domenica 11 ottobre 2009

Viaggio spirituale (cap. 1)



1. La chiesa del SS. Redentore di Ruvo di Puglia: segno dell’Amore che redime

La chiesa del SS. Redentore sorge al centro di Ruvo di Puglia, paese a prevalente vocazione agricola a nord di Bari che conta circa 25.000 anime. Appena si giunge in Piazza Regina Margherita, nota anche come Piazza Castello o Piazza Giacomo Matteotti (la disputa terminologica è antica, e non è soltanto di carattere o sapore politico), piuttosto che dal palazzo sede del governo cittadino (Palazzo Avitaya, XVI sec.), l’occhio viene rapito dalla statua del Cristo Redentore che svetta sulla omonima chiesa. Accogliente, a braccia aperte attende le sue creature. È una immagine distensiva; è un saluto cordiale al visitatore, al pellegrino, termine caduto in disuso. Sa di antico, ed è ben noto quanta avversione ed idiosincrasia ci sia per ciò che si percepisce come vecchio, superato, desueto. Oggi tutt’al più è considerato pellegrino colui che si reca a Lourdes o a Fatima, mentre non lo è, e sente di non esserlo, chi entra in una chiesa di paese.
È un errore di prospettiva spirituale; anzi, piuttosto che concernere le prospettive di fede, riguarda i suoi contenuti. Se non ci si sente pellegrini, ci si sente stanziali, inamovibili, mentre la nostra reale condizione è la precarietà. Siamo perennemente alloggiati in tende friabili. Il primo passo verso una sana spiritualità è riconoscersi creature precarie[1] su questa terra, uomini e donne bisognosi di tutto, in specie dello Spirito. Se non si portano fardelli, se ci si sente precari, ci si potrà sollevare spiritualmente, andare agilmente incontro al Signore che viene. Per questa ragione l’invocazione allo Spirito dovrebbe risuonare unanime e costante nei nostri cuori sin dalle prime luci dell’alba. È la forza vitale dell’amore, in cui è riposto un seme di eternità e quindi di maggiore ed autentica libertà, quella condizione del cuore che è premessa del vero amore[2]. Senza lo Spirito saremmo come morti che camminano, creature amputate, deformi. O seguaci di filosofie filantropiche o umanistiche, il che è senz’altro un miglioramento. Ma cosa sono questi umanesimi se non il messaggio cristiano svuotato della sua portata oltremondana, del mistero celeste? Sono promesse di paradisi su questa terra, sebbene esse abbiano nella maggior parte dei casi partorito inferni a cielo aperto, lutti, devastazioni. Pur ridotto ad un mero contenitore di idee e di suggestioni o di progetti, il Cristianesimo, colto nella sua essenza ed autenticità, conserva tutto il suo fascino e vigore, la sua forza costruttrice e rinnovatrice. Solo per tale ragione dovrebbe sorgere il legittimo dubbio negli agnostici e nei suoi antagonisti che Dio c’è ed è pienamente attivo e partecipe del destino degli uomini. Solo per tale motivo, soffermandosi sul bene e la prosperità (anche sociale) che proviene dalla pratica dell’amore, quindi sui suoi effetti tangibili, dovrebbe scaturire naturale l’ammissione che c’è qualcosa, o meglio Qualcuno, che ci supera e che ha nell’amore la sua ragione d’essere, natura e fondamento. Non siamo in presenza di astruse filosofie o di affascinanti teorie o addirittura di fiabe[3], ma di prassi, di fatti concreti, e la prassi del bene conferma ed attesta la presenza di una forza d’amore attiva ed agente. Questa forza d’amore è il Dio rivelatoci dal Cristo.
Tutto è segno e tutto ha un senso, anche le coincidenze o quelle che appaiono tali. Ed è felice coincidenza che la parrocchia del Redentore sia retta dal 1983 da mons. Vincenzo Pellegrini, il quale sa trasmettere bene l’immagine evangelica della vita quale pellegrinaggio. In diverse occasioni, anche durante i nostri colloqui privati, l’amabile persona e la parola di don Vincenzo mi hanno ricondotto alla mia precarietà. Le sue omelie mi hanno suggerito itinerari spirituali. Specialmente le parole che rivolge ai bambini. Sono parole semplici e leggere come il soffio dello Spirito, ma di forte impatto pedagogico, dirette a creature fragili e bisognose di tutto. Durante quei sermoni a portata di tutti (affinché tutti comprendano a livelli intimi occorre parlare come si parlerebbe ai bambini) ho avvertito nettamente la mia precarietà, mi sono trovato faccia a faccia con la mia reale condizione umana, mi sono sentito un po’ più uomo, meno incline alle illusioni, più prossimo alla speranza, più fortificato nelle mie convinzioni. Accanto ai bambini ho fatto il pieno di innocenza, quindi di umanità; ho scaricato le ansie e le frustrazioni tipiche dell’uomo contemporaneo e imbarcato un carico di speranze che germogliano nel tepore del mistero, memore che il regno di Dio è “come un uomo che getta il seme sulla terra; che dorma e si alzi, di notte e di giorno, il seme germoglia e si sviluppa, senza che egli sappia come” (Mc 4, 26-27)[4]. Il giogo di Cristo è soave e leggero, e ne ho avuto sentore, a tratti conferma, a contatto con le parole rivolte dal Parroco ai piccoli in ogni senso, ai bambini, che lo sono dal punto di vista anagrafico, e a coloro che si fanno piccoli in senso spirituale per accogliere la novità del regno di Dio che i filosofi ed i sapienti non possono intendere. Costoro possono studiare, indagare, interpellarsi, ma intendere a livelli profondi e coinvolgenti la vita no, questo non possono farlo, a questo non hanno accesso. I piccoli in senso evangelico godono di una sorta di diritto di esclusiva o di prelazione, mentre ai sapienti secondo i parametri del mondo la novità è stata tenuta celata. La Parola si rivela nelle minuscole, tenere e fragili fattezze di un bambino che nasce a Betlemme in una povera capanna. E per giunta ad alcuni pastori, gente di scarto, emarginata. Lo scenario originario della nostra fede è povero e precario, quindi, e possiede la fragilità (e la purezza) di un calice di cristallo. Ma è in questa fragilità apparente, nella sua apparente povertà, che risiede tutta la sua bellezza, che è confusione per gli scettici, la pietra che, scartata dai costruttori del mondo, è testata angolare. La fede sarebbe a portata di tutti se in qualche misura non fossimo stati infettati dal virus del consumismo e sapessimo stare nei nostri robusti limiti di creature bisognose di tutto. La negazione del limite non è pura astrazione, qualcosa che resta confinato nel recinto delle idee o delle filosofie più o meno stravaganti. Purtroppo, come constatiamo ogni giorno, si fa tragica vicenda umana, negazione del senso ultimo della vita, omicidio, barbarie. Si fa prassi di morte, col più forte (il più divino) che può schiacciare il meno forte (il meno divino), perché uno solo può dirsi dio. Nel mondo degli uomini molti vorrebbero agire come dio, ma soltanto uno può esserlo per definizione, e quell’uno per divenirlo deve annichilire i suoi competitori alla carica di dio. Da qui la prassi di morte fisica o solo morale, la competizione violenta e volgare. Siamo alla divinizzazione dell’ego. L’io al posto di Dio, in altri termini. Quando tutto l’umano assorbe in sé tutto il divino, facendosi divinità, può esistere la resurrezione? No, non può esistere, non ha diritto di cittadinanza, almeno nei termini come noi cristiani la intendiamo. Esiste solo una possibilità di paradiso sulla terra, coincidente col senso di appagamento e di sicurezza che deriva dal possesso pieno di beni materiali e ricchezze. Il paradiso nei cieli può attendere, anzi può andare a farsi benedire, e la sola risurrezione possibile è quella del dio sconfitto che anela, con le armi dell’inganno ed il conflitto, a prendersi ciò che gli fu tolto, privandone colui dal quale fu sconfitto. Ma quando accade che la rivalsa va a buon fine? Quando il dio vittorioso si è indebolito per vecchiaia o perché tradito dai suoi sodali. E qui non c’è chi non veda l’elogio della giovinezza e della forza virile e, di contro, il rifiuto della canizie ed il terrore della morte, per cui si tenta ogni strada per allontanare da sé lo spettro della vecchiaia ed il sentimento di debolezza e di fragilità che l’accompagna, per esorcizzare il tempo che passa inesorabilmente: “E non perdoneranno a te le ore:/le ore che limando vanno i giorni,/i giorni che rodendo vanno gli anni” (L. de Gòngora y Argote). Il vano esorcismo consiste nel fare del tempo un’esperienza materiale, cioè un riflesso delle cose che si possiedono, del lavoro che occorre per possederle, della fretta e dell’agitazione tipica delle accumulazioni, mentre il tempo cristiano è un tempo ed un’esperienza spirituale, scandita dal desiderio delle cose celesti, di Dio, dalla preghiera e dalla meditazione che sono nutrimento e riposo: “O Dio, fa piccola/la vecchia coperta del cielo consumata dalle stelle,/perché io mi ci possa avvolgere e starmene riposato” (Th. E. Hulme). Quanto al tradimento dei sodali, poi, è esperienza universale che il potente è circondato da amici pronti a negare di esserlo mai stati non appena muta la direzione del vento. Questa è, in sintesi, teoria della risurrezione umana ad una vita ricca (materialmente) attraverso la perenne contesa. Ma se per risorgere secondo gli uomini occorre attendere il momento propizio (la vulnerabilità del dio vittorioso), per risorgere secondo Dio occorre farsi piccoli e semplici, abbandonando ogni idea di conflitto ed ogni velleità di rivincita. È il teorema della pace ad oltranza, che non conosce eccezione alcuna.
Il volto del Redentore sul pinnacolo del tempio è disteso, sembra accennare ad un sorriso. È intuibile che il suo abbraccio non è soffocante o algido; il suo sorriso non è quello di chi sa che prima o dopo ce la farà pagare con gli interessi, per tutta l’eternità. Certe correnti religiose in cui la fede è ridotta al lumicino, o in cui si confonde la religione con la fede[5], puntano sul ghigno di Dio. Ci trasmettono l’immagine non del Dio cristiano, ma di un dio dell’ortodossia pagana, che porta il conto meticoloso delle nostre colpe, che è geloso della felicità degli uomini, cinico dispensatore di croci e sofferenze. La statua del Redentore ci rende invece l’immagine di un Dio salvatore e buono, lento all’ira e ricco di misericordia (Ef 2,4), che redime con la potenza ricreatrice e liberante del solo amore. Colui che ha detto “Io sono colui che sono” ha rivelato appieno la sua intima natura nel Cristo redentore dell’umanità, restauratore dell’amicizia fra lui e gli uomini, esprimendosi in questi termini per bocca del profeta Osea: “Voglio la misericordia e non il sacrificio” (Os 6,6). Se la Bibbia potesse riassumersi in una sola, lapidaria espressione, potremmo mettere sulle labbra di Dio queste parole, che sono descrittive della sua identità: “Io sono colui che ama”.
Quell’epifania marmorea, lì collocata nel 1954, è un riassunto simbolico dell’amore di Dio per ciascun uomo, la sintesi, il punto d’approdo della vicenda umana del Cristo. Fu voluta dal parroco don Michele Montaruli, che resse la parrocchia per ben quarantotto anni.
Credo che la parrocchia del Redentore, conosciuta anche come la “chiesa nuova”, sia l’epicentro spirituale di Ruvo, l’omphalos, non solo per evidenti ragioni logistiche, per la sua ubicazione. Ci sono considerazioni ulteriori, altri segni da interpretare, altre coincidenze da considerare, senza nulla togliere alle altre chiese ruvesi, anch’esse ricche di spunti per un ricco viaggio spirituale. Essa fu eretta sullo stallone o lamione del Castello di Melodia da cui presero le mosse i tredici cavalieri francesi per accingersi alla famosa disfida di Barletta. La sua collocazione a ridosso del luogo da cui tredici uomini partirono per battersi con altri tredici uomini italiani è significativa. Essa assurge a contraltare spirituale all’uso delle armi ed alla lotta fratricida; è un segno, un tempio eretto alla pace in un luogo dove, se non scorse il Sangue, di certo alcuni uomini nutrirono sentimenti di odio e di rivalità verso altri uomini. Ma lo stallone echeggia anche la greppia, la stalla di Betlemme dove il Cristo nasce da Maria. È luogo umile su cui edificare un tempio a Dio, al centro del paese, secondo la bella, profonda e finanche lungimirante intuizione del vescovo dell’epoca, mons. Pasquale Berardi.
Perché proprio al centro di Ruvo se non per marcare la signoria del Cristo e la conseguente importanza negli anni a venire del tempio che in suo onore vi sarebbe sorto, la sua funzione, il suo proprium? Se la chiesa Cattedrale è importantissima sotto il profilo storico e spirituale, un autentico monumento alla fede eretto nell’XI-XII secolo, la chiesa del SS. Redentore sorse agli albori del XX secolo quasi per proiettare il messaggio evangelico nel nuovo tempo. Con essa si aprì una nuova stagione spirituale, ci si volle introdurre nel nuovo secolo sotto le insegne del Cristo redentore degli uomini.
È bene ricordare quanto doloroso sia stato il secolo scorso per l’umanità e quanta parte dell’umanità ferita abbia in quegli anni bui guardato alla Chiesa cattolica e alla redenzione del genere umano che soltanto la fede nel messaggio evangelico e nella forza dello Spirito potevano operare. Basti fare cenno alle due guerre mondiali, al comunismo e al nazi-fascismo, ad Hiroshima e Nagasaki, al mondo diviso in due grandi blocchi belligeranti, alla Chiesa del silenzio, all’avvento del capitalismo selvaggio e graffiante, al pauperismo di tante aree del mondo, alla devastazione dell’ecosistema. Tutto nel corso del XX secolo, e tutto reclamante la redenzione ad opera del Cristo con maggiore forza ed urgenza che non nelle epoche precedenti.
Fu quindi felice intuizione pastorale, ai limiti della visione o della profezia, quella di addentrarsi nel tunnel del 1900 erigendo e dedicando un tempio al centro di Ruvo al Cristo redentore delle genti. Non si tolse nulla alle chiese preesistenti, le quali funsero quasi da levatrici della “chiesa nuova”, né tanto meno quelle sorte in seguito sarebbero state declassate o ridotte a semplici edifici spirituali di complemento, perché intatta è la dignità che viene dalla missione di divulgare la buona notizia. Ma con il SS. Redentore si intese accompagnare la nascita del nuovo secolo in questa cittadina, si inaugurò il tempo moderno che, di pari passo col progresso, avrebbe necessitato di un surplus di redenzione, quindi di un segno ecclesiale tangibile. La chiesa del Redentore fu quel segno tangibile e simbolico dell’amore misericordioso di Dio per gli uomini e le donne di Ruvo.

Salvatore Bernocco (Viaggio spirituale, copyright)



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[1] “La limitatezza dell’uomo […] non gli deriva dall’avere un corpo, ma dal non essere creatore di sé. E che l’uomo non sia creatore di sé può cogliersi dall’esperienza, e, se ci riflettiamo, anche da un ragionamento attento. Siamo, per esempio, consci di non essere sempre stati, e di non poter nulla oltre certi confini, talora anche abbastanza ristretti.” Giacomo Grasso, Che cosa è bene? Che cosa è male?, Piero Gribaudi Editore, Torino, II edizione, 1988, pag. 29.
[2] È senz’altro più libero l’uomo capace di amare rettamente, cioè senza alcuna finalità egoistica. Nelle relazioni in cui vige il do ut des, l’amore soffoca sotto il vincolo della condizione dativa, il cui paradigma contrattuale è “ti amo nella misura in cui tu mi ami”. Dove c’è misura non c’è amore totale, incondizionato. Si instaura una sorta di mercato di scambio dei sentimenti. Tuttavia, amando in modo incondizionato si assiste al miracolo dell’amore che torna, proprio come si legge nella “Preghiera semplice” erroneamente attribuita a San Francesco d’Assisi, in realtà rinvenuta nel 1915 in Normandia scritta a tergo di un Santino del Santo: “Perché, così è: dando, che si riceve.”
[3] Il giornalista Corrado Augias scrive nel suo ultimo libro, citando anche le parole di uno scrittore americano, certo Edgar L. Doctorow, che oggi solo i bambini ed i fondamentalisti credono alla verità delle storie sacre, rincarando la dose con una affermazione di chiaro stampo ateistico: “Nella grande magia di un universo divinamente concepito crede ormai solo una parte degli uomini”. E’ la summa del pensiero positivista e filosofico contemporaneo. Cfr. Corrado Augias, Leggere, Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano, I edizione, settembre 2007, pagg. 33 e 34.
[4] “Il processo di assimilazione e di trasformazione della Parola avviene nel mistero (senza che egli sappia come) e nell’inviolabile sacrario della coscienza e della libertà dell’uomo. Ogni intervento estraneo può solo produrre danni irrimediabili. L’unico che può entrare nell’intimo dell’uomo è il Signore Gesù, ma lui stesso ne chiede il permesso […]”. Alberto Maggi, Parabole come pietre, Cittadella Editrice, Assisi, 3^ edizione, febbraio 2004, pag. 36.
[5] C’è notevole differenza fra “religione” e “fede”. La religione è rispetto per la Legge ed è appannaggio degli scribi e dei farisei; la fede è l’adesione a Gesù, che cancella il peccato dell’uomo. “Mentre l’insegnamento religioso degli scribi tendeva a sottomettere l’uomo, privandolo della capacità di giudizio e di libertà, il messaggio di Gesù rende l’uomo libero e gli fa scoprire nuove possibilità e capacità d’amore.” A. Maggi, Come leggere il Vangelo (e non perdere la fede), Cittadella Editrice, Assisi, IV edizione, gennaio 2004, pagg. 122 e 123.

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