5. Il santo eptagono
Proseguendo nel cammino, con un solo colpo d’occhio abbraccio sette immagini sante e significative, in grado di parlare alla mente ed al cuore degli uomini d’oggi. Tracciamone un succinto ritratto, utile ai fini di una proficua meditazione, tenendo presente che esse comunque si inseriscono mirabilmente in una sorta di economia della grazia, di progetto della salvezza, nella vicenda spirituale degli uomini e delle donne del SS. Redentore. Emergeranno collegamenti ed ispirazioni, intrecci antichi e nuovi, ed una inaspettata modernità del messaggio evangelico trasmessoci dai santi, autentici amici dell’uomo.
Antonio da Padova, alias Fernando di Buglione, discendente del crociato Goffredo di Buglione, nasce a Lisbona il 15 agosto 1195. A quindici anni entra nel monastero di San Vincenzo a Lisbona, poi si trasferisce in quello di Santa Croce di Coimbra, sotto l’egida dell’ordine agostiniano. Studia scienze e teologia e riceve l’ordinazione sacerdotale nel 1219, all’età di 24 anni. Lascia l’ordine agostiniano perché non gradisce i maneggi politici fra i canonici agostiniani e Alfonso II. Abbraccia il francescanesimo, aspirando ad una vita religiosamente più severa. Predicatore eccezionale, teologo, combatte l’eresia catara in Italia e quella albigese in Francia, dove giunge nel 1225 (è chiamato anche il “martello degli eretici”). A Padova in due mesi scrive i Sermoni domenicali e ottiene la riforma del Codice statutario repubblicano, per cui un debitore insolvente e non colpevole, dopo aver ceduto tutti i suoi beni, non può essere anche incarcerato. Tiene testa ad Ezzelino da Romano, soprannominato il Feroce, che in un solo giorno fece uccidere undicimila padovani che gli erano ostili. Antonio chiede la liberazione dei capi guelfi incarcerati. Scrive poi i Sermoni per le feste dei santi. I suoi temi preferiti sono i precetti della fede, della morale e della virtù, l’amore di Dio e la pietà verso i poveri, la preghiera e l’umiltà, la mortificazione. Si scaglia contro l’orgoglio e la lussuria, l’avarizia e l’usura, di cui è acerrimo nemico. È convinto assertore dell’assunzione della Vergine. Papa Gregorio IX lo definisce “arca del Testamento”. Spira a Padova il 13 giugno 1231. Si racconta – è un particolare che mi ha colpito – che nella città di Padova al momento della sua morte frotte di fanciulli presero a correre e a gridare che il Santo era morto. La statua custodita nella nostra chiesa lo ritrae con in mano un giglio, simbolo di purezza, e col Bambino Gesù in braccio. La sua attualità è plurale, non può limitarsi alla considerazione di un solo aspetto, sebbene emerga prepotentemente la sua formazione teologica e spirituale, da cui sgorga come un fiume in piena una parola potente ed efficace. Il potere della parola in Antonio si radica tutto nella sua incrollabile fede nel Signore, che lo visita visibilmente. Quanto peso si dia oggi alle parole è evidente. Come ha affermato lo scrittore Mario Rigoni Stern, “oggi c’è troppo rumore, perdiamo il senso delle parole, la loro forza terapeutica”[1]. La scissione fra parola e contenuti si è realizzata di pari passo con il progredire della cultura consumistica, che tende a contrarre i tempi, le sensazioni, la comunicazione, non di certo per ragioni di sintesi, ma perché in quel modo paradossalmente si dilatano i tempi di un certo tipo di comunicazione, quella tecnologica imposta dall’uso abnorme dei cellulari, ad esempio, per mere ragioni di profitto economico. Gli short messages si moltiplicano, si usa certa simbologia al posto delle lettere alfabetiche, la parola si rarefa, i contenuti sono pressoché assenti. Si viaggia per impressioni, si amplifica la sfera emotiva a scapito di quella razionale. La stessa cosa accade con Internet, nelle chat lines, luoghi virtuali dove incontri migliaia di persone, anche interessanti, ma che spesso comunicano per frasi fatte e stereotipi, in modo molto rapido, raramente svelando qualcosa di interessante circa se stessi. Sono dialoghi virtuali, condotti sulla scorta semmai di qualche fotografia che rende l’idea del tipo umano con cui sei in contatto. Emergono vite che non comunicano da essenza ad essenza, che usano la parola come veicolo di sensazioni o di sentimenti flebili e assai volatili; sembrano vite in fotocopia, allevate in qualche pollaio ultratecnologico.
La comunicazione profonda è latitante. È come se si avesse timore di svelarsi, e svelandosi di essere feriti o intercettati nella proprio vuoto esistenziale, il che attesta per l’appunto la preminenza della sfera emozionale su quella razionale e dei significati vitali. Il punto è che manca il Senso, e mancando il Senso manca pure la Direzione, per cui si viaggia a lume di naso, affidandosi alle sensazioni del momento, senza un preciso progetto di vita o solo un orientamento significativo, condizionante e stimolante. La parola è un’altra cosa, e Antonio ne è artefice e testimone. La parola vera salva, pone le basi del futuro, comunica speranza e verità, mette in luce l’essenza. Non meri vocaboli messi assieme perché ne risulti un suono o un’eco, ma un veicolo di vita, un trasmettitore di anima, di quella verità che era prima dell’uomo e che può accompagnarlo nella piena realizzazione di sé. La parola poi è anche fedele all’uomo, non è un mezzo per imbonire o sedurre, e tale fedeltà si manifesta nella sua nettezza, che è tranciante: “Sia invece il vostro parlare sì, sì; no, no; il di più viene dal maligno” (Mt 5, 37). La stessa preghiera, che è l’incontro dell’essere con Dio, non ammette nell’ottica cristiana lo sciupio di parole: “Pregando poi, non sprecate parole come i pagani, i quali credono di venire ascoltati a forza di parole” (Mt 6, 7). L’esubero di parole è difatti atteggiamento contrario alla fiducia nella provvidenza di Dio, che sa di cosa abbiamo bisogno prima ancora che glielo chiediamo (cfr Mt 6,8). L’effimero ed i suoi molteplici corollari appaiono così ampi ed agevoli, facili e leggeri, mentre in realtà producono povertà e miseria morale e spirituale, fardelli pesanti, difficili da portare. Gli spazi apparentemente ampi si rivelano in realtà assai angusti. Trovano così puntuale conferma le parole del Signore: “Prendete il mio giogo sopra di voi […]. Il mio giogo infatti è dolce e il mio carico leggero” (Mt 11, 29); “Entrate per la porta stretta, perché larga è la porta e spaziosa la via che conduce alla perdizione […]; quanto stretta invece è la porta e angusta la via che conduce alla vita […]” (Mt 7, 13-14). Non siamo alla esaltazione della sofferenza e del dolore come via catartica, ma al cospetto di inviti a seguire un percorso di purificazione interiore e di disintossicazione dagli idoli, di affermazioni sulla bontà per l’uomo della “porta stretta” e della “via angusta”, che poi in realtà è quella più agevole da percorrere, piena di pace e di intime soddisfazioni, apportatrice di libertà interiore. Possiamo così senz’altro sottoscrivere anche noi, come fece il professor Giovanni Modugno di Bitonto, morto in concetto di santità, questo profondo pensiero di Alessandro Manzoni, espresso nelle sue Osservazioni sulla morale cattolica: “le filosofie puramente umane, richiedendo molto meno, sono molto più esigenti”, mentre “la religione, chiedendo all’uomo cose più perfette, chiede cose più facili, vuole ch’egli arrivi ad una grande altezza, ma gli ha fatto la scala, ma l’ha condotto per mano: le filosofie umane, accontentandosi ch’egli tocchi un punto assai meno elevato, pretendono spesso di più, pretendono un salto, che non è nella forza dell’uomo”[2].
Altra tematica di stretta attualità che la vita e le opere di Sant’Antonio ci suggeriscono è quella della lotta all’usura, per tacere dell’avversione alla commistione fra il sacro ed il profano, fra il potere politico e le realtà spirituali. L’usura ha ucciso molte vite umane, distrutto famiglie, depresso intere economie. È uno dei peccati più gravi che possano commettersi. Mi sovviene ancora una volta Dante che nella Divina Commedia dedica agli usurai alcuni versi. Siamo nel XVII canto dell’Inferno; mentre Virgilio parlamenta con Gerione, il mostruoso re di Spagna che nutriva i suoi tori con carne umana, Dante raggiunge il gruppo degli usurai, l’ultimo delle schiere di anime violente: “Per li occhi fora scoppiava lor duolo;/di qua, di là soccorrien con le mani;/quando a’ vapori, e quando al caldo suolo:/non altrimenti fan di state i cani/or col ceffo or col pié, quando son morsi/o da pulci o da mosche o da tafani” (vv. 46-51). Gli usurai sono trasformati da Dante, in segno di grande disprezzo, in cani tormentati da pulci, mosche e tafani. Essi commisero violenza contro l’arte, cioè contro l’onesto lavoro altrui, che sfruttarono da parassiti. Né arte né ingegno, ma denaro accumulato alle spalle degli altri. Nel canto XI Dante nutre un dubbio, e domanda alla sua guida perché l’usura sia violenza contro Dio. Virgilio gli risponde che ogni uomo trae i suoi mezzi di sostentamento dalla natura e dall’arte, e Dio prescrive il lavoro come legge fondamentale. L’usuraio, non lavorando ma sfruttando il lavoro altrui, offende l’arte e quindi Dio.
Il lavoro onesto e competente è sempre svolto in funzione del bene e del progresso della comunità, non soltanto di se stessi. In questo senso partecipa dell’opera creativa di Dio. L’usura non crea, distrugge; chi la pratica va contro l’amore del suo simile e, secondo la Scrittura, alla fine dei conti neppure ne trae vantaggio: “Chi accresce il patrimonio con l’usura e l’interesse, lo accumula per chi ha pietà dei poveri” (Pv 28,8). Al di là di ogni altra considerazione, forse superflua, l’unico debito legittimo per il cristiano è quello indicato dall’apostolo Paolo, “un amore vicendevole; perché chi ama il suo simile ha adempiuto la legge” (Rm 13, 8). E ancora: “L’amore non fa nessun male al prossimo: pieno compimento della legge è l’amore” (Rm 13, 10). Paolo rimarca quindi che l’amore è tutto, e non v’è nulla al di fuori di esso che possa salvare l’uomo. Poiché la fede senza le opere è vana, e giacché le opere senza l’amore sono niente, la fede senza l’amore non conduce da nessuna parte, è menzognera. Questo perché Dio stesso, che è continuamente all’opera, è amore, ed ogni sua azione o pensiero è intriso d’amore per le sue creature, assurte alla dignità di figli per mezzo del supremo sacrificio d’amore del Cristo. D’altra parte non è superfluo osservare che storicamente il primo esplicito divieto dell’usura si trova proprio nella Bibbia, nel libro dell’Esodo: “Se tu presti denaro a qualcuno del mio popolo, all’indigente che sta con te, non ti comporterai con lui da usuraio: voi non dovete imporgli alcun interesse” (22, 24). Altri passi contro tale pratica si rinvengono nel Levitico e nel Deuteronomio[3]. Né va probabilmente sottaciuta una pratica immorale ricollegabile in qualche modo all’usura: nei riguardi dei torti ricevuti non ci comportiamo forse da usurai nel momento in cui pretendiamo gesti, atti, azioni che vanno ben oltre il perdono? Ogni qualvolta non perdoniamo il fratello che sbaglia ci comportiamo da usurai, imponiamo risarcimenti ed interessi morali altissimi.
Ed eccomi alla statua di Maria Goretti, splendida creatura, figura femminile eccezionale, canonizzata il 24 giugno 1950 da Pio XII, poco prima della proclamazione del dogma dell’Assunzione di Maria. In questa comunità parrocchiale fiorì presto una grande devozione a lei, martire del vero amore, spirata all’età di dodici anni per essersi rifiutata di sottostare alle voglie di un giovane, Alessandro Serenelli (1882 – 1970), che lei perdonò sul letto di morte. Alessandro, dopo aver scontato la pesante pena, respinto dai suoi familiari, lavorò come ortolano dai Padri Cappuccini di Ascoli Piceno, coi quali rimase fino al 1956. Non più abile al lavoro, fu ospitato dai frati nella loro casa di riposo di Macerata, dove morì il 6 maggio 1970. Trascorse gli ultimi anni in grande raccoglimento, pregando ed accostandosi ai sacramenti con grande fervore. Ciò che colpisce, accanto alla purezza di Maria, è la rinascita alla vita di fede del suo omicida, che nel 1961 dettò il suo testamento, che vale la pena di riportare integralmente: "Sono vecchio di quasi 80 anni, prossimo a chiudere la mia giornata. Dando uno sguardo al passato, riconosco che nella mia giovinezza infilai una strada falsa: la via del male, che mi condusse alla rovina. Vedevo, attraverso la stampa, gli spettacoli e i cattivi esempi, che la maggior parte dei giovani seguiva quella via senza darsi pensiero ed io pure non me ne preoccupai. Persone credenti e praticanti le avevo vicino a me, ma non ci badavo, accecato da una forza bruta, che mi sospingeva per una strada cattiva. Consumai a vent'anni il delitto passionale, del quale oggi inorridisco al solo ricordo. Maria Goretti, ora Santa, fu l'angelo buono che la Provvidenza aveva messo avanti ai miei passi. Ho impresse ancora nel cuore le sue parole di rimprovero e di perdono. Pregò per me, intercedette per me, suo uccisore. Seguirono trenta anni di prigione. Se non fossi stato minorenne, sarei stato condannato a vita. Accettai la sentenza meritata; rassegnato espiai la colpa. Maria fu veramente la mia luce, la mia protettrice. Col suo aiuto mi diportai bene e cercai di vivere onestamente, quando la società mi riaccettò tra i suoi membri. I Figli di San Francesco, i Minori Cappuccini delle Marche, con carità serafica mi hanno accolto fra loro non come servo, ma come fratello. Con loro convivo dal 1936. Ed ora aspetto sereno il momento di essere ammesso alla visione di Dio, di riabbracciare i miei cari, di essere vicino al mio Angelo protettore e alla sua cara mamma Assunta. Coloro che leggeranno questa mia lettera vogliano trarre il felice insegnamento di fuggire il male, di seguire il bene sempre, fin da fanciulli. Pensino che la religione con i suoi precetti non è una cosa di cui si può fare a meno, ma è il vero conforto, l'unica via sicura in tutte le circostanze, anche le più dolorose della vita. Pace e bene!".
Una lettera densa di insegnamenti morali che ci induce a riflettere anche sulla portata di certi nostri giudizi, che suonano inappellabili con chi sbaglia, carenti di misericordia. Mentre mi soffermo sull’icona di Maria Goretti, memore della mia visita al Santuario di Nettuno dove il suo corpo è custodito dai Padri Passionisti, mi tornano alla mente alcune parole che Giovanni Paolo II inviò a mons. Agostino Vallini, vescovo di Albano, in occasione del centenario della morte della Santa (6 luglio 2002): “Quale fulgido esempio per la gioventù! La mentalità disimpegnata, che pervade non poca parte della società e della cultura del nostro tempo, fatica talora a comprendere la bellezza e il valore della castità. Dal comportamento di questa giovane Santa emerge una percezione alta e nobile della propria e dell'altrui dignità, che si riverberava nelle scelte quotidiane conferendo loro pienezza di senso umano. Non v'è forse in ciò una lezione di grande attualità? Di fronte a una cultura che sopravvaluta la fisicità nei rapporti tra uomo e donna, la Chiesa continua a difendere e a promuovere il valore della sessualità come fattore che investe ogni aspetto della persona e che deve quindi essere vissuto in un atteggiamento interiore di libertà e di reciproco rispetto, alla luce dell'originario disegno di Dio. In tale prospettiva, la persona si scopre destinataria di un dono e chiamata a farsi, a sua volta, dono per l'altro”. Lo stesso Enrico Berlinguer avrebbe indicato Maria Goretti quale esempio da seguire alle giovani ed alle donne comuniste.
Castità, perdono, misericordia, ravvedimento. Sono i quattro pilastri spirituali di una ideale costruzione etica suggeritaci dalla vicenda umana e religiosa di Maria Goretti[4] e di Alessandro Serenelli.
Mentre di San Giovanni Bosco[5] ricordiamo quale tratto saliente, sebbene non esaustivo, il trittico ragione, religione e amorevolezza, posto a fondamento del suo famoso sistema educativo, e, anche in lui, una sorta di distacco dalla politica[6], di Francesco da Paola, eremita e fondatore dell’Ordine dei Minimi, ricordiamo l’amore per gli infermi ed i poveri. Fu canonizzato nel 1519 a soli dodici anni dalla morte, durante il pontificato di Papa Leone X. Ma in questa comunità parrocchiale agisce anche lo spirito di S. Vincenzo de’ Paoli, il cui amore verso i poveri lo rese celebre al punto che Luigi XIII di Francia lo volle come suo consigliere. Chiamato nel 1643 dalla reggente Anna d’Austria a far parte del Consiglio della Coscienza o Congregazione degli Affari Ecclesiastici, ebbe aspri scontri col suo presidente, il potente cardinale Giulio Mazzarino, il quale faceva scelte opportunistiche in materia di scelta dei vescovi e di rilascio di benefici ecclesiastici. Nel 1649 chiese alla regina di allontanare Mazzarino, ma la sua richiesta non fu accolta, e quindi cadde in disgrazia. La reggente gli conferì tuttavia l’incarico di Ministro della Carità, per organizzare su scala nazionale gli aiuti ai poveri. Grande amico di San Francesco di Sales, elaborò una nuova dottrina spirituale, per cui le virtù dello spirito vincenziano sono date dalle cosiddette “cinque pietre di Davide”: semplicità, umiltà, mansuetudine, mortificazione e zelo per la salvezza delle anime. Francesco di Sales, che si preoccupò di sviluppare una predicazione e un modello di vita cristiana che fosse approcciabile anche dalla gente comune, è quindi una figura che idealmente collega Vincenzo de’ Paoli a Don Bosco, il quale nel 1854 diede inizio alla Società Salesiana, con cui assicurò stabilità alle sue opere e continuità al suo spirito. Il Volontariato Vincenziano, che nacque a Ruvo nel 1899 per volontà del vescovo mons. Pasquale Berardi[7], opera dal finire del 1990 in parrocchia con un centro di ascolto che ha seguito molti casi, adoperandosi concretamente per la loro soluzione o per il loro lenimento. Un’attività benemerita che ha trovato e trova in don Vincenzo un attento e sensibile interlocutore, anzi un incalzante promotore.
Infine, il gruppo statuario della Madonna del Rosario di Pompei, realizzato da Carmelo Bruno nel 1937. La Vergine, assisa in trono con il Bambino in braccio, porge la corona del rosario a S. Caterina da Siena, mentre Gesù la dà a S. Domenico di Guzmàn, inginocchiati ai lati del trono (in altri gruppi statuari è raffigurata S. Rosa da Lima invece di S. Caterina). Il culto del rosario è molto antico, risale al XIII secolo, quando fu propagato dai Domenicani. Ebbe una immediata diffusione perché consentiva di pregare facilmente e nello stesso tempo di meditare i misteri cristiani senza la necessità di leggere un testo, cosa che riusciva ostica a molti, in specie alla povera gente, totalmente priva di istruzione. Per tale ragione il rosario fu chiamato il “vangelo dei poveri”. Il suo culto si diffuse dopo le apparizioni di Lourdes del 1858, ed in Italia a Pompei grazie all’avvocato Bartolo Longo, pugliese di nascita[8], beatificato da Giovanni Paolo II il 26 ottobre 1980. Preghiera potentissima, ad essa si riferì San Pio da Pietrelcina, presentandola addirittura quale suo testamento spirituale ed eredità: “Questo è il mio testamento e la mia eredità: amate e fate amare la Madonna, recitate e fate recitare il Rosario”. Domenico di Guzmàn attuò una straordinaria sintesi fra vita contemplativa e apostolica. Combatte l’eresia catara e fonda l’Ordine dei Predicatori, le cui comunità si ispirano alla prima comunità di Gerusalemme, con una vita fondata sulla comunione fraterna, sulla preghiera e lo studio. Vuole che i frati si dedichino allo studio per essere più capaci di “parlare con Dio nella preghiera e a parlare di Dio nella predicazione”. Una vita monastica, quindi, ma aperta alla missione della predicazione per la conversione, in cui grande importanza ha lo studio della teologia. Spira a Bologna il 6 agosto 1221. Al Prado di Madrid è custodito il quadro che Tomàs de Torquemada commissionò al pittore Pedro Berruguete, intitolato “Autodafé presieduto da San Domenico di Guzmàn” (ca 1495). L’autodafé[9] (o sermo generalis) era una cerimonia pubblica in cui veniva eseguita la penitenza o la condanna comminata dalla Inquisizione. È una rappresentazione che ha nuociuto non poco alla figura di S. Domenico, poiché gli si attribuisce un ruolo che non gli appartenne[10]. Difatti egli morì dodici anni prima che Gregorio IX nominasse dei frati domenicani a capo dei tribunali dell’Inquisizione. Chiarito l’eventuale equivoco, fugata l’ombra, si staglia nettamente la grande personalità cristiana di Domenico, che ci invita ad acquisire una maggiore consapevolezza circa la nostra identità e vocazione attraverso la preghiera e lo studio. È impressionante l’ignoranza religiosa che ci circonda e che purtroppo alligna anche fra molti battezzati. Non si conoscono i dieci comandamenti e men che meno le otto beatitudini; si fa grande confusione fra verità di fede e semplici dicerie e si cade facilmente preda delle suggestioni di talune sette religiose. Non si è in grado di replicare alle tesi dei Testimoni di Geova e si danno per buone le fantasie più stravaganti. Mi ricordo di un matrimonio che fu celebrato in una chiesa di Roma non più tardi di quattro anni fa, a cui ero presente. I convenuti facevano fatica a recitare il Credo e a mala pena conoscevano la preghiera del Padre nostro. Una tristezza assoluta. Di qui l’esigenza di una nuova evangelizzazione, di una nuova alfabetizzazione religiosa. Se manca la conoscenza delle principali verità di fede e si hanno poche e confuse idee sulla Chiesa cattolica, si cadrà facilmente nella rete delle eresie moderne, delle pseudo-religioni, delle sette, come pure di cartomanti e maghi, filtri, formule, oroscopi e pozioni, il cui unico miracolo consiste nello svuotamento dei portafogli ed in un’accresciuta miseria morale e spirituale, con gravi ripercussioni di natura psichica. Ogni inganno sull’uomo e sulla sua natura contribuisce a rendere deboli le menti e fragili le personalità, si rivela distruttivo.
Santa Caterina nasce a Siena, nel rione di Fontebranda, il 25 marzo 1347. Mistica domenicana, di lei mi ha impressionato la “virilità”. Era una donna dal carattere forte e di incrollabili convinzioni, capace di parlare ai potenti del tempo senza alcun timore reverenziale. Suoi interlocutori furono cardinali, vescovi e papi. Si batté per la riforma dei costumi del clero, e non esiterà a definire “demoni incarnati” tredici cardinali che seguirono l’antipapa Clemente VII, eletto a Fondi il 20 settembre 1378. Nel suo Trattato della Provvidenza scrive, fra l’altro, che “essere la serva di Dio significa non essere soggetta all’autorità di nessun uomo.” Un pensiero che induce a riflettere sulla nostra facile remissività dinanzi ai potenti di oggi, che facilmente si muta in pavidità. Piuttosto di non offendere la suscettibilità del potente di turno, sia in ambito civile che religioso, preferiamo glissare, addolcire, o far finta di niente. Per amore del quieto vivere non esitiamo a sacrificare sull’altare dell’ipocrisia e del perbenismo cospicue quote di verità, la sola in grado di produrre non solo candore individuale, ma anche progresso civile[11]. Finché terremo celate le scomode verità, terremo ingabbiate energie positive di crescita personale e comunitaria. È un danno incalcolabile sotto il profilo della giustizia, che può darsi solo se la verità affiora e la menzogna arretra. Di certo c’è che oggi molti di noi, pur avendone l’autorità, eviterebbero di rivolgersi ad un potente con le stesse parole e con la stessa passione e santa intransigenza con cui Caterina si rivolse a Pietro, cardinale di Ostia, quando lo invitò ad essere “uomo virile e non timoroso”.
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[1] Cfr la Repubblica del 24 settembre 2006, pag. 50.
[2] Cfr Giovanni Modugno, F. W. Förster e la crisi dell’anima contemporanea, Giuseppe Laterza & Figli, Bari, 1931, ristampa 2005, pag. 170.
[3] Cfr Lv 25, 35-37; Dt 23, 20.
[4] Alla vicenda di Maria Goretti si ispira il bel film Cielo sulla palude, girato nel 1949 dal regista Augusto Genina.
[5] A S. Giovanni Bosco è intitolato l’oratorio parrocchiale. L’inaugurazione avvenne il 5 dicembre 1955 alla presenza di mons. Aurelio Marena, vescovo di Ruvo e Bitonto, e del parroco mons. Michele Montaruli, il quale fu molto legato alla figura del santo. In quell’occasione fu inaugurato il nuovo complesso di campane di bronzo e consacrato il nuovo campanile neo-romanico. Cfr AA.VV., La Chiesa del SS. Redentore in Ruvo – Aspetti di storia urbana, civile e religiosa a cento anni dalla fondazione (1902-2002), CSL Editrice, Terlizzi, 2003, pagg. 97 e segg.
[6] “E’ mio fermo sistema tenermi estraneo ad ogni cosa che si riferisca a politica. Non mai pro, non mai contro” III, 294; “Il prete cattolico non ha altra politica che quella del Santo Vangelo” VI, 679.
[7] Cfr AA.VV., La Chiesa del SS. Redentore in Ruvo – Aspetti di storia urbana, civile e religiosa a cento anni dalla fondazione (1902-2002), op. cit., pagg. 109 e 110.
[8] Nacque a Latiano (Brindisi) il 10 febbraio 1841.
[9] Il nome deriva dal portoghese auto da fé, cioè “atto di fede”. La tradizione fu inaugurata dall’inquisitore Tomàs de Torquemada nel 1481 a Siviglia, sebbene il primo autodafé di cui si ha notizia si svolse a Parigi nel 1242, durante il regno di Luigi IX.
[10] Si parla a proposito di “leggenda nera” o di “triste leggenda”, prosperata grazie agli stessi predicatori, i quali, come sostiene Michel Roquebert, “ritenevano che essere nati per combattere l’eresia fosse motivo di gloria”.
[11] Secondo Marcel Eck un mondo in cui la verità fosse esibita senza criterio assomiglierebbe “più ad un inferno che ad un paradiso.” Ed aggiunge che mentire è qualche volta un dovere. Taluni distinguono poi fra bugie bianche e nere, con le prime che sarebbero sostanzialmente innocue. Possiamo osservare che la verità va manifestata con criterio, che occorre essere tempestivi, semmai scegliere i tempi ed i modi più opportuni, che tacere la verità non è un dovere, bensì un atto di codardia o di scarsa fiducia in se stessi. L’uomo dovrebbe essere sempre consapevole delle proprie azioni ed assumersene la paternità. Tacere la verità impedisce alla giustizia di fare il suo corso, in taluni casi può esporre altri a gravi pericoli, per cui ha in sé un alto potenziale antievangelico.
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