4. L’icona del Battesimo di Gesù
Proseguendo nel cammino all’interno del tempio, mi imbatto nella recente (2006) e stupenda icona[1] del Battesimo di Gesù, che sormonta il fonte battesimale del 1904, dono del can. Giuseppe Pellegrini, e collocata nell’omonima cappella. In realtà più che di una icona sarebbe corretto parlare di un dipinto che si rifà o si ispira al codice iconografico classico. E’ anch’essa opera del pittore Gaetano Valerio, che pare sia stato ispirato da Dio, il quale, anzi, secondo la tradizione, ne è il vero artefice. Si credeva infatti che Dio stesso esprimesse la sua perfezione attraverso l’iconografo[2]. Una breve digressione. Mi sovviene il dipinto “San Matteo e l’Angelo” del Caravaggio (1602), che si può ammirare a Roma nella chiesa di San Luigi dei Francesi. Ve ne furono due versioni, in realtà. In entrambe compare l’angelo ispiratore, il quale nella prima versione, quella che fu respinta perché non ortodossa e che andò distrutta negli eventi bellici del 1945 a Berlino, guida materialmente la mano di San Matteo nella stesura del vangelo, mentre nella seconda versione, quella accettata in quanto rispondente alle idee più canoniche circa la rappresentazione di un santo o di un angelo, gli parla dall’alto[3]. L’idea dominante è anche qui quella dell’intervento divino, come se Dio stesso fosse l’artefice dei vangeli, colui che realmente li detta attraverso uno dei suoi angeli. San Matteo quindi è solo un amanuense, l’autore dei testi è il Signore. Un parallelismo che, al di là del valore non comparabile delle due opere, evidenzia in ogni caso quanto pregnante e radicata sia l’idea che ad ispirare certe opere sia Dio, e che l’artista non sia che il mero esecutore dei deliberati divini, seppure con l’apporto determinante della propria sensibilità e la propria tecnica[4].
Per altro verso l’iconografia presupponeva non soltanto una notevole preparazione tecnica, ma anche spirituale da parte dell’artista. Il pittore si preparava adeguatamente per creare l’opera iconografica proprio perché egli diveniva la mano di Dio, con la sua arte entrava in stretto, intimo contatto con la divinità, e ciò richiedeva una profonda e generale catarsi, una generale purificazione mentale, spirituale e fisica.
Prima di addentrarci nel significato evangelico e di fede dell’icona o “festa” del Battesimo di Gesù, ricordiamo brevemente come si perveniva all’icona. Ne emergerà anche l’estrema perizia del suo autore, che si è attenuto a quanto stabilito in proposito dal Concilio in Trullo[5] nonché ai principali dettami della ortodossia iconografica. L’icona era dipinta su tavolette di legno (tiglio, larice o abete). La parte interna della tavola era scavata e chiamata tecnicamente KOVČEG[6] o più comunemente arca. Su questa tavola veniva poi applicata una tela di lino, che voleva ricordare il telo della Veronica, e su di essa si applicavano diversi strati, almeno sette, di LEVKAS[7], che serviva a creare il fondo dell’icona ed era composto dal bianco di Medon mescolato alla colla di coniglio. Sulla superficie che veniva così a crearsi si cominciava a tratteggiare il disegno. Si partiva con uno schizzo della rappresentazione, quindi si passava alla fase della pittura. S’iniziava con la doratura di tutti i particolari (bordi dell’icona, pieghe dei vestiti, sfondo e corone o nimbi), quindi si passava a dipingere i vestiti, gli edifici e il paesaggio. L’effetto tridimensionale dell’icona si otteneva partendo da un fondo scuro che si andava a schiarire in varie fasi fino a raggiungere il bianco che veniva dato solo nei tratti più in rilievo del volto, come zigomi, naso, fronte. Questo procedimento che parte dallo scuro per giungere fino al chiaro prende spunto da quanto Dio operò nella creazione: la luce di Dio irrompe nel caos e, via via che la luce sorge e si diffonde nel creato, si delineano le forme di tutte le cose[8]. La vernice rossa era disposta in uno strato sottile attorno alle labbra, sulle guance e sulla punta del naso. Con una vernice marrone chiara erano dipinti gli occhi, le ciglia ed eventualmente i baffi o la barba. Quanto poi all’espressione del soggetto religioso ritratto, lo sguardo delle icone è ricercato, volto a suscitare inquietudine, riflessione, ricerca di un dialogo con l’aldilà. È una finestra aperta su Dio. Ma essa suscita anche speranza, trattandosi di sguardi provenienti dall’eternità.
Per tali ragioni non si pensi che l’icona sia assimilabile ad un quadro o ad un dipinto qualsiasi. L’icona parla di eternità, parla di Dio, e può essere compresa soltanto da chi conosce le Sacre Scritture, da chi si pone in un’ottica di fede o spirituale per cui Dio è “il giudice ed il supremo occhio che osserva e al quale nulla sfugge”. Non sarebbe quindi corretto parlare di semplice rappresentazione artistica, ricca come essa è di significati simbolici. In tale contesto, ad esempio, i colori hanno una grandissima importanza per la comprensione dell’icona. I colori fondamentali sono quattro. Il blu è il colore della trascendenza, mentre il rosso è il simbolo dell’umano e del sangue sparso dai martiri. Il verde simboleggia la natura, la fertilità o l’abbondanza. Il giallo è, infine, il colore della conoscenza e della sapienza. Quando assume la sfumatura di giallo oro è simbolo della luce divina, della verità. Il marrone non è un colore primario, ma derivato (formato dal rosso e dal verde), e designa ciò che appartiene alla terra e nella sua natura più umile e povero. Anche le lettere dipinte sull’icona assumono un particolare valore: le icone del Cristo presentano sempre la dicitura “IC XC” (forma greca abbreviata di Gesù Cristo) e anche “O ΩN” ("colui che è"; il simbolo è generalmente inserito nel nimbo[9]). La Vergine Maria invece presenta la dicitura “MP OY” (forma greca abbreviata di Madre di Dio); vicino al suo nome possono comparire altre diciture, come ad esempio “Onnipotente”, “Datore di Vita”, “Vergine Madre”.
E veniamo più nel dettaglio alla nostra icona del Battesimo di Gesù. Notiamo, sul lato destro, tre angeli in vesti di colore marrone, i quali reggono un drappo blu che nasconde le loro mani. Il nascondimento delle mani indica una impossibilità o una proibizione, un divieto. Ad essi difatti è precluso toccare la divinità. La loro fisionomia è oblunga come lo sono quelle del Cristo nel fiume Giordano, al centro della scena, e di Giovanni il Battista, sul versante sinistro. Tale raffigurazione ne vuole enfatizzare la natura spirituale[10]. Si tratta di figure esili ed affusolate, prive d’ogni contenuto o elemento corporeo o materiale, quasi diafane. Sono figure che si allungano, si proiettano verso l’alto, il cielo, sede della divinità. Anche questa scelta è in linea con la ortodossia iconografica. Nelle icone i volti dei santi sono chiamati lichi, cioè volti che si trovano fuori dal tempo e dallo spazio, che hanno abbandonato il mondo delle passioni terrene, eternati dalla pittura iconografica. Pur essendo trascinati e coinvolti in questa dimensione spirituale ed eterea, tuttavia mantengono la loro dimensione umana: restano uomini e in qualità d’essere umani mantengono l’immagine di Dio sul loro volto. I tre angeli hanno sembianze umane. Sono puri spiriti, e come tali sarebbero non rappresentabili. Di qui l’attribuzione della sembianza antropomorfa che intende dare una pallida idea di ciò che appartiene alle realtà invisibili e non rappresentabili, con un aggancio probabile ed intuitivo alla Sacra Scrittura dove, a proposito dell’uomo, si dice che fu creato di poco inferiore alle creature angeliche[11]. Questo scarto minimale fra l’uomo e le creature angeliche autorizzerebbe la loro rappresentazione antropomorfa.
Il Cristo quindi si fa uomo e riceve nel fiume Giordano il battesimo da Giovanni il Battista, il precursore. Gesù entra nudo nelle acque, che rappresentano il peccato e la morte, mentre il fiume rappresenta il lento scorrere della vita. Cristo entra nella storia fatta di morte e peccato per uscirne vittorioso dopo il battesimo. Egli, entrando nelle acque, le benedice e queste diventano sante e fonte di vita perché tale è Gesù, il Santo di Dio e datore di vita. E’ importante notare la posizione della mano benedicente del Cristo che indica che egli è sia uomo-Dio (questo il senso dell’unione dell’ indice e del medio), sia una delle tre persone della Santissima Trinità (questo il senso delle altre tre dita: pollice, anulare e mignolo, che si toccano alle punte).
Come per altro verso scrive Micaela Soranzo, “senz’acqua non esiste vita. Nella tradizione ebraica e cristiana l’acqua è legata all’origine della creazione: è la sostanza-madre dalla quale venne creato il mondo, ma, per la sua mancanza di forma, è anche immagine del caos, delle condizioni esistenti prima della creazione del mondo. Prima che fosse creata la luce «le tenebre ricoprivano l’abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque» (Gen 1,2). L’acqua può essere creativa o distruttiva, sorgente di vita o di morte: tutto l’Antico Testamento esalta il segno di benedizione dell’acqua, poiché «un fiume usciva da Eden per irrigare il giardino» (Gen 2,10) e il Signore ha fondato la terra sui mari «e sui fiumi l’ha stabilita» (Sal 24,2), anche se constata la sua forza distruttiva nel diluvio e nel passaggio del Mar Rosso”[12]. In un certo senso Gesù, entrando nelle acque, completa l’opera di benedizione e di pacificazione universale del Padre. Il caos è vinto una volta per tutte, le acque si placano. In una prospettiva psicologica e del profondo, il mare si collega alla vita, al cambiamento, a fenomeni di mutazione[13], e con la fede nel Cristo anche il mare magnum dell’inconscio, con le sue acque talvolta torbide ed agitate, scure ed angoscianti, è rasserenato. Agile e non eludibile il riferimento all’episodio della tempesta sedata che può leggersi nel vangelo di Matteo[14].
Tutti i personaggi hanno la testa contornata dal nimbo. Il nimbo, come ho accennato, indica la presenza di Dio nella vita di tutti gli esseri, sia terrestri che celesti. E’ Dio che sorregge la vita. Il nimbo del Cristo è crociato per indicare di quale morte morirà. In questa croce ci sono le scritte Ό ΏΝ, che significano “io sono colui che sono”, nome con cui Dio si manifestò a Mosè sul monte Sinai. Alla destra di Cristo c’è Giovanni il Battista, che è l’unico personaggio a cui è concesso di toccare Gesù. Egli è vestito di pelli di cammello e simboleggia l’uomo vecchio, Adamo, che Cristo, l’uomo nuovo, è venuto a riscattare[15]. La scritta ΙС ХС (Gesù Cristo) è posta sopra le acque, vi aleggia come aleggiò lo spirito del Creatore sulle acque all’origine dei tempi [16].
La natura è arida e brulla, e ciò sta ad indicare la condizione di peccato in cui versa l’umanità. Le montagne poi hanno un significato particolare. Sono quattro, distinguibili solo nella parte alta, mentre alla base sono unite e compatte. Su questa base poggiano i personaggi. Le cime rappresentano i quattro evangelisti; sulla loro testimonianza poggiano i misteri principali della fede cristiana. Se si osserva il movimento delle punte delle montagne, si nota che tre di esse, quelle poste a destra, puntano al cielo, mentre una quarta, quella a sinistra, è ricurva e sembra piegare verso l'emisfero blu, colore che, come si è detto, rappresenta la divinità. Questa montagna ricurva rappresenta il quarto evangelista, Giovanni, che, come dice Clemente d'Alessandria, "vedendo che nei Vangeli degli altri erano narrate piuttosto le cose che riguardavano la parte umana di Cristo, per impulso divino, a richiesta dei suoi discepoli, ultimo di tutti, scrisse un Vangelo spirituale". Questa montagna, quindi, traccia una linea ideale che si protende verso l'alto e conduce a Cristo, e sta a significare che Giovanni evangelista tende a Dio nella sommità e in basso è di sostegno al Battista, il quale con il suo gesto riconduce lo sguardo alla persona del Cristo.
Tuttavia, a ben vedere, nel dipinto è presente tutta la SS. Trinità. La presenza del Padre è simboleggiata dalla nube posta in alto, da cui promana un fascio di luce, mentre una colomba indica la presenza dello Spirito Santo. Le lettere greche che compaiono accanto alla figura di Giovanni significano “Giovanni Battista precursore”, mentre l’espressione collocata in alto, HBAП TIGIG, vorrebbe dire “Battesimo di Gesù”.
L’opera di Gaetano Valerio può dirsi un compendio di teologia che si offre alla vista del visitatore, invogliato a soffermarsi sui particolari per scoprirne il messaggio di fede e di speranza. E per inclinare alla preghiera, quel movimento essenziale dell’anima che si volge al Padre come al sole della vita, e che è facilitato dalle immagini sacre. Queste aiutano la fede senza mai sostituirsi ad essa o esserne una pericolosa scorciatoia o deviazione. Se così fosse dovremmo dare ragione, seppure postuma, alle eresie iconoclastiche[17], mentre siamo nel campo della latria e della dulia, non dell’idolatria[18], quando ci serviamo delle immagini sacre scolpite o raffigurate.
Valgano in questa sede alcune considerazioni di ordine teologico di cui sono in parte debitore all’apologeta Giampaolo Barra. Ma prima un po’ di storia. Nel 730 Leone III Isaurico, imperatore d’Oriente, si intromette nelle questioni ecclesiastiche, essendoci state in Oriente degli episodi di fanatismo nella venerazione delle immagini sacre, e vieta il culto delle icone e delle immagini, diffuso in tutto l’orbe cristiano. Egli ordina la distruzione di un’immagine del Cristo assai venerata. La proibizione dà la stura alla distruzione feroce di stupende opere d’arte. Germano, patriarca di Costantinopoli, gli si oppone, ma viene destituito ed i difensori delle immagini sacre duramente perseguitati. La persecuzione durerà anche dopo Leone III. Nel 787 il Concilio di Nicea finalmente sancì l’assoluta liceità di rappresentare con immagini le figure di Gesù, di Maria, degli angeli e dei santi, in quanto la contemplazione di esse invita il fedele ad imitare i personaggi rappresentati. Imitazione, ma non solo. Esse servono anche ad abbellire i luoghi di culto e ad approfondire la conoscenza degli episodi biblici. Come affermò Gregorio Magno[19], “la pittura può servire all’analfabeta quanto la scrittura a chi sa leggere”. Nel XVI secolo l’iconoclastia riprese impulso. Furono soprattutto i calvinisti a distinguersi nella distruzione di molte statue e di molte immagini nelle chiese che occuparono dopo lo strappo con la Chiesa romana. A fianco del mondo protestante, anche la setta dei Testimoni di Geova è contraria alla venerazione delle immagini.
Tale contrarietà si fonda su una lettura errata della Bibbia. I versetti 2, 3 e 4 del capitolo 20 del libro dell’Esodo sono quelli sub judice: “Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dal paese d’Egitto, dalla condizione di schiavitù: non avrai altri dèi di fronte a me. Non ti farai idolo né immagine alcuna di quanto è lassù nel cielo né di quanto è quaggiù sulla terra, né di ciò che è nelle acque sotto la terra.” Ad una lettura superficiale, il divieto parrebbe esistere. Ma così non è perché soccorre il versetto 5, che spiega la ragione di quel divieto: “Non ti prostrerai davanti a loro e non li servirai.” Dio quindi non proibisce l’uso delle immagini sacre in quanto tali, ma l’idolatria, cioè la sostituzione di Dio con un idolo e la sua adorazione. Ma soccorrono altri passi. Sempre nel libro dell’Esodo si legge che Mosé convocò tutti gli uomini di ingegno perché eseguissero i lavori della costruzione del santuario, facendo ogni cosa secondo i voleri del Signore[20], consistenti nell’adornare con statue ed immagini l’Arca dell’Alleanza. Esplicita fu la richiesta di Dio di fare due cherubini d’oro. Egli impartì espresse disposizioni sul modo come lavorarli e sulla loro disposizione[21]. Ancora, Bezaleel, uno degli artisti convocati da Mosé, “fece il velo di porpora viola e di porpora rossa, di scarlatto e di bisso ritorto. Lo fece con figure di cherubini, lavoro di disegnatore”.[22] E finanche troppo agevole concludere che il Signore non aborre né le statue né i disegni, purché siano “funzionali” al suo culto, cioè al culto dell’unico vero Dio, e non siano piegate o dirette all’idolatria. Altri esempi possono estrapolarsi dalla Bibbia ed altri ancora dalla storia delle prime comunità cristiane. Ad esempio, lo scrittore Tertulliano nel De Pudicitia ci parla delle immagini del Buon Pastore con cui i primi cristiani adornavano i calici, mentre lo storico Eusebio di Cesarea nell’Historia Ecclesiastica dice di aver visto coi propri occhi le immagini dipinte di Gesù e dei Santi apostoli Pietro e Paolo. Per quanto attiene al culto dei santi, la stessa Bibbia e la storia della chiesa primitiva ci autorizzano a sostenere che la loro venerazione è gradita a Dio, non è contraria all’insegnamento della Bibbia e in sintonia con quello che i cristiani hanno sempre fatto.
Per venire a tempi più recenti, Giovanni Paolo II chiese ai Vescovi di tutto il mondo di “mantenere fermamente l’uso di proporre nelle Chiese alla venerazione dei fedeli le immagini sacre”. Questo perché il fedele deve essere aiutato nella preghiera e nella vita spirituale con la visione di opere che cercano di esprimere il mistero senza occultarlo. Per il predecessore di Benedetti XVI, “la scoperta dell’icona cristiana aiuterà anche a far prendere coscienza dell’urgenza di reagire contro gli effetti spersonalizzanti, e talvolta degradanti, delle molteplici immagini che condizionano la nostra vita nella pubblicità e nei mass-media”. Sono parole che confortano l’impegno costante di don Vincenzo Pellegrini a voler conservare il patrimonio ereditato e nel contempo a dotare il tempio di opere significative ai fini spirituali, volte a favorire l’espressione del culto che si deve a Dio ed ai suoi santi che, in ultima analisi, si risolve sempre in un atto di culto a Colui che è la sorgente sempre viva e zampillante della Santità[23]. Trovo ad abundantiam che la sua dedizione sia perfettamente conforme ai dettami della Chiesa in materia di arte sacra.
Ne fornisco qualche riscontro documentale, con un incipit “laico” dello scrittore Hermann Hesse, che nel suo libro “Peter Camenzind” così scrive: “L’arte di tutti i tempi si sforza di dare espressioni al muto desiderio del divino che è in noi”. È un efficace proemio a quanto segue, una straordinaria sintesi. Ad esempio, la Pontificia Commissione per i Beni Culturali della Chiesa in un documento del 15 ottobre 1992 intitolato “La formazione dei futuri presbiteri all’attenzione verso i beni culturali della Chiesa” ed indirizzato ai vescovi diocesani, pose l’accento sulla “promozione, la custodia e la valorizzazione delle più alte espressioni dello spirito umano in campo artistico e storico”. La Chiesa, si legge fra l’altro nel documento, “ha infatti annunciato il Vangelo e perfezionato il culto divino in molteplici modi attraverso le arti letterarie, figurative, musicali, architettoniche; nonché attraverso la conservazione di memorie storiche e di preziosi documenti della vita e della riflessione dei credenti. Il messaggio della salvezza si è comunicato, e ancora oggi si comunica, pure attraverso tali mezzi a intere moltitudini di credenti e non credenti”. In un contesto storico caratterizzato da grossolanità e volgarità, come pure dalla immanenza e dal fallimento della cultura dell’effimero, “sono molti, e sempre più numerosi, le donne e gli uomini che si fanno sensibili al valore umanizzante delle espressioni culturali e artistiche. Cresce di conseguenza la convinzione che è importante, per il futuro dell'umanità, por mano alla loro retta conservazione, alla difesa dalla dispersione e dalla strumentalizzazione (che derivano da un loro uso orientato solo a fini economici), alla loro valorizzazione come veicoli di senso e di valore per la vita umana”. La stessa preghiera comunitaria ed individuale dei futuri presbiteri, prosegue il documento, deve farsi spazio estetico, nel senso che essi devono essere educati alla preghiera “in modo da lasciare spazio anche alle dimensioni della sensibilità, dell'immaginazione, della contemplazione estetica. Quest'ultima, se ben inserita nell'esperienza della grazia e nell'accoglienza dello Spirito, non è per nulla distraente o evasiva; al contrario è veicolo di una sempre più profonda celebrazione delle “grandi opere del Signore” ”. Per venire a tempi a noi più vicini, si ricordi quanto Papa Giovanni Paolo II scrisse nella lettera apostolica Spiritus et Sponsa (4 dicembre 2003) nel quarantesimo anniversario della Costituzione Sacrosantum Concilium sulla Sacra Liturgia: “Un altro tema fecondo di sviluppi, affrontato dalla Costituzione conciliare, è quello concernente l'arte sacra. Il Concilio offre chiare indicazioni affinché essa continui ad avere, anche ai giorni nostri, un notevole spazio, sicché il culto possa risplendere anche per il decoro e la bellezza dell'arte liturgica”. Ciò perché l’arte, e in particolare l’arte sacra, è riflesso dell’infinita bellezza di Dio che l’uomo deve in qualche modo esprimere attraverso le sue opere. Bellezza e bene sono in rapporto osmotico. In una lettera agli artisti (4 aprile 1999), ancora Giovanni Paolo II osservava che “il rapporto tra buono e bello suscita riflessioni stimolanti. La bellezza è in un certo senso l'espressione visibile del bene, come il bene è la condizione metafisica della bellezza. Lo avevano ben capito i Greci che, fondendo insieme i due concetti, coniarono una locuzione che li abbraccia entrambi: “kalokagathía”, ossia « bellezza-bontà ». Platone scrive al riguardo: “La potenza del Bene si è rifugiata nella natura del Bello” ”.
Don Vincenzo ha quindi compreso che l’espressione artistica è un modo eccellente, oserei dire moderno o sempre attuale, per inserirsi nel vivo dei contenuti della nostra fede, in quanto la bellezza rimanda al buono, ed il buono al vero. È il circuito virtuoso dello spirito che prende le mosse da una qualificazione del Cristo, che la spiritualità orientale presenta come “il Bellissimo di bellezza più di tutti i mortali”[24]. Del resto egli, che ha vissuto appieno l’atmosfera del Concilio Vaticano II, di certo conserva vivida memoria dell’appello che i Padri Conciliari rivolsero agli artisti in conclusione del Concilio: “Questo mondo nel quale noi viviamo ha bisogno di bellezza, per non cadere nella disperazione. La bellezza, come la verità, mette la gioia nel cuore degli uomini ed è un frutto prezioso che resiste al logorio del tempo, che unisce le generazioni e le fa comunicare nell'ammirazione“.
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[1] Il termine icona deriva dal greco "eikon", che può essere tradotto con “immagine”. È l’espressione visiva del messaggio cristiano, affermato nel vangelo con le parole. Si tratta di una creazione bizantina del V secolo. L’occasione fu offerta dal ritratto della "Vergine odighitria" attribuito dalla tradizione all’evangelista San Luca. Quando nel 1453 crollò l’Impero Romano d’Oriente, i popoli balcanici contribuirono ad incrementare sia la produzione sia la diffusione di queste raffigurazioni sacre.
[2] Ciò spiega perché l’icona non riporta il nome dell’iconografo, cioè di colui del quale Dio stesso si è servito. Il dipinto iconografico del SS. Redentore invece riporta il nome del suo autore in basso a sinistra.
[3] A Michelangelo Merisi, detto il Caravaggio, “era stato ordinato un quadro di San Matteo per l’altare di una chiesa romana: il santo doveva essere rappresentato nell’atto di scrivere il Vangelo, e per mostrare che i Vangeli erano la parola divina doveva essergli posto vicino l’angelo ispiratore. Il Caravaggio, un giovane artista altamente creativo e intransigente, cercò di raffigurarsi la scena di un vecchio e povero operaio, un semplice pubblicano, improvvisamente alle prese con un libro da scrivere. Così dipinse San Matteo calvo, con i piedi nudi e polverosi, che afferra goffamente il grosso volume e aggrotta ansiosamente la fronte nell’insolito sforzo della scrittura. Al suo fianco dipinse un angelo adolescente, che sembra appena giunto dall’alto e che dolcemente gli guida la mano come può fare un maestro con il bambino. Quando il Caravaggio consegnò il quadro alla chiesa sul cui altare doveva essere appeso, suscitò scandalo per questa presunta mancanza di rispetto. Il dipinto non fu accettato e il Caravaggio dovette ricominciare da capo. Non volendo però correre ulteriori rischi, si attenne rigorosamente alle idee più convenzionali circa l’aspetto di un angelo o di un santo.” Ernst H. Gombrich, La storia dell’arte, Mondadori Electa Spa, Ristampa italiana 2002, Milano, pag. 31.
[4] Tuttavia va detto che la seconda versione, quella accettata, è più aderente all'idea cristiana di ispirazione, per cui l’autore sacro è solo ispirato da Dio e mantiene salve le sue facoltà di vero autore del testo sacro, tant’è che è possibile affermare che Dio e l'uomo sono coautori del testo biblico.
[5] Il Quinisext Concilio o Concilio in Trullo si tenne a Costantinopoli nel 692. Si affermò la centralità della figura umana del Cristo, che in ambito iconografico venne storicizzata allo stesso modo dei santi (ai quali si associa l’espressione di rappresentazione antropomorfica), vietandone nel contempo le raffigurazioni allegoriche non antropomorfe quali l'agnello, il pesce e la colomba.
[6] Il termine nel linguaggio biblico indica l’arca dell’alleanza.
[7] Il termine deriva dal greco leukos e significa bianco.
[8] “In principio Dio creò il cielo e la terra. Ora la terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l'abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque. Dio disse: "Sia la luce!". E la luce fu. Dio vide che la luce era cosa buona e separò la luce dalle tenebre e chiamò la luce giorno e le tenebre notte. E fu sera e fu mattina: primo giorno” (Gn. 1, 1-5).
[9] La parola nimbo deriva dal latino nimbus, che significa “nuvola”. Altra cosa è l’aureola, che è il cerchio di luce che avvolge la testa di un santo, di un angelo o di Gesù. Il nimbo è invece il disco dorato che avvolge il capo di costoro. L'aureola non può essere usata per i personaggi ancora viventi o che non sono ancora stati canonizzati dalla Chiesa. In alcuni dipinti, persone viventi in fama di santità sono ritratte con un'aureola quadrata. A volte il diavolo viene rappresentato con un'aureola nera, e così pure Giuda Iscariota.
[10] Mi sovviene – ma siamo su un piano prosaico – la distinzione degli uomini in due categorie tracciata dallo scrittore russo Nikolaj Gogol’ nel suo romanzo “Anime Morte”. Egli li distingue nei sottili e nei grassi o “non troppo grassi, ma neppure magri.” I primi sono esseri volteggianti, leggeri, aerei, mentre i secondi sono stabili e certi, più radicati nelle cose terrene. Come si vede, alle figure snelle o sottili è più agevole associare qualità spirituali.
[11] “Se guardo il tuo cielo, opera delle tue dita, la luna e le stelle che tu hai fissate, che cosa è l'uomo perché te ne ricordi e il figlio dell'uomo perché te ne curi? Eppure l'hai fatto poco meno degli angeli, di gloria e di onore lo hai coronato [...]” (Sal 8, 4-6).
[12] Micaela Soranzo, Simbolismo dell’acqua e oggetti collegati, su Vita Pastorale, n. 3, marzo 2007.
[13] “Mi è stato dato di vedere numerosi sogni di immersione totale nell’acqua e, a quanto ho potuto notare, essi corrispondono sempre ad un momento di possibile, radicale trasformazione dell’individuo. Non mi riferisco, ovviamente, ad immagini di lavacri in una vasca da bagno, o simili: sogni che possono anche essere importanti, ma solo a livello di purificazione, di pulizia da qualche cosa - ma certamente non di più. Parlo, invece, di sogni di immersione nel mare, in una sorgente, nell’acqua viva. Si tratta qui di un segno che è contemporaneamente un evento, una realtà dello spirito in cammino”. È ciò che scrive Mirjam Viterbi Ben Horin, psicoanalista junghiana, che si è dedicata in modo particolare allo studio dell’inconscio collettivo ebraico. Il passo in cui mi sono imbattuto mentre navigavo in Internet, è estrapolato da un capitolo del testo Il Sogno di Giacobbe, Edizioni Borla, Roma, 1993. Lia Luzzatto e Renata Pompas, nel loro interessante saggio intitolato “Il significato dei colori nelle civiltà antiche”, scrivono che il colore nero “connota la parte più celata dell’anima, quella che Jung chiama “ombra”, l’aspetto notturno della psiche”, l’inconscio dove, con le parole di Jung, “si agitano le belve e i mostri: l’inferno dello psichismo, che è anche riserva di energia da ordinare”. Cfr L. Luzzatto e Renata Pompas, Il significato dei colori nelle civiltà antiche, Bompiani, Milano, 2005, 2^ edizione Tascabili, pag. 66.
[14] “Essendo poi salito su una barca, i suoi discepoli lo seguirono. Ed ecco scatenarsi nel mare una tempesta così violenta che la barca era ricoperta dalle onde; ed egli dormiva. Allora, accostatisi a lui, lo svegliarono dicendo: «Salvaci, Signore, siamo perduti!». Ed egli disse loro: «Perché avete paura, uomini di poca fede?» Quindi levatosi, sgridò i venti e il mare e si fece una grande bonaccia. I presenti furono presi da stupore e dicevano: «Chi è mai costui al quale i venti e il mare obbediscono?»” (Mt 8, vv. 24-27).
[15] “Il Signore Dio fece per Adamo e sua moglie delle tuniche di pelle e li rivestì” (Gn 3, 21).
[16] “La terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l’abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque” (Gn 1, 2).
[17] La parola iconoclastia viene dal greco è significa “distruzione delle immagini”. L’iconoclastia afflisse la Chiesa dal 726 all’ 842 d.C. Riprese vigore col Protestantesimo nel XVI secolo.
[18] Per latria si intende il culto di adorazione dovuto solo a Dio. L’etimo deriva dal greco latreia, servitù, che deriva da latris, servo; la dulia è il culto reso ai santi, in quanto servi di Dio, mentre quello dovuto alla Madonna è di iperdulia. Infine, l’idolatria è l’adorazione di false divinità. Cfr Antonio Rosario Mennonna, Piccolo glossario del Cristianesimo, Edizioni Dehoniane, Roma, 2^ Edizione, gennaio 1992.
[19] Gregorio I o Gregorio Magno (540 – 12 marzo 604) fu papa della Chiesa cattolica dal 3 settembre 590 alla sua morte.
[20] Es 36, 1
[21] Es 25, 18-20
[22] Es 37, 35
[23] L’errore da evitare è di rivolgersi al santo non in qualità di intermediario, di intercessore, ma di “elargitore autonomo” di grazie e favori.
[24] Enkomia dell'Orthós del Santo e Grande Sabato.
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