2. Altri segni
Un altro richiamo ad immergermi nelle cose dello spirito, dopo la suggestiva immagine del Cristo Redentore, mi viene dalla statua di San Pio da Pietrelcina, collocata appena dopo la cancellata, sul lato destro, opera risalente al 1988 dello scultore Mario Piergiovanni[1]. È una immagine che evoca il carattere talvolta burbero del Santo, che il popolo amabilmente si ostina a chiamare con tono familiare “Padre Pio”. Il volto sembra corrucciato e con la mano sinistra indica qualcosa mentre ti scruta fisso, un po’ severo. Indica qualcosa o scaccia qualcuno, intimandogli di riconciliarsi con Dio[2]? In realtà è come se volesse invitarti ad entrare nel grembo accogliente del tempio con una particolare predisposizione dell’anima, con un frustolo semmai della sua personale esperienza di testimone dell’amore di Dio e della sua compassione, che non può prescindere da un atto di umiltà e di conversione del cuore.
Da mihi animas, caetera tolle. A questa celebre massima salesiana in realtà si attengono tutti i Santi. Sotto il porticato, sul lato destro (a sinistra c’è la lapide commemorativa del centenario della parrocchia), è collocato il busto di un grande papa, Giovanni XXIII. Colgo un altro bel segno di unità e di comunione, l’ennesimo invito a non disunirsi, ma ad essere comunità che ama e che accoglie l’altro con tutti i suoi pregi ed i suoi difetti, con le sue peculiari caratteristiche, con i suoi lati problematici e le sue levità. Due uomini Santi che in vita non si incontrarono mai (Papa Roncalli mai si recò in visita al convento di San Giovanni Rotondo) e che qui invece si trovano accomunati, quasi “riconciliati”, e che vogliono farmi da guide spirituali, ciascuno con il suo proprium. Spicca la bonomia di Roncalli, quel suo tratto umano e cordiale, semplice e amorevole, che me lo fece amare quando ero bambino. Amai il suo famoso “discorso della luna”, come fu definito. Era la notte di un lunedì di ottobre del 1962 quando Giovanni XXIII pronunciò queste parole in Piazza S. Pietro:
“Si direbbe che persino la luna si è affrettata stasera […] Gloria a Dio e pace agli uomini di buona volontà. Tornando a casa, troverete i bambini, date una carezza ai vostri bambini e dite questa é la carezza del Papa; troverete qualche lacrima da asciugare. Dite una parola buona. Il Papa é con noi nell'ora della tristezza e dell'amarezza”.
Queste parole mi vengono spesso in mente, specie quando le nefandezze e le atrocità compiute sui bambini ci avviliscono e gridano vendetta al cospetto di Dio. Mons. Loris Capovilla, che ne fu il segretario particolare e che questa comunità ospitò il 29 ottobre 1989, ha detto di lui il 14 giugno 2003 in occasione di una tavola rotonda sulla enciclica Pacem in terris (1963) tenuta a Sotto il Monte: “Ritornano spontanee al nostro spirito le parole, che ci salirono dal cuore nel Duomo di Milano, nella festa di Pentecoste 1963, mentre l’agonia di Giovanni XXIII teneva in ansia e in preghiera la Chiesa intera ed il mondo: "Benedetto questo Papa che ci ha fatto godere un’ora di paternità e di familiarità spirituale, e che ha insegnato a noi e al mondo che l’umanità di nessuna altra cosa ha maggior bisogno, quanto di amore" ”. Un ritratto breve ma esaustivo del Papa Buono, mentre su San Pio in questi termini si espresse Papa Giovanni Paolo II all’atto della sua canonizzazione (16 giugno 2002): “Padre Pio è stato generoso dispensatore della misericordia divina, rendendosi a tutti disponibile attraverso l'accoglienza, la direzione spirituale, e specialmente l'amministrazione del sacramento della Penitenza. Il ministero del confessionale, che costituisce uno dei tratti distintivi del suo apostolato, attirava folle innumerevoli di fedeli al Convento di San Giovanni Rotondo. Anche quando quel singolare confessore trattava i pellegrini con apparente durezza, questi, presa coscienza della gravità del peccato e sinceramente pentiti, quasi sempre tornavano indietro per l'abbraccio pacificante del perdono sacramentale”.
Queste due guide spirituali ci parlano di amore e di penitenza, di bontà e di misericordia, che, a ben vedere, sono inscindibili se si vuole intraprendere un serio cammino spirituale alla sequela del Cristo. L’amore vero postula il sacrificio di sé, e la bontà è inscindibile da gesti e parole di perdono e di misericordia. L’amore che fa a meno del sacrificio di sé si converte facilmente in gratificazione del proprio ego, quindi in sfruttamento dell’altra parte, “amata” fino a quando c’è convenienza e diletto. Non a caso fra i sette peccati sociali del nostro tempo, un non credente amante del Cristo, il Mahatma Ghandi, incluse il piacere senza consapevolezza, che è in sé coscienza e responsabilità. Si era nel 1925 , ma siamo nel vivo palpitante della nostra umanità, scossa, direi sfregiata da disegni legislativi in Italia e nel mondo che, negli esiti ultimi, tendono ad equiparare o già equiparano la famiglia naturale ad altre forme di convivenza e patti fra persone anche dello stesso sesso. Qui è assente proprio l’elemento della piena responsabilità, non tanto verso l’altro pattuente quanto verso la società, a rischio di estinzione per certe scelte in linea con le filosofie del piacere (non del benessere, concetto assai diverso) e quel nichilismo “gaio e tragico” di cui ha parlato mons. Carlo Caffarra, Arcivescovo Metropolita di Bologna. E come non rammentare il monito di Aldo Moro, secondo il quale la grande stagione dei diritti sarebbe risultata effimera se non fosse nato un nuovo senso del dovere? Lo stesso Enrico Berlinguer, segretario del Partito comunista italiano, criticò l’eccesso di individualismo e di egoismo presente nella società italiana. Troppi diritti non bilanciati dal senso del dovere e dai doveri collidono con l’anarchia ed il libertinaggio sul piano etico. Se possiamo fare a meno delle ideologie, spesso sovrastrutture soffocanti e dannose, non possiamo rinunciare agli ideali ed ai valori, che sono infrastrutture necessarie al farsi coerente ed equilibrato della vita. Fra queste infrastrutture c’è la retta concezione della persona umana. Essa ne è anzi la colonna portante. En passant, e per la serietà della questione, osservo sommessamente che se non si aderisce ad una verità, ad una norma di vita che discende dalla nostra natura umana (non da quella puramente animale, come sostengono taluni), non per ciò si è più liberi o democratici o tolleranti. Si è solo più disorientati, perché più verità equivalgono non a più libertà, ma negli esiti concreti a nessuna verità e a nuove forme di schiavitù, più difficili da estirpare perché accompagnate da sensazioni di ebbrezza e di appagamento, fissate nelle menti e nei cuori da un continuo (ed incivile) bombardamento mediatico. Una società che non rispetta le verità fondamentali sulla persona umana è destinata a trasformarsi rapidamente in qualcosa d’altro, in un pallido surrogato. Sarà pur sempre un aggregato umano, certo, ma è assai dubbio che si possa parlare in senso proprio di società, e ancor meno di comunità.
Con queste brevi note spirituali mi accingo a varcare la soglia della chiesa del SS. Redentore, aperta al culto il 10 agosto 1902. C’è l’imbarazzo della scelta. Potrei accedervi per la porta centrale, ed in effetti da essa vi si accede preferibilmente, oppure per una delle due porticine laterali che entrambe recano sullo stipite una sentenza, meglio un incoraggiamento, un’indicazione spirituale di grande efficacia ed impatto (un’altra, collocata da don Vincenzo nell’ufficio parrocchiale, appena sotto un orologio da parete, recita in latino “Tuam nescis”, non sai quando scoccherà la tua ora): Dice il Signore “Io sono la porta: se uno entra attraverso di me, sarà salvo” (a destra); Qui si entra per amare Dio. Di qui si esce per amare il prossimo (a sinistra). Le iscrizioni echeggiano in qualche modo Dante e la sua Divina Commedia, suonando quasi quale confutazione o antitesi alla terribile iscrizione che compare sulla porta che immette nella “città dolente”[3]. Ma il trittico riecheggia la Trinità, suggerisce che tre sono le vie per entrare nel regno di Dio: la via del Padre, la via del Figlio e quella dello Spirito Santo. La via del Padre è quella centrale. Il Padre è il centro di tutto, e la via per andare sicuramente a lui consiste nel mettere in pratica quanto è contenuto nella preghiera del “Padre nostro” insegnataci da Gesù, che trae origine dalle otto beatitudini, il “manifesto programmatico” di una vita spirituale secondo la volontà del Dio dei vangeli. La via del Figlio consiste nell’andare a Dio attraverso il sacrifico di sé e la croce, rinunciando alla propria reputazione borghese per addossarsi la croce di Cristo, l’incomprensione del mondo con ciò che ne consegue, lo scherno, il dileggio, l’emarginazione (la via stretta). La via dello Spirito Santo è la via della conversione del cuore per mezzo della carità che ci fa santi. “In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo, per essere santi ed immacolati al suo cospetto nella carità”, scrive Paolo (Ef 1,4). Santità e purezza si ottengono se si è caritatevoli, cioè se si ama, per cui a che giovano le molte preghiere se non c’è la carità? C’è il rischio che il Signore si rivolga a noi con le stesse parole che rivolse ai capi di Sodoma ed al popolo di Gomorra: “Smettete di presentare offerte inutili, l’incenso è un abominio per me; non posso sopportare noviluni, sabati, assemblee sacre, delitto e solennità. […] Anche se moltiplicate le preghiere, io non ascolto. […] Lavatevi, purificatevi, togliete dalla mia vista il male delle vostre azioni. Cessate di fare il male, imparate a fare il bene, ricercate la giustizia, soccorrete l’oppresso, rendete giustizia all’orfano, difendente la causa della vedova” (Is 1, 10 e ss.).
Non mi si fraintenda, tuttavia. C’è perfetta unità e comunione fra le persone divine, nel senso che noi distinguiamo solo per semplificare il mistero insondabile dell’amore trino ed uno, e questa è la precipua funzione delle tre porte[4], una funzione esortativa che io leggo in chiave spirituale e che prescinde dalla scelta architettonica dell’ing. Boccuzzi: richiamare il fedele ad entrare in chiesa con la consapevolezza che all’uscita, dopo aver assistito (rectius: preso parte) alla messa, scocca l’ora della messa in pratica del vangelo, cioè l’ora della pratica dell’amore vicendevole.
Un altro richiamo ad immergermi nelle cose dello spirito, dopo la suggestiva immagine del Cristo Redentore, mi viene dalla statua di San Pio da Pietrelcina, collocata appena dopo la cancellata, sul lato destro, opera risalente al 1988 dello scultore Mario Piergiovanni[1]. È una immagine che evoca il carattere talvolta burbero del Santo, che il popolo amabilmente si ostina a chiamare con tono familiare “Padre Pio”. Il volto sembra corrucciato e con la mano sinistra indica qualcosa mentre ti scruta fisso, un po’ severo. Indica qualcosa o scaccia qualcuno, intimandogli di riconciliarsi con Dio[2]? In realtà è come se volesse invitarti ad entrare nel grembo accogliente del tempio con una particolare predisposizione dell’anima, con un frustolo semmai della sua personale esperienza di testimone dell’amore di Dio e della sua compassione, che non può prescindere da un atto di umiltà e di conversione del cuore.
Da mihi animas, caetera tolle. A questa celebre massima salesiana in realtà si attengono tutti i Santi. Sotto il porticato, sul lato destro (a sinistra c’è la lapide commemorativa del centenario della parrocchia), è collocato il busto di un grande papa, Giovanni XXIII. Colgo un altro bel segno di unità e di comunione, l’ennesimo invito a non disunirsi, ma ad essere comunità che ama e che accoglie l’altro con tutti i suoi pregi ed i suoi difetti, con le sue peculiari caratteristiche, con i suoi lati problematici e le sue levità. Due uomini Santi che in vita non si incontrarono mai (Papa Roncalli mai si recò in visita al convento di San Giovanni Rotondo) e che qui invece si trovano accomunati, quasi “riconciliati”, e che vogliono farmi da guide spirituali, ciascuno con il suo proprium. Spicca la bonomia di Roncalli, quel suo tratto umano e cordiale, semplice e amorevole, che me lo fece amare quando ero bambino. Amai il suo famoso “discorso della luna”, come fu definito. Era la notte di un lunedì di ottobre del 1962 quando Giovanni XXIII pronunciò queste parole in Piazza S. Pietro:
“Si direbbe che persino la luna si è affrettata stasera […] Gloria a Dio e pace agli uomini di buona volontà. Tornando a casa, troverete i bambini, date una carezza ai vostri bambini e dite questa é la carezza del Papa; troverete qualche lacrima da asciugare. Dite una parola buona. Il Papa é con noi nell'ora della tristezza e dell'amarezza”.
Queste parole mi vengono spesso in mente, specie quando le nefandezze e le atrocità compiute sui bambini ci avviliscono e gridano vendetta al cospetto di Dio. Mons. Loris Capovilla, che ne fu il segretario particolare e che questa comunità ospitò il 29 ottobre 1989, ha detto di lui il 14 giugno 2003 in occasione di una tavola rotonda sulla enciclica Pacem in terris (1963) tenuta a Sotto il Monte: “Ritornano spontanee al nostro spirito le parole, che ci salirono dal cuore nel Duomo di Milano, nella festa di Pentecoste 1963, mentre l’agonia di Giovanni XXIII teneva in ansia e in preghiera la Chiesa intera ed il mondo: "Benedetto questo Papa che ci ha fatto godere un’ora di paternità e di familiarità spirituale, e che ha insegnato a noi e al mondo che l’umanità di nessuna altra cosa ha maggior bisogno, quanto di amore" ”. Un ritratto breve ma esaustivo del Papa Buono, mentre su San Pio in questi termini si espresse Papa Giovanni Paolo II all’atto della sua canonizzazione (16 giugno 2002): “Padre Pio è stato generoso dispensatore della misericordia divina, rendendosi a tutti disponibile attraverso l'accoglienza, la direzione spirituale, e specialmente l'amministrazione del sacramento della Penitenza. Il ministero del confessionale, che costituisce uno dei tratti distintivi del suo apostolato, attirava folle innumerevoli di fedeli al Convento di San Giovanni Rotondo. Anche quando quel singolare confessore trattava i pellegrini con apparente durezza, questi, presa coscienza della gravità del peccato e sinceramente pentiti, quasi sempre tornavano indietro per l'abbraccio pacificante del perdono sacramentale”.
Queste due guide spirituali ci parlano di amore e di penitenza, di bontà e di misericordia, che, a ben vedere, sono inscindibili se si vuole intraprendere un serio cammino spirituale alla sequela del Cristo. L’amore vero postula il sacrificio di sé, e la bontà è inscindibile da gesti e parole di perdono e di misericordia. L’amore che fa a meno del sacrificio di sé si converte facilmente in gratificazione del proprio ego, quindi in sfruttamento dell’altra parte, “amata” fino a quando c’è convenienza e diletto. Non a caso fra i sette peccati sociali del nostro tempo, un non credente amante del Cristo, il Mahatma Ghandi, incluse il piacere senza consapevolezza, che è in sé coscienza e responsabilità. Si era nel 1925 , ma siamo nel vivo palpitante della nostra umanità, scossa, direi sfregiata da disegni legislativi in Italia e nel mondo che, negli esiti ultimi, tendono ad equiparare o già equiparano la famiglia naturale ad altre forme di convivenza e patti fra persone anche dello stesso sesso. Qui è assente proprio l’elemento della piena responsabilità, non tanto verso l’altro pattuente quanto verso la società, a rischio di estinzione per certe scelte in linea con le filosofie del piacere (non del benessere, concetto assai diverso) e quel nichilismo “gaio e tragico” di cui ha parlato mons. Carlo Caffarra, Arcivescovo Metropolita di Bologna. E come non rammentare il monito di Aldo Moro, secondo il quale la grande stagione dei diritti sarebbe risultata effimera se non fosse nato un nuovo senso del dovere? Lo stesso Enrico Berlinguer, segretario del Partito comunista italiano, criticò l’eccesso di individualismo e di egoismo presente nella società italiana. Troppi diritti non bilanciati dal senso del dovere e dai doveri collidono con l’anarchia ed il libertinaggio sul piano etico. Se possiamo fare a meno delle ideologie, spesso sovrastrutture soffocanti e dannose, non possiamo rinunciare agli ideali ed ai valori, che sono infrastrutture necessarie al farsi coerente ed equilibrato della vita. Fra queste infrastrutture c’è la retta concezione della persona umana. Essa ne è anzi la colonna portante. En passant, e per la serietà della questione, osservo sommessamente che se non si aderisce ad una verità, ad una norma di vita che discende dalla nostra natura umana (non da quella puramente animale, come sostengono taluni), non per ciò si è più liberi o democratici o tolleranti. Si è solo più disorientati, perché più verità equivalgono non a più libertà, ma negli esiti concreti a nessuna verità e a nuove forme di schiavitù, più difficili da estirpare perché accompagnate da sensazioni di ebbrezza e di appagamento, fissate nelle menti e nei cuori da un continuo (ed incivile) bombardamento mediatico. Una società che non rispetta le verità fondamentali sulla persona umana è destinata a trasformarsi rapidamente in qualcosa d’altro, in un pallido surrogato. Sarà pur sempre un aggregato umano, certo, ma è assai dubbio che si possa parlare in senso proprio di società, e ancor meno di comunità.
Con queste brevi note spirituali mi accingo a varcare la soglia della chiesa del SS. Redentore, aperta al culto il 10 agosto 1902. C’è l’imbarazzo della scelta. Potrei accedervi per la porta centrale, ed in effetti da essa vi si accede preferibilmente, oppure per una delle due porticine laterali che entrambe recano sullo stipite una sentenza, meglio un incoraggiamento, un’indicazione spirituale di grande efficacia ed impatto (un’altra, collocata da don Vincenzo nell’ufficio parrocchiale, appena sotto un orologio da parete, recita in latino “Tuam nescis”, non sai quando scoccherà la tua ora): Dice il Signore “Io sono la porta: se uno entra attraverso di me, sarà salvo” (a destra); Qui si entra per amare Dio. Di qui si esce per amare il prossimo (a sinistra). Le iscrizioni echeggiano in qualche modo Dante e la sua Divina Commedia, suonando quasi quale confutazione o antitesi alla terribile iscrizione che compare sulla porta che immette nella “città dolente”[3]. Ma il trittico riecheggia la Trinità, suggerisce che tre sono le vie per entrare nel regno di Dio: la via del Padre, la via del Figlio e quella dello Spirito Santo. La via del Padre è quella centrale. Il Padre è il centro di tutto, e la via per andare sicuramente a lui consiste nel mettere in pratica quanto è contenuto nella preghiera del “Padre nostro” insegnataci da Gesù, che trae origine dalle otto beatitudini, il “manifesto programmatico” di una vita spirituale secondo la volontà del Dio dei vangeli. La via del Figlio consiste nell’andare a Dio attraverso il sacrifico di sé e la croce, rinunciando alla propria reputazione borghese per addossarsi la croce di Cristo, l’incomprensione del mondo con ciò che ne consegue, lo scherno, il dileggio, l’emarginazione (la via stretta). La via dello Spirito Santo è la via della conversione del cuore per mezzo della carità che ci fa santi. “In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo, per essere santi ed immacolati al suo cospetto nella carità”, scrive Paolo (Ef 1,4). Santità e purezza si ottengono se si è caritatevoli, cioè se si ama, per cui a che giovano le molte preghiere se non c’è la carità? C’è il rischio che il Signore si rivolga a noi con le stesse parole che rivolse ai capi di Sodoma ed al popolo di Gomorra: “Smettete di presentare offerte inutili, l’incenso è un abominio per me; non posso sopportare noviluni, sabati, assemblee sacre, delitto e solennità. […] Anche se moltiplicate le preghiere, io non ascolto. […] Lavatevi, purificatevi, togliete dalla mia vista il male delle vostre azioni. Cessate di fare il male, imparate a fare il bene, ricercate la giustizia, soccorrete l’oppresso, rendete giustizia all’orfano, difendente la causa della vedova” (Is 1, 10 e ss.).
Non mi si fraintenda, tuttavia. C’è perfetta unità e comunione fra le persone divine, nel senso che noi distinguiamo solo per semplificare il mistero insondabile dell’amore trino ed uno, e questa è la precipua funzione delle tre porte[4], una funzione esortativa che io leggo in chiave spirituale e che prescinde dalla scelta architettonica dell’ing. Boccuzzi: richiamare il fedele ad entrare in chiesa con la consapevolezza che all’uscita, dopo aver assistito (rectius: preso parte) alla messa, scocca l’ora della messa in pratica del vangelo, cioè l’ora della pratica dell’amore vicendevole.
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[1] All’interno ve ne è un’altra realizzata ad Ortisei, dono di Giacomo Elicio.
[2] È emblematica la vicenda di un parente di mio padre, il quale si recò a S. Giovanni Rotondo per assistere alla messa di P. Pio. Quando gli si accostò, il Frate lo rimproverò e lo scacciò perché soleva bestemmiare i Santi. Lo sgridò severamente: “Ma come ti permetti di bestemmiare i Santi? Che ne sai tu dei Santi? Va’ via!”. Il povero uomo, attonito, si allontanò, andandosi a sedere in uno degli ultimi banchi, dove scoppiò in un pianto dirotto. Terminata la messa, P. Pio gli si avvicinò e gli accarezzò dolcemente il capo.
[3] `Per me si va ne la città dolente, /per me si va ne l'etterno dolore, / per me si va tra la perduta gente. / Giustizia mosse il mio alto fattore; /fecemi la divina podestate, / la somma sapïenza e 'l primo amore. / Dinanzi a me non fuor cose create / se non etterne, e io etterno duro. / Lasciate ogne speranza, voi ch'intrate'./ Queste parole di colore oscuro/ vid' ïo scritte al sommo d'una porta; / per ch'io: «Maestro, il senso lor m'è duro». Dante Alighieri, La Divina Commedia, Inferno, canto III, 1-12.
[4] Le tre porte del SS. Redentore richiamano altresì un passo tratto dal libro dell’Apocalisse di S. Giovanni Apostolo, il quale vide la Gerusalemme celeste “cinta da un grande e alto muro con dodici porte […] A oriente tre porte, a settentrione tre porte, a mezzogiorno tre porte e ad occidente tre porte” (Ap 21,10 – 14.22-23).
[1] All’interno ve ne è un’altra realizzata ad Ortisei, dono di Giacomo Elicio.
[2] È emblematica la vicenda di un parente di mio padre, il quale si recò a S. Giovanni Rotondo per assistere alla messa di P. Pio. Quando gli si accostò, il Frate lo rimproverò e lo scacciò perché soleva bestemmiare i Santi. Lo sgridò severamente: “Ma come ti permetti di bestemmiare i Santi? Che ne sai tu dei Santi? Va’ via!”. Il povero uomo, attonito, si allontanò, andandosi a sedere in uno degli ultimi banchi, dove scoppiò in un pianto dirotto. Terminata la messa, P. Pio gli si avvicinò e gli accarezzò dolcemente il capo.
[3] `Per me si va ne la città dolente, /per me si va ne l'etterno dolore, / per me si va tra la perduta gente. / Giustizia mosse il mio alto fattore; /fecemi la divina podestate, / la somma sapïenza e 'l primo amore. / Dinanzi a me non fuor cose create / se non etterne, e io etterno duro. / Lasciate ogne speranza, voi ch'intrate'./ Queste parole di colore oscuro/ vid' ïo scritte al sommo d'una porta; / per ch'io: «Maestro, il senso lor m'è duro». Dante Alighieri, La Divina Commedia, Inferno, canto III, 1-12.
[4] Le tre porte del SS. Redentore richiamano altresì un passo tratto dal libro dell’Apocalisse di S. Giovanni Apostolo, il quale vide la Gerusalemme celeste “cinta da un grande e alto muro con dodici porte […] A oriente tre porte, a settentrione tre porte, a mezzogiorno tre porte e ad occidente tre porte” (Ap 21,10 – 14.22-23).
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