio anche alle dimensioni della sensibilità, dell'immaginazione, della contemplazione estetica. Quest'ultima, se ben inserita nell'esperienza della grazia e nell'accoglienza dello Spirito, non è per nulla distraente o evasiva; al contrario è veicolo di una sempre più profonda celebrazione delle “grandi opere del Signore” ”. Per venire a tempi a noi più vicini, si ricordi quanto Papa Giovanni Paolo II scrisse nella lettera apostolica Spiritus et Sponsa (4 dicembre 2003) nel quarantesimo anniversario della Costituzione Sacrosantum Concilium sulla Sacra Liturgia: “Un altro tema fecondo di sviluppi, affrontato dalla Costituzione conciliare, è quello concernente l'arte sacra. Il Concilio offre chiare indicazioni affinché essa continui ad avere, anche ai giorni nostri, un notevole spazio, sicché il culto possa risplendere anche per il decoro e la bellezza dell'arte liturgica”. Ciò perché l’arte, e in particolare l’arte sacra, è riflesso dell’infinita bellezza di Dio che l’uomo deve in qualche modo esprimere attraverso le sue opere. Bellezza e bene sono in rapporto osmotico. In una lettera agli artisti (4 aprile 1999), ancora Giovanni Paolo II osservava che “il rapporto tra buono e bello suscita riflessioni stimolanti. La bellezza è in un certo senso l'espressione visibile del bene, come il bene è la condizione metafisica della bellezza. Lo avevano ben capito i Greci che, fondendo insieme i due concetti, coniarono una locuzione che li abbraccia entrambi: “kalokagathía”, ossia « bellezza-bontà ». Platone scrive al riguardo: “La potenza del Bene si è rifugiata nella natura del Bello” ”.
Don Vincenzo ha quindi compreso che l’espressione artistica è un modo eccellente, oserei dire moderno o sempre attuale, per inserirsi nel vivo dei contenuti della nostra fede, in quanto la bellezza rimanda al buono, ed il buono al vero. È il circuito virtuoso dello spirito che prende le mosse da una qualificazione del Cristo, che la spiritualità orientale presenta come “il Bellissimo di bellezza più di tutti i mortali”[24]. Del resto egli, che ha vissuto appieno l’atmosfera del Concilio Vaticano II, di certo conserva vivida memoria dell’appello che i Padri Conciliari rivolsero agli artisti in conclusione del Concilio: “Questo mondo nel quale noi viviamo ha bisogno di bellezza, per non cadere nella disperazione. La bellezza, come la verità, mette la gioia nel cuore degli uomini ed è un frutto prezioso che resiste al logorio del tempo, che unisce le generazioni e le fa comunicare nell'ammirazione“.

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[1] Il termine icona deriva dal greco "eikon", che può essere tradotto con “immagine”. È l’espressione visiva del messaggio cristiano, affermato nel vangelo con le parole. Si tratta di una creazione bizantina del V secolo. L’occasione fu offerta dal ritratto della "Vergine odighitria" attribuito dalla tradizione all’evangelista San Luca. Quando nel 1453 crollò l’Impero Romano d’Oriente, i popoli balcanici contribuirono ad incrementare sia la produzione sia la diffusione di queste raffigurazioni sacre.

[2] Ciò spiega perché l’icona non riporta il nome dell’iconografo, cioè di colui del quale Dio stesso si è servito. Il dipinto iconografico del SS. Redentore invece riporta il nome del suo autore in basso a sinistra.
[3] A Michelangelo Merisi, detto il Caravaggio, “era stato ordinato un quadro di San Matteo per l’altare di una chiesa romana: il santo doveva essere rappresentato nell’atto di scrivere il Vangelo, e per mostrare che i Vangeli erano la parola divina doveva essergli posto vicino l’angelo ispiratore. Il Caravaggio, un giovane artista altamente creativo e intransigente, cercò di raffigurarsi la scena di un vecchio e povero operaio, un semplice pubblicano, improvvisamente alle prese con un libro da scrivere. Così dipinse San Matteo calvo, con i piedi nudi e polverosi, che afferra goffamente il grosso volume e aggrotta ansiosamente la fronte nell’insolito sforzo della scrittura. Al suo fianco dipinse un angelo adolescente, che sembra appena giunto dall’alto e che dolcemente gli guida la mano come può fare un maestro con il bambino. Quando il Caravaggio consegnò il quadro alla chiesa sul cui altare doveva essere appeso, suscitò scandalo per questa presunta mancanza di rispetto. Il dipinto non fu accettato e il Caravaggio dovette ricominciare da capo. Non volendo però correre ulteriori rischi, si attenne rigorosamente alle idee più convenzionali circa l’aspetto di un angelo o di un santo.” Ernst H. Gombrich, La storia dell’arte, Mondadori Electa Spa, Ristampa italiana 2002, Milano, pag. 31.
[4] Tuttavia va detto che la seconda versione, quella accettata, è più aderente all'idea cristiana di ispirazione, per cui l’autore sacro è solo ispirato da Dio e mantiene salve le sue facoltà di vero autore del testo sacro, tant’è che è possibile affermare che Dio e l'uomo sono coautori del testo biblico.
[5] Il Quinisext Concilio o Concilio in Trullo si tenne a Costantinopoli nel 692. Si affermò la centralità della figura umana del Cristo, che in ambito iconografico venne storicizzata allo stesso modo dei santi (ai quali si associa l’espressione di rappresentazione antropomorfica), vietandone nel contempo le raffigurazioni allegoriche non antropomorfe quali l'agnello, il pesce e la colomba.

[6] Il termine nel linguaggio biblico indica l’arca dell’alleanza.
[7] Il termine deriva dal greco leukos e significa bianco.
[8] “In principio Dio creò il cielo e la terra. Ora la terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l'abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque. Dio disse: "Sia la luce!". E la luce fu. Dio vide che la luce era cosa buona e separò la luce dalle tenebre e chiamò la luce giorno e le tenebre notte. E fu sera e fu mattina: primo giorno” (Gn. 1, 1-5).

[9] La parola nimbo deriva dal latino nimbus, che significa “nuvola”. Altra cosa è l’aureola, che è il cerchio di luce che avvolge la testa di un santo, di un angelo o di Gesù. Il nimbo è invece il disco dorato che avvolge il capo di costoro. L'aureola non può essere usata per i personaggi ancora viventi o che non sono ancora stati canonizzati dalla Chiesa. In alcuni dipinti, persone viventi in fama di santità sono ritratte con un'aureola quadrata. A volte il diavolo viene rappresentato con un'aureola nera, e così pure Giuda Iscariota.

[10] Mi sovviene – ma siamo su un piano prosaico – la distinzione degli uomini in due categorie tracciata dallo scrittore russo Nikolaj Gogol’ nel suo romanzo “Anime Morte”. Egli li distingue nei sottili e nei grassi o “non troppo grassi, ma neppure magri.” I primi sono esseri volteggianti, leggeri, aerei, mentre i secondi sono stabili e certi, più radicati nelle cose terrene. Come si vede, alle figure snelle o sottili è più agevole associare qualità spirituali.
[11] “Se guardo il tuo cielo, opera delle tue dita, la luna e le stelle che tu hai fissate, che cosa è l'uomo perché te ne ricordi e il figlio dell'uomo perché te ne curi? Eppure l'hai fatto poco meno degli angeli, di gloria e di onore lo hai coronato [...]” (Sal 8, 4-6).

[12] Micaela Soranzo, Simbolismo dell’acqua e oggetti collegati, su Vita Pastorale, n. 3, marzo 2007.
[13] “Mi è stato dato di vedere numerosi sogni di immersione totale nell’acqua e, a quanto ho potuto notare, essi corrispondono sempre ad un momento di possibile, radicale trasformazione dell’individuo. Non mi riferisco, ovviamente, ad immagini di lavacri in una vasca da bagno, o simili: sogni che possono anche essere importanti, ma solo a livello di purificazione, di pulizia da qualche cosa - ma certamente non di più. Parlo, invece, di sogni di immersione nel mare, in una sorgente, nell’acqua viva. Si tratta qui di un segno che è contemporaneamente un evento, una realtà dello spirito in cammino”. È ciò che scrive Mirjam Viterbi Ben Horin, psicoanalista junghiana, che si è dedicata in modo particolare allo studio dell’inconscio collettivo ebraico. Il passo in cui mi sono imbattuto mentre navigavo in Internet, è estrapolato da un capitolo del testo Il Sogno di Giacobbe, Edizioni Borla, Roma, 1993. Lia Luzzatto e Renata Pompas, nel loro interessante saggio intitolato “Il significato dei colori nelle civiltà antiche”, scrivono che il colore nero “connota la parte più celata dell’anima, quella che Jung chiama “ombra”, l’aspetto notturno della psiche”, l’inconscio dove, con le parole di Jung, “si agitano le belve e i mostri: l’inferno dello psichismo, che è anche riserva di energia da ordinare”. Cfr L. Luzzatto e Renata Pompas, Il significato dei colori nelle civiltà antiche, Bompiani, Milano, 2005, 2^ edizione Tascabili, pag. 66.

[14] “Essendo poi salito su una barca, i suoi discepoli lo seguirono. Ed ecco scatenarsi nel mare una tempesta così violenta che la barca era ricoperta dalle onde; ed egli dormiva. Allora, accostatisi a lui, lo svegliarono dicendo: «Salvaci, Signore, siamo perduti!». Ed egli disse loro: «Perché avete paura, uomini di poca fede?» Quindi levatosi, sgridò i venti e il mare e si fece una grande bonaccia. I presenti furono presi da stupore e dicevano: «Chi è mai costui al quale i venti e il mare obbediscono?»” (Mt 8, vv. 24-27).


[15] “Il Signore Dio fece per Adamo e sua moglie delle tuniche di pelle e li rivestì” (Gn 3, 21).
[16] “La terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l’abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque” (Gn 1, 2).
[17] La parola iconoclastia viene dal greco è significa “distruzione delle immagini”. L’iconoclastia afflisse la Chiesa dal 726 all’ 842 d.C. Riprese vigore col Protestantesimo nel XVI secolo.
[18] Per latria si intende il culto di adorazione dovuto solo a Dio. L’etimo deriva dal greco latreia, servitù, che deriva da latris, servo; la dulia è il culto reso ai santi, in quanto servi di Dio, mentre quello dovuto alla Madonna è di iperdulia. Infine, l’idolatria è l’adorazione di false divinità. Cfr Antonio Rosario Mennonna, Piccolo glossario del Cristianesimo, Edizioni Dehoniane, Roma, 2^ Edizione, gennaio 1992.
[19] Gregorio I o Gregorio Magno (540 – 12 marzo 604) fu papa della Chiesa cattolica dal 3 settembre 590 alla sua morte.
[20] Es 36, 1
[21] Es 25, 18-20
[22] Es 37, 35
[23] L’errore da evitare è di rivolgersi al santo non in qualità di intermediario, di intercessore, ma di “elargitore autonomo” di grazie e favori.

[24] Enkomia dell'Orthós del Santo e Grande Sabato.

"You will make great progress with your writing in this lifetime. I am assured of that. Whatever God bestows upon us as gifts, He desires for us to use fully and completely . . . your words and your ability to express thoughts with those words so eloquently upon the paper are God's hands at work through you. They will take you very far in this life. You have already changed lives, hearts and peoples' thoughts with yours. All my love, C."...
Thanks a lot for these thoughts...We all are in His hands...

venerdì 23 ottobre 2009

Il mio stemma o logo

Fortitudo et Dulcedo
Strenght and Sweetness

Un commento al mio libro "Lettera ad un single"

"Ciao Salvatore, sì, ho finito di leggere il tuo libro ieri sera...Bello! è un mettere a nudo oltre che te stesso, la nostra società...il nostro vivere, pieno di tutto e di niente. Alla ricerca sempre di quella "virgola" che manca e che, pensiamo, sia la causa del nostro malessere...è il comune denominatore che ci unisce: la ricerca della felicità!La felicità che spesso abbiamo sotto gli occhi e non la riconosciamo...può rivelarsi sotto forma di qualsiasi cosa, non è il biglietto vincente del super enalotto...può essere un tramonto, una tuffo e bella nuotata (come scrivi tu), staccare dal lavoro per respirare "aria"...Ricordo quando erano piccoli i miei figli, nel ritorno da scuola mi raccoglievano i fiori che trovavano nel campetto e la gioia era elevata al massimo quando tra questi fiorellini gialli c'erano i papaveri...era sinonimo di libertà, la scuola che finiva...Felicità=Libertà. Si riesce ad apprezzare molto di più tutto questo, quando la vita diventa "cattiva"...Quando mamma stava male e non riusciva ad alzarsi più dal letto, in quei momenti di lucidità che solo la morfina riusciva a regalarle, disse: come vorrei saltare via da questo letto e mettermi a correre!FELICITA'=LIBERTA'" G.D.R.


Cara Grazia,
ti sono molto grato del commento e della ventata di candore che lo permea...Felicità, Libertà...Le massime aspirazioni dell'uomo, solo che cerchiamo la felicità dove c'è miseria morale, e la libertà dove ci sono catene, pesanti catene...Un abbraccio...S.

mercoledì 21 ottobre 2009

LO YOGA DELLA FORZA E DELLA RESA, PASSANDO PER LA DANZA


Il 18 ottobre scorso cento persone, in un clima di amicizia e di festa, hanno affollato il salone dell’Hotel Pineta di Ruvo per immergersi nel mondo dello yoga, in una full immersion di circa 4 ore scandita dalle asanas (posizioni) che, come anche la medicina ufficiale oggi sostiene, favoriscono il benessere psico-fisico, contribuendo a creare condizioni di maggiore armonia, lucidità mentale e consapevolezza di sé.
La manifestazione (un evento inconsueto per Ruvo, considerati il tema ed i numeri) è stata organizzata dall’Associazione Sehaliah, attiva dal 2005, con la Scuola di Formazione Insegnanti Soloyoga di Milano, in collaborazione con l’Hotel Pineta, sotto la sagace e meticolosa direzione di Luigi Zazzarini. “Yoga Fest” è stato patrocinato dall’Assessorato per le politiche dello sport di Ruvo e dal CSEN-CONI.
Nel suo prologo Salvatore Bernocco, presidente di Sehaliah, dopo aver ringraziato i partecipanti, molti giunti da altre province pugliesi, dalla Basilicata, dalla Campania e dall’Abruzzo, l’Amministrazione comunale, in particolare l’assessore Nico Curci, e Patrizia D’Abramo dell’Hotel Pineta, ha introdotto i tre maestri, Alexandra van Oosterum, direttrice di Soloyoga di Milano; Cristina Mascherpa, insegnante presso Il Mosaico di Milano; Paolo Fiorentino, insegnante yoga presso il centro sportivo Kendro di Triggiano. I tre maestri hanno intrattenuto gli intervenuti con posizioni e teoria, alternando minuti di lavoro intenso a momenti di rilassamento e benessere, in un susseguirsi di esplosioni di forza ed energia e di calma interiore, ottenuta attraverso il sapiente controllo del respiro ed i mantra. Si è anche danzata “l’illusione dell’equilibrio” con la Mascherpa, la quale ha voluto trasmettere l’idea per cui non vi è mai un equilibrio stabile nella persona. La stabilità, l’equilibrio (anche emotivo e mentale) va ricercato attimo dopo attimo, lasciandosi andare al fluire della vita, ascoltandola scorrere dentro di noi, in quel luogo recondito dove essa può sperimentarsi appieno. Se imbrigliata, la vita si ribella, si ritorce contro, generando stati di tensione e malesseri di varia natura e gravità. La beatitudine, allora, la felicità, la serenità, è l’obiettivo ultimo dello yoga, a prescindere dalle implicazioni spirituali che ciascuno è libero di dargli. Lo yoga, infatti, non è una religione, non ha nulla di misterico, ma è un insieme di tecniche tese ad aiutare la persona a prendere maggiore consapevolezza di sé, con ciò favorendo implicitamente l’apertura di un canale spirituale in direzione di una visione diversa della vita e dell’uomo, all’insegna della pace universale e della fratellanza.
A conclusione della festa, Bernocco ha rivolto un particolare saluto alla vice-presidente di Sehaliah, Franca Rita De Astis, esperta di ayurvedica, e ad Imma Ferrante, insegnante presso la scuola di yoga di Ruvo, fra le fondatrici di Sehaliah, un’esperienza associativa che, come ha detto Bernocco, “è come un arazzo bello a vedersi, disegnato su una realtà spesso refrattaria al nuovo”.
È quindi seguito il buffet vegetariano a cura dell’Hotel Pineta Wellness & Spa, ricco di prelibatezze genuinamente indiane.

lunedì 19 ottobre 2009

Viaggio spirituale (cap. 3)


3. Primi passi all’interno del tempio
Varcata la soglia del tempio si è abbacinati dall'immagine del Cristo Redentore, l'opera musiva absidale composta di oltre 750.000 tessere realizzata nel 1992 dalla Mosaic Art di Domenico Colledani di Milano su disegni di Gaetano Valerio di Cassano Murge. Il mosaico attrae, colpisce, suggerisce percorsi spirituali, impennate di fede, ma di esso parlerò in seguito­.
La chiesa ospita numerose statue di Santi. Uno sguardo ad esse, non meramente legato alla loro fattura ed all’estetica, si impone. Ad esse si collegano antiche quanto feconde devozioni popolari.
Le prime che incontro sono quelle di S. Giovanna D'Arco e di S. Ciro[1]. Traiamone una breve riflessione a beneficio dello spirito e dell'azione, in quanto ogni bagliore spirituale deve poter illuminare il nostro mondo interiore ed influire sulla sfera delle nostre azioni. Nell'uomo non può esserci separazione fra interno ed esterno. Inevitabilmente la sfera interiore si riflette su quella esteriore, i nostri volti narrano le nostre peripezie, dicono della nostra pace interiore o dei nostri conflitti non sanati, e mentre la nostra quiete interiore si fa benevolenza e mansuetudine, apertura sul mondo ed amore verso l'altro, i nostri conflitti si traducono spesso in latitanze o in dolorose ed esacerbanti diatribe. È profondamente vero che le grandi guerre cominciano nel fondo del cuore d'ognuno, quel cuore che, sede dei sentimenti per il popolo ebraico, soltanto Dio può mutare in un cuore di carne, mite ed umile, accogliente ed amorevole. La pace nasce dentro, e anche se una legislazione la imponesse, essa non potrebbe raggiungersi che a condizione di viverla dentro di sé, nel proprio cuore. La pace come la dà il mondo non è la pace come la dà il Cristo. La prima è fragile ed esposta, sotto il profilo politico, alle distorsioni del pacifismo che, essendo una pace ideologica, non può condurre alla vera pace. È una pace senza chiesa, per cui non ha le sue radici in alto, nei cieli, da dove proviene la parola liberante. Nella sua versione materialista, è stordimento da consumo di cose, è droga, è l'appagamento del rapporto 1'erotico. Dura poco, è effimera, e verte sul soddisfacimento dei propri bisogni e delle proprie pulsioni. In questo contesto marcato a fuoco dal materialismo e dal relativismo, l'altro non assurge alla dignità di prossimo, è strumento, utensile, non fine. La seconda, la pace del Cristo, è invece definitiva perché prescinde dalle cose e si fonda sulla roccia dello Spirito che è vita e dà la vita. Noi non saremmo senza il soffio dello Spirito. Ma la pace deve includere la gioia. Se vi è pace vera, vi è anche gioia, ed è per questa ragione che la presenza della pace si misura col metro della gioia. Se non vi è molta gioia in giro e sono in vertiginoso aumento i casi di violenza pubblici e privati, è perché non ci rivolgiamo al Cristo ed alla sua pace.
Ma andiamo a Giovanna d’Arco. La Pulzella d'Orlèans fu condannata dalla scienza teologica del tempo perché ritenuta eretica. Il connubio micidiale fra cultura teologica dell'epoca (francese) e politica (il dominio inglese) la condannò al rogo. Era il 30 maggio 1431. Sarebbe stata riabilitata anni dopo l'atroce morte, nel 1450, e proclamata santa da Benedetto XV nel 1920. Come non riflettere su certa teologia che perde di vista la centralità del messaggio cristiano e che, talvolta e per finalità di potere mondano, civetta con la politica? L'infausta commistione fra gli interessi politici e la cura spirituale mina alle basi la vitalità e la freschezza del messaggio evangelico, la cui cifra peculiare sta nella sua assoluta gratuità, nella sua universalità, nell’essere assolutamente refrattario alle lusinghe del potere, che si convertono in favori e privilegi. Il potere ha un prezzo, le sue liturgie prevedono il ricorso alla furbizia e al compromesso deteriore, mentre il messaggio evangelico è dono e grazia.
Esemplare è la vicenda di Ciro, vescovo di Alessandria, martire nel 303. Fu medico anargiro, cioè senza compenso (letteralmente, senza argento), perché prestava le sue cure a tutti, specie ai poveri, senza farsi pagare. Curò non solo i corpi ma anche le anime, e proprio per consolare Atanasia e le sue tre figlie Eudossia, Teodota e Teotiste, catturate dai Romani, si recò col suo seguace Giovanni d’Edessa a Canopo, dove subì le stesse torture inflitte alle quattro donne. Fu decapitato il 31 gennaio.
Da una parte, quindi, estrapoliamo il monito a non mischiare la fede con il potere, dando a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio (Mt 22,21), sulla scia del resto dell'episodio evangelico delle tentazioni di Gesù nel deserto. Quando il diavolo gli offre tutti i regni del mondo con la loro gloria, quindi il potere, Gesù gli risponde: “Vattene, satana. Sta scritto: Adora il Signore Dio tuo e a lui solo rendi culto” (Mt 4,10). Tre furono le tentazioni, e se il numero tre indica la perfezione o la totalità, è evidente che la terza tentazione fu (ed è) la tentazione "perfetta", quella più subdola ed ostica da vincere, quella che in sé racchiude le prime due, le tentazioni del pane e del prodigio. Il potere dà pane e promette prodigi, cioè cose mirabili sul piano mondano, ed in questo senso esso può dirsi la tentazione per eccellenza, quella che comprende le prime due. Vinta la terza tentazione, solo allora “il diavolo lo lasciò ed ecco angeli gli si accostarono e lo servivano” (Mt 4,11).
Dall’altra parte c'è la testimonianza di Ciro, un esempio dì gratuità e di testimonianza cristiana, un invito alla carità, che sempre ha a che fare con la persona umana in carne ed ossa. Amando si ottengono vita e pace, per cui se le pratiche di meditazione orientale oggi molto in voga nel mondo occidentale possono avere un effetto rilassante, non possono a stretto rigore considerarsi pratiche spirituali, nel senso che, iniziando e finendo nell’uomo singolarmente inteso, non sono pratiche caritative[2]. In esse si parla di amore universale, di pace, di armonia, ma l’amore universale non ha senso se non soccorre l’altro nelle sue difficoltà particolari, cosicché la pace e l'armonia sono, in quelle discipline filosofiche o meditative, pure astrazioni, vivono più nel mondo delle idee e delle utopie che nella realtà. Con ciò non voglio demonizzarle, ma soltanto evidenziarne i limiti sul piano dell’amore in azione, delle opere, sulle quali saremo giudicati. Alle filosofie della pace ed alle teorie sull'amore, che provengano da est o da ovest, dobbiamo sostituire, contrapporre quasi, ma sempre con mansuetudine e rispetto, la teologia della gioia e dell’amore cristiano, dell’agape, che ha in sé poca teoria e molta pratica.
Prima di incontrare i nostri due Santi, molto venerati nella chiesa del SS. Redentore, vi è una nicchia con una statua di Santa Rita da Cascia. E ci si imbatte in un monito, o meglio in una frase esortativa sul piano spirituale che induce a riflettere. È posta ai piedi di un bel crocefisso: “Questi occhi chiusi guardano ogni pianto”. Tempo fa sono stato a Cascia. Mi recai al cosiddetto “scoglio”, dove Rita andava a pregare. Un luogo romito, impervio, di grande fascino e bellezza, dove tocchi con mano quel tipo di solitudine che è la porta d’accesso alla preghiera del cuore. Uno scoglio posto in alto, che quasi uncina il cielo, contro cui si infrangono le onde del mondo, i suoi clamori, le sue insensatezze. Lo circonda l’invisibile mare dell’eterno in cui Rita amava immergersi. Noi che temiamo la solitudine come i gatti temono l’acqua, e che necessitiamo di chiasso, abbiamo molto da apprendere da questa donna singolare. Una vita tribolata, grandi difficoltà, la morte violenta del marito e quella dei suoi due figli, l’immersione totale nell’amore di Dio, la preghiera nella solitudine di quel luogo, dove in realtà l’anima non è sola ma sperimenta la presenza del Signore. Sgorga dal vangelo il consiglio del Cristo agli oranti: “Tu invece quando preghi, entra nella tua camera, e, chiusa la porta, prega il Padre tuo nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà" (Mt 6,6).
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[1] La statua di S. Giovanna d’Arco fu realizzata nel 1940 da Carmelo Bruno, mentre quella di S. Ciro è del 1946, opera dello scultore Giuseppe Stuffleser.
[2] “Al monologo silenzioso dell’asceta indù sulla stuoia si oppone, non meno silenzioso – poiché non è composto di parole – il dialogo di ogni cristiano, dal più umile al più mistico, ansioso di rispondere alle offerte, alle premure del suo Dio. […] Ora se lo hatha-yoga si adatta, senza troppa difficoltà, a questa esigenza fondamentale, non si può dire lo stesso di altri yoga. Del raja-yoga, per esempio, che nella sua essenza sembra essere il ripiegamento assoluto su di sé, cioè lo stato di chi si è staccato da tutto, anche da ogni conoscenza positiva e obiettiva […]. Una simile tendenza, come chiunque può constatare, è incompatibile con l’essenza del cristianesimo e certamente in contraddizione con l’esperienza dei santi.” Tuttavia alcune tecniche delle discipline yogiche possono favorire la pratica della preghiera e della meditazione cristiane, scartando “tutto ciò che porterebbe soltanto al ripiegamento, all’isolamento”. Jean-Marie Déchanet, Yoga per i cristiani, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo, decima edizione, 2002, pag. 22 e segg.