mercoledì 28 ottobre 2009

Viaggio spirituale (cap.6)


6.Le statue dell’Immacolata e di S. Giuseppe
Procedendo verso l’artistico altare realizzato nel 1992 da Vito Zaza, troviamo sulla sinistra la bella statua dell’Immacolata, che si attribuisce ad Achille De Lucrezi. Realizzata nel 1904, fu donata da Francesco Girasoli. L’icona sorprende per la gentilezza dei tratti della Vergine, della quale si esalta il dogma della sua immacolatezza, sancito da Pio IX con la bolla Ineffabilis Deus del 1854. “La Madonna è l’Immacolata Concezione – scrive mons. Mennonna nel suo Piccolo Glossario del Cristianesimo – perché concepita immune dal peccato originale o macchia originale per singolare privilegio divino […] confermato dalla stessa Vergine SS. nelle apparizioni a S. Bernadetta Soubirou (25 marzo 1858)”. La Vergine, Madre di Dio e madre nostra, è stata cantata da poeti e scrittori. Di straordinaria potenza evocativa, mistica direi, è la Vergine del Sommo Poeta. Nel Canto XXXI del Paradiso, S. Bernardo invita Dante a guardare verso la schiera dei beati, disposti a forma di candida rosa, dove nel punto più alto c’è Maria, grazie alla quale egli potrà sostenere la visione di Dio. La straordinaria ed impareggiabile bellezza della Vergine emerge dai versi del Poeta: “Vidi a lor giochi quivi e a lor canti/ridere una bellezza, che letizia/era ne li occhi a tutti li altri Santi;/e s’io avessi in dir tanta dovizia/quanta ad immaginar, non ardirei/lo minimo tentar di sua delizia[1]”. Una visione che è l’incanto e la gioia dei santi, e che nessuna parola umana, per quanto ricca e capace di volute immaginifiche, può minimamente descrivere. In controluce compaiono le parole di Paolo, che scrive alla comunità di Corinto, citando Isaia: “Sta scritto infatti: Quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono in cuore di uomo, queste ha preparato Dio per coloro che lo amano[2]”. L’uomo che vive secondo lo Spirito è in grado di esprimere “cose spirituali in termini spirituali”, come ancora si esprime l’Apostolo. Dante è uno di costoro, dà voce ad un anelito profondo presente nell’animo umano di bellezza infinita, di gioia senza fine, quindi di Dio. L’Immacolata è segno dell’infinita bellezza di Dio che fa nuove tutte le cose in Cristo. L’uomo naturale – sono sempre insegnamenti di Paolo – non è in grado di comprendere le cose dello Spirito di Dio perché non ha “il pensiero di Cristo”. È quindi necessario vigilare affinché l’uomo cosiddetto naturale, che cioè vive la dimensione esclusivamente materiale senza curarsi di farla fermentare, di farla lievitare per portarla al suo massimo significato e senso, non prenda il sopravvento sull’uomo che vive secondo il piano di Dio, secondo il suo Spirito, che non imbriglia ma libera, e liberando porta a compimento ogni cosa. Qui non si tratta di postulare una sorta di fuga dalla realtà di ogni giorno o di dimenticare la materia, ma di viverla e di usarne secondo i valori e la misura suggeriti dall’amore in cui è lo Spirito di Dio. Maria fu creatura spirituale in sommo grado perché fu capace di amare secondo quello Spirito. L’icona donata dal Girasoli, e alla quale la comunità ruvese è molto legata, immette in questo circuito virtuoso di pensieri ed aneliti, regala di questi inebriamenti, dona la speranza del Paradiso.
La statua di S. Giuseppe (1907), opera di Giuseppe Manzo, schiude altri scenari spirituali ricchi di implicazioni ed insegnamenti. Nulla quaestio sulla purezza di Giuseppe, che tuttavia talvolta viene relegato in un angolo, come se fosse un santo di serie inferiore, persino inferiore per importanza alla sua sposa, Maria. Il centenario dell’icona è stato particolarmente significativo grazie alla presenza ed alla parola di uno dei massimi esperti cattolici del padre putativo di Gesù, Padre Tarcisio Stramare osj, che ho avuto modo di incontrare e di intervistare, il quale mi strappò un sorriso quando disse che se “sulla Madonna ci sono quattro dogmi, tutti contestati, su S. Giuseppe ce ne sono due, sicurissimi: su S. Giuseppe c’è poco da sapere; quel poco da sapere io già lo so, e quindi il discorso è chiuso”. In realtà S. Giuseppe, scelto da S. Teresa D’Avila quale patrono della vita interiore, andrebbe rivalutato quanto meno per i suoi corposi silenzi, senza i quali non può esserci vita spirituale, non si è più in contatto con la propria sfera intima, si è disarmonici ed inconcludenti. L’uomo veramente attivo e paziente conosce bene la pratica del silenzio interiore. L’uomo che ama ne fa esperienza, poiché non vi può essere amore vero se di esso si fa propaganda o lo si dà in pasto all’agorà. La stessa carità ha valore presso Dio se è discreta e silenziosa, come pure la preghiera, che necessita del romitorio interiore, di uno spazio libero sia dagli impegni che dall’incessante mormorio del mondo, non vacante ma popolato di presenze altre. Le anime contemplative sono maestre di silenzio, che potrei definire come la culla delle parole, il logos dove ogni parola trova il suo senso autentico, non artefatto o impoverito, il suo conforto e sapore. Se Carmelo Bene disse che il silenzio “è un tempo musicale”, Boris Pasternak, l’autore del Dottor Zivago, andò oltre, definendolo la cosa più bella che avesse mai udito. Ma S. Giuseppe ci parla anche di paternità responsabile, della figura del pater familias cristiano, di quest’uomo che in famiglia giganteggia senza mai opprimere, educa con autorità, dialoga senza mai imporre, orienta con amore e saggezza. Un padre autorevole concepisce figli che non si perderanno d’animo e sapranno affrontare le prove della vita con coraggio; un padre non autorevole, in cui è assente un tratto di virilità, che non attiene assolutamente alla sfera sessuale ma alla personalità del soggetto, darà alla luce una discendenza con una personalità fragile e per molti versi autoritaria. L’autoritarismo, a cui si accompagna spesso la violenza verbale o fisica, è una reazione psicologica caduca e spropositata alla mancanza del sentimento della forza interiore che non fu esplicitamente trasmesso dal padre al figlio o percepito da questi attraverso l’esame delle azioni paterne. In questo senso possiamo affermare che la qualità della discendenza risale a trent’anni prima della nascita della prole, per cui potremmo dire “dimmi come fu educato tuo padre, e ti dirò chi sei e come sarà la tua discendenza”. Tra genitorialità e paternità vi è una grande differenza, e di essa apprendiamo da S. Giuseppe. Se il genitore genera, assolvendo una funzione biologica, materiale, il padre assolve una missione spirituale, consistente non solo nel trasmettere il dono della vita, ma nell’arricchirla di continuo nell’ordine morale, culturale, spirituale. Ciò equivale a dire che la missione di un padre autentico dura tutta la vita perché la missione educativa, propria ed altrui, dura tutta la vita. Da questa prospettiva, S. Giuseppe non fu genitore del Cristo, ma svolse le veci del Padre celeste, quindi rivestì un ruolo ben più importante di quello di chi genera e semmai dimentica di essere padre, cioè un educatore, una persona che contribuisce a creare l’uomo elevandolo nell’ordine spirituale.

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[1] D. Alighieri, La Divina Commedia, Paradiso, Canto XXXI, vv. 134-138.
[2] 1 Cor 2,9

1 commento:

  1. I appreciate the correlation of the father and the paternal role of the Heavenly Father in a life. . . it is critical in understanding not only the influence of St Joseph upon Jesus, but also in our individual lives. I appreciate the explanations of the images you have experienced there. Thank you for these!

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