giovedì 24 dicembre 2009

Recensioni dell'Arch. Mario Di Puppo


SALVATORE BERNOCCO, Lettera ad un single. Di palo in frasca, 2009, Libreria del Santo, Padova

L’ultima fatica letteraria di Salvatore Bernocco, Lettera ad un single non è letteratura di evasione ma d’invasione, mi sia concesso il gioco di parole. Sì, la lettera invade la sfera personale del single, il suo rapporto con la spiritualità mettendo a nudo problematiche nascoste nella quotidianità. Il lettore in possesso di una matrice cristiana condividerà a pieno il messaggio di Bernocco ma è proprio al single “senza valori” che il pamphlet è rivolto.
La narrazione si avvale dell’artificio espositivo della lettera in maniera tale che il racconto scorra velocemente e unitariamente pur concedendosi tredici pause di riflessione corrispondenti ad altrettanti capitoli che non si concentrano su di un unico argomento, come si penserebbe dal titolo, ma costituiscono delle grandi aree semantiche di ponderazione al cui interno confluiscono una serie di tesi ed argomentazioni relative.
Il single al quale l’Autore si rivolge (p.7) sembra lo stereotipo tratto da un reality show. È vanesio, narcisista (p.9), assiduo frequentatore di centri di benessere legati all’effimera bellezza esteriore; la vita del single “se appare fuori colorata e a tinte forti, desiderabile ed addirittura invidiabile, in realtà all’interno, là dove si sperimenta la vita sul serio, spesso è anemica, emaciata, algida”(p.11). Abita un monolocale (p.13) che è sufficiente per la sua vita solitaria (p.7) o, aggiungerei, per la sua vita mondana sempre fuori porta.
Non credo che tutti i single corrispondano alla descrizione di Bernocco ma penso che ognuno, single e non, possa riconoscere come proprio, sia pure segretamente, un aspetto dello stereotipo. Un discorso a parte andrebbe fatto per i “single per costrizione” che non possiedono un reddito che gli permetta una vita agiata rispetto ai “single per scelta”, una opzione tesa all’appagamento del proprio piacere di epicurea memoria.
Alla solitudine del single, al suo vuoto ideologico, al suo relativismo, alla sua depressione, alla sua paura di amare un altro che non sia se stesso, alla sua infelicità l’Autore propone di abbracciare il messaggio cristiano facendo propria la parola di Cristo che “come una lama affilata si conficca nel punto d’intersezione fra lo spirito ed il corpo”. Bernocco è ben consapevole della grande responsabilità della “sequela christi” tanto che afferma saggiamente che “ è meglio zoppicare sulla via della santità che non imboccarla affatto”.
Nel testo emergono molti consigli tanto che il libro potrebbe essere anche un manuale per l’interiorità dei single. Personalmente non credo che l’aridità spirituale termini automaticamente accasandosi e quindi penso che il messaggio del libro possa essere accolto anche dagli sposati o dai conviventi. I single cui l’Autore si rivolge sono quelle persone, sposate e non, che scelgono una vita priva di valori chiudendosi in se stesse anche se circondate da altri.
Bernocco non si pone come un cattedratico che elargisce una “lectio magistralis” ma la narrazione contiene un percorso autobiografico di crescita spirituale. È un “single pentito” dal giorno in cui ritrova per strada, la sua personale via di Damasco, due fogli di calendario dove si leggono due domande esistenziali (a voi scoprirle) che accendono il suo dialogo interiore (p.81) portandolo a rivedere la sua vita, descritta in pagine di grande introspezione che sembrano tratte da un diario personalissimo quanto condivisibile.
A chi sceglierà di leggere il libro affido la scoperta delle descrizioni dei “single modello” fra cui Gesù, Don Tonino Bello e Don Vincenzo Amenduni e la ricerca dei passi ludici tra i quali cito quello di Netty, diminutivo di internet, la ragazza virtuale cercata dai single.

SALVATORE BERNOCCO, Sul passo degli ultimi. Lineamenti del pensiero politico del Servo di Dio Mons. Antonio Bello, 2009 - Libreria del Santo, Padova
Don Tonino per la gente, la sua gente, rappresenta una figura semplice seppure emblematica della cristianità. Tanti i contributi critici tesi al chiarimento della sua missione pastorale. È inedito l’approccio di Bernocco che, partendo da citazioni edite e non di Don Tonino, mira sia ad approfondire il pensiero politico belliano sia a tessere un percorso individuale di riflessione sulle tematiche trattate. Per chi volesse approfondire la tematica consiglio la lettura dei testi editi dallo stesso Don Tonino: Vegliare nella notte. Riflessioni sull’impegno cristiano nel servizio sociale e nella politica, Cinisello Balsamo (MI), 1995, e Il vangelo del coraggio. Riflessioni sull’impegno cristiano nel servizio sociale e nella politica, Cinisello Balsamo (MI), 1996.
Don Tonino era di sinistra, di centro o di destra? Bernocco non risponderà subito alla domanda ma guiderà il lettore durante tutta la narrazione attraverso una serie di riflessioni. In alcuni punti si ha l’impressione che le posizioni belliane si attestino su uno schieramento ora sull’altro, fino alla risposta finale: Don Tonino era “semplicemente dalla parte dell’uomo” (p.104) in quanto “chi ama l’uomo ama Dio” (p. X). Infatti affermava che “Dio non ci chiederà conto dell’assenza del crocifisso nelle nostre stanze, ma dell’assenza dell’uomo, col cui volto Dio si è identificato” (p. XI).
Bernocco affianca al tema principale della politica belliana quello di una politica cristiana in generale e quello dei politici cristiani. L’Autore non cede all’oratoria finalizzata alla captatio benevolentiae del lettore, politico e non che sia, ma affronta temi scomodi sia per l’opinione pubblica laica sia cristiana.
Fra i tanti temi sostenuti spiccano, per evidente attualità, il no all’aborto; il passaggio dalla tolleranza dello straniero all’integrazione sociale; lo stato di benessere della Chiesa a fronte della necessità degli indigenti; la piaga della raccomandazione nella ricerca del lavoro; il ruolo dei ricchi nei confronti dei poveri; le spese per le guerre.
L’Autore è conscio che la risposta cristiana ai tanti interrogativi di bioetica, esistenziali, politici possa sembrare utopica tant’è che propone di “esaltare le utopie quasi per distillarne, ricavarne qualche gesto concreto di solidarietà. Come se dalla spremitura delle utopie possa sgocciolare un lenimento, un olio taumaturgico, una essenza odorosa con cui cospargere il corpo sociale martoriato dalle filosofie e dagli stili di vita che relativizzano la vita umana, rendendola un’appendice manovrabile dell’economia, della tecno-finanza, della politica, del potere” (p.39). Oppure, stando alle parole di Don Tonino, “il politico vero, come il buon samaritano, ha misericordia del popolo e gli si fa vicino per restituirgli la mezza vita che gli hanno tolta e non per aggiungergli la mezza morte che gli manca e stenderlo definitivamente” (A. Bello, Il vangelo del coraggio. Riflessioni sull’impegno cristiano nel servizio sociale e nella politica, Cinisello Balsamo (Mi) 1996, pag. 16.
Al termine della lettura del libro è il caso di chiedersi se le riflessioni di don Tonino, commentate e sviluppate da Bernocco, siano da considerarsi cristiane in senso stretto, cioè rispondenti solo a coloro i quali decidano di professare la religione cattolica. Personalmente credo di no in quanto una politica che ponga al centro il rispetto per la dignità di ogni uomo è tale da poter essere condivisa al di là del proprio credo religioso o politico. È evidente che il messaggio belliano va accolto in primo luogo dai cristiani a patto che avvenga quella opportuna rigenerazione spirituale scegliendo di passare dallo status di “cristiano festivo” a quello di “cristiano feriale” procedendo da una cristianità rituale vissuta solo nelle ricorrenze ad una sentita nella quotidianità. O, per dirla con le parole di Don Tonino, “dobbiamo essere contemplattivi, con due t, cioè della gente che parte dalla contemplazione e poi lascia sfociare il suo dinamismo, il suo impegno nell’azione” (A. BELLO, Cirenei della gioia. Esercizi spirituali predicati a Lourdes, Cinisello Balsamo (Mi) 1994, pag. 55).


Mario Di Puppo

sabato 5 dicembre 2009

Fermento Dicembre 2009


AUGURI, DON VINCENZO!

Se non avessimo il Sacramento dell’Ordine, noi non avremmo Nostro Signore. Chi l’ha messo nel tabernacolo? Il sacerdote. Chi ha ricevuto la vostra anima al suo ingresso a questo mondo? Il sacerdote. Chi la nutre per darle forza di fare il suo pellegrinaggio? Sempre il sacerdote. Chi la preparerà a comparire davanti a Dio, lavando l’anima per la prima volta nel sangue di Gesù Cristo? Il sacerdote, ogni volta il sacerdote. Se l’anima, poi, giunge all’ora del trapasso, chi la farà risorgere, rendendole la calma e la pace? Ancora una volta il sacerdote. Non potete pensare a nessun beneficio di Dio senza incontrare, insieme a questo ricordo, l’immagine del sacerdote”.
Sono pensieri di Giovanni Maria Vianney, meglio noto come il Santo Curato d’Ars, beatificato l‘8 gennaio 1905 e canonizzato il 31 maggio 1925, patrono dei sacerdoti di tutto il mondo. Il 19 giugno 2009, in prossimità della solennità del Sacratissimo Cuore di Gesù – giornata tradizionalmente dedicata alla preghiera per la santificazione del clero – Benedetto XVI indiceva ufficialmente un “Anno Sacerdotale” in occasione del 150° anniversario del “dies natalis” di Giovanni Maria Vianney. “Tale anno – scriveva tra l’altro il Pontefice - vuole contribuire a promuovere l’impegno d’interiore rinnovamento di tutti i sacerdoti per una loro più forte ed incisiva testimonianza evangelica nel mondo di oggi […]. “Il Sacerdozio è l'amore del cuore di Gesù”, soleva dire il Santo Curato d’Ars. Questa toccante espressione ci permette anzitutto di evocare con tenerezza e riconoscenza l’immenso dono che i sacerdoti costituiscono non solo per la Chiesa, ma anche per la stessa umanità”.
Sono premesse indispensabili per formarsi un’idea corretta – non influenzata dalle dicerie e dai pettegolezzi - sulla missione del sacerdote, chiamato ad offrire il Cristo al mondo non di certo per espandere il potere della Chiesa sulle anime, ma per far lievitare l’umanità verso il punto omega, la ricapitolazione di tutte le cose in Dio, nel suo amore che è da sempre ed è per sempre. Il 40° anniversario di sacerdozio di don Vincenzo va visto ed interpretato in questa ottica, nella prospettiva di un servizio esigente reso all’uomo ed alla comunità, affinché tutti abbiano a beneficiare di una parola di conforto, della parola che salva e redime, di un aiuto morale e concreto, di un apporto di fede e di speranza.
Il mio lungo sodalizio con lui e la comunità del SS. Redentore mi ha aperto nuove strade. Grazie alla sua amicizia ho potuto mettere a frutto i miei talenti, quelli che Dio mi ha dato senza alcun merito da parte mia. Anche questo rientra fra i compiti del sacerdote illuminato: servirsi dei battezzati per servire meglio la comunità, comprendendone le inclinazioni, i talenti, i limiti, anzi facendo di questi ultimi i tasselli dell’edificio comunitario. Pensiamoci bene: sono i nostri limiti il confine dove si esauriscono le nostre possibilità e si attivano le possibilità degli altri, che si integrano e completano con le nostre. La comunità cristiana è comunità di forti nella fede, non di onnipotenti nelle faccende del mondo. Su di queste possiamo intervenire senza, molto spesso, potere nulla. Se taluni si servono delle loro comunità per lucrare le indulgenze del mondo ed il favore dei potenti, ebbene, in essi non vi è lo spirito cristiano, vi alligna piuttosto lo spirito del mondo, inteso come tutto ciò che si frappone ai piani d’amore e di gratuità di Dio verso ogni uomo. Per tale ragione Gesù ci mette in guardia dai falsi profeti e dai lupi, da coloro che non si curano del gregge, ed esalta invece la fede del centurione, cioè di un pagano. Paradossalmente nel pagano – potremmo oggi dire in coloro che ci sembrano distanti – c’è lo spirito di Dio, mentre in molti sacerdoti e credenti – dobbiamo dirlo senza peli sulla lingua – fermenta lo spirito del mondo.
Posso dire, senza adulazione alcuna, che con don Vincenzo ho percorso un cammino di crescita spirituale. Lo ringrazio sinceramente per l’amicizia e per quanto ha fatto per me, per questa comunità parrocchiale, con spirito cordiale e mosso dalle migliori intenzioni.
Nella Bibbia il numero 40 ha un forte significato simbolico. Gesù stette nel deserto per 40 giorni alle prese con le tentazioni diaboliche. Per 40 anni gli ebrei vagarono nel deserto. Il numero 40 rappresenta un lungo periodo di tempo, una sorta di crogiuolo temporale e di esperienze, di lotte e di vittorie, di progressi e di sconfitte. Ciò vale anche per don Vincenzo, che ha percorso un lungo tratto di strada e che, come sosteneva il Curato d’Ars, è un dono di Dio.
Gli auguro di raccogliere i frutti del suo disinteressato impegno già qui ed ora, e che lo circondino l’affetto e la stima dei suoi parrocchiani, dei suoi confratelli e superiori. Semplicemente perché se li merita.

Salvatore Bernocco

domenica 29 novembre 2009



Dio non è l’ultimo arrivato. L’ultimo arrivato sei tu, che pure ti rifiuti di aprire la porta del cuore a chi era prima di te e ti ha tessuto nel grembo di tua madre. Non ti sembra un’assurdità, oltre che un gesto di scortesia, chiudere la porta in faccia al tuo parente più intimo?

giovedì 26 novembre 2009

Echi dal Novecento pugliese - Mia recensione

“ECHI DAL NOVECENTO PUGLIESE”

La pittura è una poesia che tace, sosteneva Plutarco. È una definizione della pittura che meglio delle altre nelle quali mi sono imbattuto rende l’idea di una manifestazione dello spirito che assume forme espressive in grado di trasmettere emozioni, sensazioni, travagli e turbamenti.
Non vi leggo nel fondo di essa, come diceva Argan, il pensiero o l’immagine della morte, ma il desiderio insopprimibile di comunicare, attraverso un medium umanamente rispettoso, la volontà di essere e di continuare ad esistere. I dipinti sono come tanti paragrafi di un unico codice, esprimono le prime, le intermedie e le ultime volontà dell’artista, gli itinerari della sua ricerca interiore, o meglio le tappe di essa. Non proprio un testamento, ma appunti di un viaggio il cui senso e valore si colgono appieno soltanto al suo termine, quando si ha la visione d’assieme e la memoria prende il posto dell’attualità, l’assenza si muta in presenza, i dettagli si fanno storia, i profeti trionfano nei luoghi natii.
È storia antica. È antica sorte che, tranne qualche eccezione, la fama e la notorietà fioriscano lontano dalle mura domestiche, dai focolari, dai paesi d’origine, che tuttavia costituirono il serbatoio culturale a cui attingere per la combinazione originale delle forme e dei soggetti, dei colori e delle tonalità. Per questo l'uomo abbandonerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una sola carne, si legge nel Genesi[1]. Dando del passo biblico un’interpretazione non letterale o ortodossa, ma artistica e psicologica, potrei affermare che l’abbandono delle certezze consolidate, l’allontanamento dalla cuna dove si è ninnati dall’autorità (o dall’autoritarismo) della tradizione e dalla condiscendenza incondizionata della tranquillità, per unirsi all’arte (la moglie), fondersi con essa in senso biblico, nutre il proprio talento, lo fortifica, lo sviluppa. L’abbandono della patria, quindi, è inscritto nel tema natale d’ogni artista vero, è il prezzo da pagare alla fama, fermo restando che spesso essa si forma misteriosamente post mortem, che è l’estremo andare, l’estremo abbraccio, la fusione assoluta con l'amor che move il sole e l'altre stelle (Paradiso XXXIII, v.145), non a caso l'ultimo verso del Paradiso e della Divina Commedia di Dante.
Ogni pintore dipigne di sé, rifletteva Cosimo I de’ Medici. È vero: all’interno della corrente impressionista, espressionista o cubista si situa la personale esperienza dell’artista, la sua sensibilità, il suo tocco, che sempre provengono da quei luoghi interiori che riflettono i volti e le cose, la roba ed i luoghi vissuti. Il sistema cede qualcosa di sé all’esperienza particolare e si muta in altro, in una finestra spalancata sull’esistenza. A quel balcone tutti possono affacciarsi per lasciarsi toccare dal sublime, che poi è l’essenza di ogni poesia. Con Echi del Novecento Pugliese – Omaggio a Domenico Cantatore, edito per i tipi della Levante Editori Figli di Mario Cavalli di Bari, si è voluto tributare un doveroso omaggio ad alcuni pittori pugliesi del Novecento quali, per citarne alcuni, Giuseppe Ar e Emanuele Cavalli di Lucera, il foggiano Mario Bucci, i baresi Francesco Colella e Michele De Giosa, il ruvese Francesco Di Terlizzi, accomunati per l’appunto dalla pugliesità (una sorta di meridionalismo pittorico, sebbene il meridionalismo attenga alle questioni politiche ed economiche del Sud), dalla emersione dei paesaggi, dei tratti, delle movenze della nostra terra. Un crescendo di opere, un saggio di tele, con un acuto finale, l’arte di Domenico Cantatore, nato a Ruvo di Puglia nel 1906 da famiglia contadina, vissuto in Italia e all’estero, che Salvatore Quasimodo[2] il 17 ottobre 1965 definì “pittore della tenerezza umana”[3].
I curatori del volume e della mostra che si è tenuta a Ruvo di Puglia nell’ex Convento dei Domenicani (certuni si ostinano ad intitolarlo al Maestro, sperando oltre ogni ragionevole speranza, spes contra spem) dal 26 luglio al 9 agosto 2008, Carmelo Cipriani e Domenico Toto, hanno opportunamente “tirato la volata” forse al più celebre fra i pittori pugliesi del Novecento, il quale conferì alla pugliesità rilievo internazionale. Quasi orografo delle facce, che sembrano scavate nella roccia murgiana, solcate dal tempo e dalle avversità, immobili ed eterne, Cantatore si discostò raramente dalle sue umili origini[4], di cui esaltò, in modo tenue e senza eccessi, talvolta attraverso impennate ed accentuazioni di colori e tonalità, i lineamenti essenziali, la frugalità del vivere, quasi l’ineluttabilità dell’esistere alla mercé del destino, su una terra riarsa dal sole, secondo i ritmi della natura, dentro una religiosità quasi ancestrale intrisa di tremori, croci, processioni, humus primordiali. Senza dimenticare i nostri profumi tipici che, oggi sfruttati esclusivamente per finalità di attrattiva turistica o per scopi commerciali, vanno ben oltre il palato del gourmet, sono beni immateriali, spirituali, perché orme, aromi di tempi ed effluvi di anime di cui, a torto o a ragione, si nutre nostalgia. E rammarico, se non conati di colpa, avendo l’uomo sacrificato al dio del progresso un patrimonio di umanità di cui, di tanto in tanto, quasi con intenti catartici, si tessono gli elogi. È un enigma che sa di male o di suprema stupidità: l’uomo apprezza a posteriori quanto ha contribuito a distruggere.
Cipriani e Toto hanno portato a termine un’operazione di salvataggio o di recupero di uno spicchio di memoria, di un bagaglio culturale che – ammettiamolo candidamente – tendiamo a dimenticare a vantaggio spesso di un’arte (sedicente) che non è in grado di comunicare bellezza, stupore, sogno, poesia. Che non seduce perché distante dai contesti e dai contenuti vitali, prossima più al superfluo ed alle leziosità di certi salotti che all’osso e all’aurea simplicitas. Ar, Bucci, Pastina, Notte, Leandro, Di Terlizzi (vi aggiungerei sommessamente, fra gli altri, Michele Chieco[5]) esaltando l’essenziale ne rivelano il nucleo di bellezza e di bontà (l’ambìto connubio etica-estetica), quindi ciò che sostenta la vita e sviluppa gli anticorpi ideali e culturali contro l’aggressione volgare ed ingiuriosa di questi nostri tempi, sovrabbondanti di bruttezza, ignoranza e miseria morale.
Di operazioni culturali di questo genere, che nascono sotto il segno dell’Arte e senza scopi profani, intellettualmente oneste, ce ne vorrebbero molte, specie nelle nostre contrade sudiste, lontane dai circuiti che contano. Non per gareggiare con essi, ma per segnalare con discrezione e garbo una presenza artistica che, forgiatasi nella penuria di ogni cosa tranne che dell’anima, ha ancora molto da comunicare e da insegnare ai grandi e agli eruditi.
Salvatore Bernocco
[1] Gn 2,24.
[2] Poeta e letterato, premio Nobel per la letteratura nel 1959, nasce a Modica il 20 agosto 1901 e muore a Napoli il 14 giugno 1968.
[3] cfr. C. Cipriani, Domenico Cantatore, “pittore della tenerezza umana”, Centro Stampa litografica, Terlizzi, 2006, per i tipi della Associazione Turistica Pro Loco di Ruvo di Puglia, pag. 13.
[4] “Ogni volta che torno è sempre una scoperta, una gioia di rivedere qualcosa che mi appartiene perché le mie radici sono qui e le emozioni hanno sempre un’importanza notevole nel lavoro di un artista. Ruvo rappresenta il mio mondo e la mia memoria” (a cura di C. Cipriani e D. Toto, Echi dal Novecento Pugliese. Omaggio a Domenico Cantatore, Levante Editori Figli di Mario Cavalli, Bari, 2008, pag. 83).
[5] Nato a Santo Spirito nel 1922 e spirato a Barletta nel 1996, Michele Chieco fu un “artista che ha partecipato a circa centocinquanta mostre a carattere nazionale ed internazionale che gli hanno meritato anche la qualifica di membro onorario della Columbian (USA) e di altri importanti sodalizi accademici italiani […]”. In questi termini si apre l’articolo di Vincenzo Amenduni su Il Rubastino, rivista della Pro Loco di Ruvo di Puglia, del bimestre luglio-agosto 1972 (pagg. 9 e 10), intitolato Il messaggio della pittura di Michele Chieco. In esso il docente e sacerdote ruvese scrive che è “un godimento guardare i suoi quadri dai colori limpidi e sfumati, non solo nelle nature morte, ma anche nei paesaggi pugliesi, in quelle campagne che rivelano uno studio dei movimenti inconsci dell’umana esistenza, con gusto ingenuamente misto “romantico” e di “decadente” quale può evidenziarsi nella esasperazione e nella passionalità di un uomo del sud”.

Ami l'uomo del piacere,
fioca luce o tenebra leggera.
Il mai nato è sua creatura,
e tu stringi al giovane petto
la tua ossessione e la sua colpa,
la vana attesa che un seme scampato alla strage
ti renda madre.
Non c'è miracolo né giorno nuovo
per chi non semina vita,
solo sterili fluidi,
di tanto in tanto,
quando il bisogno urla,
in terra straniera,
dentro un corpo armeno,
un tempio eretto all'amore
nel centro di Bucarest.

mercoledì 25 novembre 2009

Nuova recensione


Una caratteristica delle società avanzate è il loro grado elevato e modello specifico di individualizzazione. L’immagine di sé dell’uomo, prevalente oggi, come ha osservato Norbert Elias, è quella dell’ homo clausus. Nelle nostre società “gli uomini per lo più pensano a se stessi come a esseri indipendenti, a monadi senza finestre, a soggetti isolati, a cui si contrappone il mondo esterno e quindi anche gli altri uomini, e il cui mondo interno è separato da questo mondo esterno come da un muro invisibile”. Questa immagine solipsistica dell’uomo ben si addice a chi, per scelta o perché costretto dalle circostanze della vita, si ritrova a vivere la condizione di “single”. E in effetti anche l’Autore del libro “...


Il secondo testo di Bernocco, edito sempre per i tipi della Libreria del Santo di Padova, intitolato “Sul passo degli ultimi – Lineamenti del pensiero politico del Servo di Dio Mons. Antonio Bello” si conclude con questa frase: “Don Tonino non era un uomo di parte. Egli era dalla parte dell’uomo”. Nel testo l’Autore tratteggia accuratamente quello che era il pensiero politico di don Tonino Bello, il vescovo innamorato della povertà e dei poveri....

Vedi su:









Recensioni di Domenico Campanale...


Recensioni a cura di Domenico Campanale

Una caratteristica delle società avanzate è il loro grado elevato e modello specifico di individualizzazione. L’immagine di sé dell’uomo, prevalente oggi, come ha osservato Norbert Elias, è quella dell’ homo clausus. Nelle nostre società “gli uomini per lo più pensano a se stessi come a esseri indipendenti, a monadi senza finestre, a soggetti isolati, a cui si contrappone il mondo esterno e quindi anche gli altri uomini, e il cui mondo interno è separato da questo mondo esterno come da un muro invisibile”. Questa immagine solipsistica dell’uomo ben si addice a chi, per scelta o perché costretto dalle circostanze della vita, si ritrova a vivere la condizione di “single”. E in effetti anche l’Autore del libro “Lettera ad un single” (edizioni Libreria del Santo di Padova) sembra, in un primo momento, essere d’accordo con quanto afferma Elias. Infatti, nelle battute iniziali, Salvatore Bernocco, nel fare una rapida e attenta analisi dei valori della società in cui egli stesso si ritrova a vivere da single, denuncia quella che potrebbe essere la causa, o una delle cause, che porta alla “singletudine”: “La stessa società ce la mette tutta con i suoi modelli di riferimento ed i suoi mille idoli per colpire al cuore il concetto di famiglia (e di famiglia cristiana) e cancellare dalle mappe della coscienza il trine comunitario, per sovvertire ruoli e comportamenti ed esaltare effimere fisionomie e modalità individuali fortemente autocentrate o autoreferenziali”. Tuttavia, nonostante questa visione pessimistica della realtà, l’Autore si pone nella “schiera di coloro che non spengono il lucignolo fumigante e che non spezzano la canna inclinata”. Quanti si accingeranno alla lettura di questo testo ben comprenderanno il punto di vista di Bernocco che, attraverso una serie di esperienze vissute e l’esempio di grandi uomini (uno per tutti: il servo di Dio don Tonino Bello), evidenzia, con razionalità ma anche con molta naturalezza, che la condizione del single è ben lungi dall’immagine dell’homo clausus e che, nonostante tutto, la felicità non è compromessa. L’importante è che la propria esistenza sia vissuta come apertura all’altro e soprattutto messa a disposizione degli altri. “Chi non vive per servire non serve per vivere” ci ricordava don Tonino Bello. Questo presuppone una nostra capacità di riconoscerci nell’altro, di sentirci a lui uguale pur nella differenza. Bernocco pone l’accento sul fatto che il single per dare senso alla sua vita deve promuovere continuamente una cultura più empatica e partecipativa, tendente non a separare e a dominare, ma a collegare l’uomo all’ambiente, all’altro e ad aiutarlo a convivere e non a contrapporsi a ciò che lo circonda. L’invito è a non isolarsi cercando una libertà e una felicità effimere, ma ad agire sempre e comunque a favore dell’altro la cui transitorietà, indigenza e insicurezza devono indurre ciascuno a mettere a disposizione la propria persona, libero da ogni desiderio di appropriazione. Anche nella “singletudine” è possibile realizzare pienamente se stessi sperimentando sempre di più la condivisione perché ogni uomo, come dice il Vangelo, possa essere custode del proprio fratello.

Il secondo testo di Bernocco, edito sempre per i tipi della Libreria del Santo di Padova, intitolato “Sul passo degli ultimi – Lineamenti del pensiero politico del Servo di Dio Mons. Antonio Bello” si conclude con questa frase: “Don Tonino non era un uomo di parte. Egli era dalla parte dell’uomo”. Nel testo l’Autore tratteggia accuratamente quello che era il pensiero politico di don Tonino Bello, il vescovo innamorato della povertà e dei poveri. Don Tonino, nell’arco della sua breve ma intensa esistenza, ha sempre richiamato i cristiani all’impegno politico, quello vero, quello che si contrappone “a tutte le sopraffazioni dell’uomo”. Purtroppo, come spesso accade, ognuno cerca di tirare l’acqua al proprio mulino, ed ecco che si è confuso quello che egli diceva a proposito della politica con una presa di posizione a favore di questo o di quell’altro partito. A tal proposito è da elogiare il lavoro letterario di Bernocco, perché toglie don Tonino da questa diatriba partitica e lo restituisce al suo vero ambito, che è quello della “liberazione politica”. Infatti nel testo viene evidenziato il coraggio del Vescovo “col grembiule” di schierarsi non a favore di un partito, ma con chi si impegna a rimuovere situazioni di violenza e di ingiustizia. Con chi ha “il coraggio di denunciare profeticamente le gravi forme di sopraffazione presenti nel nostro territorio. Il coraggio di creare continuamente spine nel fianco della buona coscienza pubblica, rivelando con caparbietà i bisogni scoperti e quelli emergenti”. Don Tonino non ha mai perso occasione per scuotere le coscienze di chi preferisce abbandonare le sedi di partito piuttosto che scardinarle e provocarle in termini di pulizia, di onestà e di rettitudine. La sua “preoccupazione politica” è stata quella di promuovere sempre una strategia nuova di coscientizzazione, di educazione alla giustizia e alla carità, di stimolo alla partecipazione, di rottura con la mentalità individualistica che inquadra tutti i problemi sempre nell’ottica degli interessi personali. Questo era e resta il pensiero politico di don Tonino che “parlava di politica, non di partiti”. Che invitava i credenti a compiere una grande transumanza: “dalla carità dossologica, quella interiore, quella religiosa, alla carità politica”. Certo la sua “filosofia politica”, così come la chiama l’Autore, non era limitata solo a denunciare le ingiustizie, ma consisteva soprattutto nell’annunciare in termini propositivi che le cose possono cambiare, nella convinzione che la politica è arte nobile e difficile. Naturalmente il filo conduttore di tutto ciò sono gli ultimi. Il pensiero politico di don Tonino, così come il suo progetto pastorale, è un continuo richiamo ai poveri “dai quali dobbiamo partire per rinnovare la terra”. L’Autore riporta una “questione” che si aprì a Ruvo di Puglia, una delle città della diocesi di Molfetta, che riguardava i marocchini la cui accoglienza “non fu festosa né incondizionata”. “Chiese ai cristiani di occuparsi loro, di prenderli in affido ... di allargare la cinta comunitaria, inserendovi quegli uomini che, al di là di ogni altra considerazione, erano e sono icone della nostra precarietà, simboli del nostro pellegrinaggio, avamposti della nostra transitorietà”. L’invito di don Tonino era quello di “collaborare con le istituzioni pubbliche e con i servizi sociali, di stimolarli alla ricerca e alla tenacia, e di precederli sulla battuta intuendo risposte nuove a bisogni nuovi”. Solo così i poveri finalmente potranno essere liberati. Il vero culto a Dio è il servizio all’uomo: potremmo racchiudere in questa frase il libro di Bernocco, nella consapevolezza che chi ama ha ben compreso che “sull’amore ci si gioca tutto”, come ha dimostrato don Tonino, “servo di Dio perché servo dell’uomo”.


I testi sono in vendita presso la libreria L’Agorà (Corso Cavour, 46 – tel. 0803620943) e l’edicola Rubini (Piazza Matteotti – tel. 0803611242) in Ruvo di Puglia, oppure collegandosi al sito web www.libreriadelsanto.it

domenica 8 novembre 2009


VIZI PRIVATI E PUBBLICHE VIRTU’


Lungi da noi fare del moralismo. La fede va al di là dei moralismi, spesso di facciata, valevoli per gli uni e non per gli altri. Né va dimenticato che bisogna odiare il peccato e mai il peccatore, perché peccatori lo siamo tutti, ognuno di noi ha i suoi scheletri nell’armadio dell’anima. Tutti abbiamo bisogno della misericordia e della grazia del Padre, di essere rigenerati a nuova vita, di convertirci a stili di vita più aderenti a quello evangelico. Quindi niente ipocrisie e perbenismi. L’uomo è fragile e fallibile. Le ultime vicende scandalose che hanno riguardato l’ex presidente della Regione Lazio Marrazzo hanno suscitato scalpore e non pochi commenti salaci. La notizia terrà banco per qualche tempo ancora, nelle more di qualche altro scandalo all’italiana. Ma lo squallore del fatto, dei luoghi, dei personaggi, però, non deve indurci ad ergerci a giudici di persone e situazioni di cui sappiamo poco o nulla, o meglio soltanto quello che viene pubblicato dai giornali o di cui parla la televisione. Spesso queste tristi vicende nascondono retroscena inconfessabili e, forse, battaglie politiche condotte su altri piani. Uno di questi consiste nella demolizione della persona: se non puoi colpirne gli atti pubblici, devi tentare di sferrare il colpo mortale e di metterla fuori gioco pescando nel torbido, nella sua vita privata, anteriore o attuale. Scava e qualcosa di certo troverai, fosse anche un neo o un piccolo vizio. Nel caso Marrazzo c’è questo ed altro. C’è un cocktail di ricatti e di intrecci oscuri, di soffiate e di vizi privati, di gossip e di favori trasversali. C’è soprattutto la verità di un episodio che, al di là di ogni altra considerazione, lascia sconcertato chi ritiene che la politica debba essere fatta da uomini e donne al di sopra di ogni sospetto, moralmente sane ed affidabili, dedite al bene comune piuttosto che al vizio privato. Per chi fa politica il privato costituisce una dimensione molto risicata. L’uomo politico è sempre sotto i riflettori, e le sue vicende personali ne condizionano il giudizio pubblico. È inevitabile ed è giusto che sia così. Uomini come Alcide De Gasperi, come Amintore Fanfani, come Aldo Moro, come Berlinguer, come Almirante e Giorgio La Pira ebbero una condotta privata esemplare. Non erano ricattabili. Non andavano a festini e non si circondavano di donzelle scollacciate in cerca di notorietà. Non sniffavano cocaina e si occupavano seriamente del bene comune, sebbene da posizioni ed orientamenti politici differenti. Mi si dirà che i tempi sono cambiati, che gli uomini non sono più quelli di una volta. È vero, è incontestabile che siano cambiati, ma è anche vero che ci sono uomini e donne che credono in determinati valori umani e cristiani e che si battono per una società più giusta. Guardiamo a costoro, lasciando a chi ha sbagliato la possibilità di redimersi, ma lontano dalla politica.

Salvatore Bernocco
Fermento, Novembre 2009

sabato 7 novembre 2009

Viaggio spirituale (cap.8)


8. Parole conclusive
Dall’abside volgo il mio sguardo verso l’ingresso, e mi sovvengono gli anni trascorsi qui, in questo ventre accogliente ma non ovattato, mai insonorizzato agli echi delle tragedie umane, molte delle quali – forse tutte - trovano la loro origine nell’egoismo che, come rifletteva il poeta Giacomo Leopardi, “è sempre stato la peste della società e quanto è stato maggiore, tanto peggiore è stata la condizione della società”. Don Vincenzo mi chiamò a collaborare con lui più di vent’anni fa al mensile parrocchiale Fermento. Più di vent’anni fa mi chiese di redigere un articolo su Aldo Moro, un uomo ed un cristiano che molte volte sostò a Ruvo e che conobbe una sorte tragica, accettata con rassegnazione alla volontà di Dio, in realtà alla violenza dei suoi carcerieri, perché la volontà di Dio è amore e vita, non odio e morte (forse dovremmo rivedere certe nostre affermazioni e certi luoghi comuni, come anche don Vincenzo sostiene a proposito di alcuni passi dell’atto di dolore: Dio non castiga nessuno, siamo noi che liberamente, quando non aderiamo alla sua volontà di amore, ci castighiamo e ci danniamo). Da allora il mio modesto contributo alla vita parrocchiale non ha conosciuto soste, nella consapevolezza che i talenti vanno messi a disposizione della comunità, che scrivere di Dio e delle cose di Dio - sempre con il tremore dell’iniziato e di chi sa bene che Egli è l’inconoscibile -, è una forma di apostolato, mosso dal desiderio di comunicare l’amore di Dio, il nucleo fondante del messaggio evangelico, sempre con mansuetudine e rispetto per chi semmai è alla ricerca di Dio o non crede. Da don Vincenzo ho attinto il convincimento che occorre difendersi dalle tre “D”: dissipazione, dispersione, disperazione. Perché esse generano una quarta “D”, il dolore, non quello a cui tutti siamo sottoposti a causa della nostra natura umana, fragile e transeunte, ma il dolore dell’anima, la morte dello spirito, il tedium vitae degli antichi, meglio noto come depressione, assenza di stimoli vitali, appassimento della speranza, accidia . Grazie a don Vincenzo ho coltivato la mia passione per la lettura e la scrittura. Gli sono grato anche di questo, per avermi sollecitato a superarmi, a muovermi lungo le direttrici evangeliche, a concentrarmi sull’essenziale, che spesso, come scriveva Antoine de Saint-Exupéry, è invisibile agli occhi, conoscibile soltanto attraverso l’occhio interiore, l’ascolto attento della coscienza, l’adesione alla Verità, una verità che giudica per liberare, non per condannare. Questa è l’immagine serena di Dio che don Vincenzo ha contribuito a trasmettermi. A lui quindi dedico questo mio modesto lavoro nella felice circostanza del suo XXV anniversario di sacerdozio, di servizio alla Chiesa cattolica. A lui che ha arricchito la chiesa del SS. Redentore di nuove opere pregevoli, con gusto e competenza, senza mai tralasciare di custodire, con amore e dedizione, quanto gli pervenne in eredità dai suoi predecessori, in particolare da mons. Michele Montaruli. A lui, che ama la Tradizione e il Concilio Vaticano II, ben sapendo che a nulla vale innovare se non ci si radica nella sostanza del vero culto che si deve a Dio, fatto non tanto di riti quanto di cordiale apertura al mondo e di amore verso il prossimo e se stessi. A lui, in occasione del suo 40° anniversario din sacerdocio, tutta la mia stima ed amicizia, con il sincero augurio di sempre maggiori traguardi umani e spirituali.

domenica 1 novembre 2009

Viaggio spirituale (cap.7)


7. L’area absidale: uno sfolgorio di luci e di senso
Giungo infine nei pressi dell’altare che fu consacrato dal Servo di Dio Mons. Antonio Bello. Un Angelo stilizzato, di gran pregio, lo sorregge, mentre i tre gradini che portano ad esso sono mosaicati. È una sorta di motivo introduttivo, di accenno al maestoso mosaico del Cristo Redentore, posto al centro della scena, di sfolgorante bellezza, composto di 750.000 tessere. Ai suoi lati compaiono altri due mosaici che ritraggono creature angeliche, tre in entrambe le opere. Prima dei mosaici, due imponenti dipinti di Gaetano Valerio. Quello a destra ritrae la torma dei santi che procede verso la Luce, con in testa la Vergine Maria, S. Giovanni, i santi Cleto e Biagio, S. Pietro clavifero. S. Giacomo vi compare in ginocchio, mentre – con sorprendente preveggenza – vi è ritratto anche mons. Bello in atteggiamento umile ed affabile. È il primo dipinto in cui il Servo di Dio appare e viene offerto alla devozione popolare. Splendida intuizione di don Vincenzo Pellegrini, che si mosse in sintonia con il giudizio dei fedeli, presagendo la santità di un vescovo che nella nostra Diocesi inaugurò uno stile nuovo di essere al servizio della gente, molto lontano dallo stereotipo del vescovo burocrate e freddo amministratore delle cose sacre. Fa da sfondo la Cattedrale di Ruvo, ed è visibile una fisionomia, flebile e quasi diafana, che richiama la genitrice di don Vincenzo, un doveroso omaggio dell’artista al parroco e ad una pia donna. La ricordo seduta ai primi banchi della fila di destra, orante, con lo sguardo fisso sul figlio celebrante, un cuore di madre che prega e sospira per suo figlio, un’immagine esemplare dell’amore di Dio per l’uomo. È un ricordo che ancora oggi mi emoziona, riportandomi ad altre figure a me care, quelle dei miei nonni e zii, persone che irradiavano bontà e semplicità, autentici maestri di vita. Si avverte la mancanza di persone così, creatrici di ricchezza spirituale, di senso. Le vere miserie sono quelle prodotte dalle lacune di senso; i prosciugatori di senso sono tutti coloro che seminano pessimismo, tenebre, male. Il dipinto a sinistra, invece, si ispira alla risurrezione di Lazzaro. Le due tele si richiamano a vicenda, entrambe suscitano l’ottimismo della fede, la speranza nella resurrezione. Incitano ad inaugurare un nuovo modo di essere e di vivere: essere figli della Luce significa essere partoriti una seconda volta dalla Parola di Dio, rinascere ad una vita nuova secondo lo Spirito, che è Amore. Si è già partecipi della schiera esultante dei santi se si vive secondo la legge dell’amore-carità, che è vita eterna, sublimemente riassunta nell’espressione, molto cara a don Vincenzo, “i vivi non muoiono ed i morti non risorgono” del teologo Alberto Maggi. Di pregnante significato, essa vuol dire che chi ama vive per sempre, non muore mai, mentre chi non ama è già morto anche se respira ancora. Ricorrente, sebbene sia sottinteso, è il motivo della Luce, sottolineato anche dai colori caldi e luminosi utilizzati dall’artista. Essi dominano anche nel mosaico[1] del Cristo Redentore: è una fantasmagoria di luci e colori che suscita fiducia e disperde le ombre del cuore. Il Cristo poggia sull’orbe terraqueo, è Ostia, è Calice, in un’apoteosi dell’offerta di sé. L’interno richiama l’esterno, il Cristo dell’abside evoca il Cristo del 1954, che domina la città col suo messaggio di pace e di amore.
________________________________________________________________
[1] L’etimo è incerto. Secondo alcuni deriva dal greco µουσαικόν (musaikòn), “opera paziente degna delle Muse”; in latino veniva chiamato opus musivum, cioè “opera delle Muse” oppure “rivestimento applicato alle grotte dedicate alle Muse stesse”. Il richiamo alle Muse è dovuto all'usanza degli antichi romani di costruire, nei giardini delle ville, grotte e anfratti dedicati alle Ninfe (ninpheum) o Muse (musaeum), decorandone le pareti con sassi e conchiglie. Quindi musaeum o musivum indica la grotta e opus musaeum o opus musivum indica il tipo di decorazione murale. In seguito si affermò l'uso dell'aggettivo musaicus ad indicare l'opera musiva. Potrebbe derivare anche dall'arabo muzauwaq, che significa "decorazione". C'è chi, invece, vi ha visto la radice di un vocabolo semita, soprattutto quando la parola viene usata come aggettivo, che potrebbe legarsi al termine "Mosè", quindi "pertinente a Mosè". Sono state indicate anche altre locuzioni, quali musium che significa esprimere qualcosa con diversi colori, oppure museos nel senso di elegante. Le ipotesi però sono molte e nessuna sembra avere titoli sufficienti per prevalere sulle altre. Le tessere erano chiamate in greco ἀβακίσκοι (abakìskoi), quadrelli (da ἄβαξ (àbax), tavoletta), mentre in latino abaculi, tesserae, tessellae.

venerdì 30 ottobre 2009

La Dolce Vita - Sweet Life (English version)


Su spartito di vita dolce

amore era in ogni nota

senza uso di ragione

per il solo piacere di cantare.



On the score of sweet life

love was in every note

without reason

for the pleasure of singing.

mercoledì 28 ottobre 2009

Viaggio spirituale (cap.6)


6.Le statue dell’Immacolata e di S. Giuseppe
Procedendo verso l’artistico altare realizzato nel 1992 da Vito Zaza, troviamo sulla sinistra la bella statua dell’Immacolata, che si attribuisce ad Achille De Lucrezi. Realizzata nel 1904, fu donata da Francesco Girasoli. L’icona sorprende per la gentilezza dei tratti della Vergine, della quale si esalta il dogma della sua immacolatezza, sancito da Pio IX con la bolla Ineffabilis Deus del 1854. “La Madonna è l’Immacolata Concezione – scrive mons. Mennonna nel suo Piccolo Glossario del Cristianesimo – perché concepita immune dal peccato originale o macchia originale per singolare privilegio divino […] confermato dalla stessa Vergine SS. nelle apparizioni a S. Bernadetta Soubirou (25 marzo 1858)”. La Vergine, Madre di Dio e madre nostra, è stata cantata da poeti e scrittori. Di straordinaria potenza evocativa, mistica direi, è la Vergine del Sommo Poeta. Nel Canto XXXI del Paradiso, S. Bernardo invita Dante a guardare verso la schiera dei beati, disposti a forma di candida rosa, dove nel punto più alto c’è Maria, grazie alla quale egli potrà sostenere la visione di Dio. La straordinaria ed impareggiabile bellezza della Vergine emerge dai versi del Poeta: “Vidi a lor giochi quivi e a lor canti/ridere una bellezza, che letizia/era ne li occhi a tutti li altri Santi;/e s’io avessi in dir tanta dovizia/quanta ad immaginar, non ardirei/lo minimo tentar di sua delizia[1]”. Una visione che è l’incanto e la gioia dei santi, e che nessuna parola umana, per quanto ricca e capace di volute immaginifiche, può minimamente descrivere. In controluce compaiono le parole di Paolo, che scrive alla comunità di Corinto, citando Isaia: “Sta scritto infatti: Quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono in cuore di uomo, queste ha preparato Dio per coloro che lo amano[2]”. L’uomo che vive secondo lo Spirito è in grado di esprimere “cose spirituali in termini spirituali”, come ancora si esprime l’Apostolo. Dante è uno di costoro, dà voce ad un anelito profondo presente nell’animo umano di bellezza infinita, di gioia senza fine, quindi di Dio. L’Immacolata è segno dell’infinita bellezza di Dio che fa nuove tutte le cose in Cristo. L’uomo naturale – sono sempre insegnamenti di Paolo – non è in grado di comprendere le cose dello Spirito di Dio perché non ha “il pensiero di Cristo”. È quindi necessario vigilare affinché l’uomo cosiddetto naturale, che cioè vive la dimensione esclusivamente materiale senza curarsi di farla fermentare, di farla lievitare per portarla al suo massimo significato e senso, non prenda il sopravvento sull’uomo che vive secondo il piano di Dio, secondo il suo Spirito, che non imbriglia ma libera, e liberando porta a compimento ogni cosa. Qui non si tratta di postulare una sorta di fuga dalla realtà di ogni giorno o di dimenticare la materia, ma di viverla e di usarne secondo i valori e la misura suggeriti dall’amore in cui è lo Spirito di Dio. Maria fu creatura spirituale in sommo grado perché fu capace di amare secondo quello Spirito. L’icona donata dal Girasoli, e alla quale la comunità ruvese è molto legata, immette in questo circuito virtuoso di pensieri ed aneliti, regala di questi inebriamenti, dona la speranza del Paradiso.
La statua di S. Giuseppe (1907), opera di Giuseppe Manzo, schiude altri scenari spirituali ricchi di implicazioni ed insegnamenti. Nulla quaestio sulla purezza di Giuseppe, che tuttavia talvolta viene relegato in un angolo, come se fosse un santo di serie inferiore, persino inferiore per importanza alla sua sposa, Maria. Il centenario dell’icona è stato particolarmente significativo grazie alla presenza ed alla parola di uno dei massimi esperti cattolici del padre putativo di Gesù, Padre Tarcisio Stramare osj, che ho avuto modo di incontrare e di intervistare, il quale mi strappò un sorriso quando disse che se “sulla Madonna ci sono quattro dogmi, tutti contestati, su S. Giuseppe ce ne sono due, sicurissimi: su S. Giuseppe c’è poco da sapere; quel poco da sapere io già lo so, e quindi il discorso è chiuso”. In realtà S. Giuseppe, scelto da S. Teresa D’Avila quale patrono della vita interiore, andrebbe rivalutato quanto meno per i suoi corposi silenzi, senza i quali non può esserci vita spirituale, non si è più in contatto con la propria sfera intima, si è disarmonici ed inconcludenti. L’uomo veramente attivo e paziente conosce bene la pratica del silenzio interiore. L’uomo che ama ne fa esperienza, poiché non vi può essere amore vero se di esso si fa propaganda o lo si dà in pasto all’agorà. La stessa carità ha valore presso Dio se è discreta e silenziosa, come pure la preghiera, che necessita del romitorio interiore, di uno spazio libero sia dagli impegni che dall’incessante mormorio del mondo, non vacante ma popolato di presenze altre. Le anime contemplative sono maestre di silenzio, che potrei definire come la culla delle parole, il logos dove ogni parola trova il suo senso autentico, non artefatto o impoverito, il suo conforto e sapore. Se Carmelo Bene disse che il silenzio “è un tempo musicale”, Boris Pasternak, l’autore del Dottor Zivago, andò oltre, definendolo la cosa più bella che avesse mai udito. Ma S. Giuseppe ci parla anche di paternità responsabile, della figura del pater familias cristiano, di quest’uomo che in famiglia giganteggia senza mai opprimere, educa con autorità, dialoga senza mai imporre, orienta con amore e saggezza. Un padre autorevole concepisce figli che non si perderanno d’animo e sapranno affrontare le prove della vita con coraggio; un padre non autorevole, in cui è assente un tratto di virilità, che non attiene assolutamente alla sfera sessuale ma alla personalità del soggetto, darà alla luce una discendenza con una personalità fragile e per molti versi autoritaria. L’autoritarismo, a cui si accompagna spesso la violenza verbale o fisica, è una reazione psicologica caduca e spropositata alla mancanza del sentimento della forza interiore che non fu esplicitamente trasmesso dal padre al figlio o percepito da questi attraverso l’esame delle azioni paterne. In questo senso possiamo affermare che la qualità della discendenza risale a trent’anni prima della nascita della prole, per cui potremmo dire “dimmi come fu educato tuo padre, e ti dirò chi sei e come sarà la tua discendenza”. Tra genitorialità e paternità vi è una grande differenza, e di essa apprendiamo da S. Giuseppe. Se il genitore genera, assolvendo una funzione biologica, materiale, il padre assolve una missione spirituale, consistente non solo nel trasmettere il dono della vita, ma nell’arricchirla di continuo nell’ordine morale, culturale, spirituale. Ciò equivale a dire che la missione di un padre autentico dura tutta la vita perché la missione educativa, propria ed altrui, dura tutta la vita. Da questa prospettiva, S. Giuseppe non fu genitore del Cristo, ma svolse le veci del Padre celeste, quindi rivestì un ruolo ben più importante di quello di chi genera e semmai dimentica di essere padre, cioè un educatore, una persona che contribuisce a creare l’uomo elevandolo nell’ordine spirituale.

_________________________________________________________________

[1] D. Alighieri, La Divina Commedia, Paradiso, Canto XXXI, vv. 134-138.
[2] 1 Cor 2,9

lunedì 26 ottobre 2009

Viaggio spirituale (cap.5)

5. Il santo eptagono
Proseguendo nel cammino, con un solo colpo d’occhio abbraccio sette immagini sante e significative, in grado di parlare alla mente ed al cuore degli uomini d’oggi. Tracciamone un succinto ritratto, utile ai fini di una proficua meditazione, tenendo presente che esse comunque si inseriscono mirabilmente in una sorta di economia della grazia, di progetto della salvezza, nella vicenda spirituale degli uomini e delle donne del SS. Redentore. Emergeranno collegamenti ed ispirazioni, intrecci antichi e nuovi, ed una inaspettata modernità del messaggio evangelico trasmessoci dai santi, autentici amici dell’uomo.
Antonio da Padova, alias Fernando di Buglione, discendente del crociato Goffredo di Buglione, nasce a Lisbona il 15 agosto 1195. A quindici anni entra nel monastero di San Vincenzo a Lisbona, poi si trasferisce in quello di Santa Croce di Coimbra, sotto l’egida dell’ordine agostiniano. Studia scienze e teologia e riceve l’ordinazione sacerdotale nel 1219, all’età di 24 anni. Lascia l’ordine agostiniano perché non gradisce i maneggi politici fra i canonici agostiniani e Alfonso II. Abbraccia il francescanesimo, aspirando ad una vita religiosamente più severa. Predicatore eccezionale, teologo, combatte l’eresia catara in Italia e quella albigese in Francia, dove giunge nel 1225 (è chiamato anche il “martello degli eretici”). A Padova in due mesi scrive i Sermoni domenicali e ottiene la riforma del Codice statutario repubblicano, per cui un debitore insolvente e non colpevole, dopo aver ceduto tutti i suoi beni, non può essere anche incarcerato. Tiene testa ad Ezzelino da Romano, soprannominato il Feroce, che in un solo giorno fece uccidere undicimila padovani che gli erano ostili. Antonio chiede la liberazione dei capi guelfi incarcerati. Scrive poi i Sermoni per le feste dei santi. I suoi temi preferiti sono i precetti della fede, della morale e della virtù, l’amore di Dio e la pietà verso i poveri, la preghiera e l’umiltà, la mortificazione. Si scaglia contro l’orgoglio e la lussuria, l’avarizia e l’usura, di cui è acerrimo nemico. È convinto assertore dell’assunzione della Vergine. Papa Gregorio IX lo definisce “arca del Testamento”. Spira a Padova il 13 giugno 1231. Si racconta – è un particolare che mi ha colpito – che nella città di Padova al momento della sua morte frotte di fanciulli presero a correre e a gridare che il Santo era morto. La statua custodita nella nostra chiesa lo ritrae con in mano un giglio, simbolo di purezza, e col Bambino Gesù in braccio. La sua attualità è plurale, non può limitarsi alla considerazione di un solo aspetto, sebbene emerga prepotentemente la sua formazione teologica e spirituale, da cui sgorga come un fiume in piena una parola potente ed efficace. Il potere della parola in Antonio si radica tutto nella sua incrollabile fede nel Signore, che lo visita visibilmente. Quanto peso si dia oggi alle parole è evidente. Come ha affermato lo scrittore Mario Rigoni Stern, “oggi c’è troppo rumore, perdiamo il senso delle parole, la loro forza terapeutica”[1]. La scissione fra parola e contenuti si è realizzata di pari passo con il progredire della cultura consumistica, che tende a contrarre i tempi, le sensazioni, la comunicazione, non di certo per ragioni di sintesi, ma perché in quel modo paradossalmente si dilatano i tempi di un certo tipo di comunicazione, quella tecnologica imposta dall’uso abnorme dei cellulari, ad esempio, per mere ragioni di profitto economico. Gli short messages si moltiplicano, si usa certa simbologia al posto delle lettere alfabetiche, la parola si rarefa, i contenuti sono pressoché assenti. Si viaggia per impressioni, si amplifica la sfera emotiva a scapito di quella razionale. La stessa cosa accade con Internet, nelle chat lines, luoghi virtuali dove incontri migliaia di persone, anche interessanti, ma che spesso comunicano per frasi fatte e stereotipi, in modo molto rapido, raramente svelando qualcosa di interessante circa se stessi. Sono dialoghi virtuali, condotti sulla scorta semmai di qualche fotografia che rende l’idea del tipo umano con cui sei in contatto. Emergono vite che non comunicano da essenza ad essenza, che usano la parola come veicolo di sensazioni o di sentimenti flebili e assai volatili; sembrano vite in fotocopia, allevate in qualche pollaio ultratecnologico.
La comunicazione profonda è latitante. È come se si avesse timore di svelarsi, e svelandosi di essere feriti o intercettati nella proprio vuoto esistenziale, il che attesta per l’appunto la preminenza della sfera emozionale su quella razionale e dei significati vitali. Il punto è che manca il Senso, e mancando il Senso manca pure la Direzione, per cui si viaggia a lume di naso, affidandosi alle sensazioni del momento, senza un preciso progetto di vita o solo un orientamento significativo, condizionante e stimolante. La parola è un’altra cosa, e Antonio ne è artefice e testimone. La parola vera salva, pone le basi del futuro, comunica speranza e verità, mette in luce l’essenza. Non meri vocaboli messi assieme perché ne risulti un suono o un’eco, ma un veicolo di vita, un trasmettitore di anima, di quella verità che era prima dell’uomo e che può accompagnarlo nella piena realizzazione di sé. La parola poi è anche fedele all’uomo, non è un mezzo per imbonire o sedurre, e tale fedeltà si manifesta nella sua nettezza, che è tranciante: “Sia invece il vostro parlare sì, sì; no, no; il di più viene dal maligno” (Mt 5, 37). La stessa preghiera, che è l’incontro dell’essere con Dio, non ammette nell’ottica cristiana lo sciupio di parole: “Pregando poi, non sprecate parole come i pagani, i quali credono di venire ascoltati a forza di parole” (Mt 6, 7). L’esubero di parole è difatti atteggiamento contrario alla fiducia nella provvidenza di Dio, che sa di cosa abbiamo bisogno prima ancora che glielo chiediamo (cfr Mt 6,8). L’effimero ed i suoi molteplici corollari appaiono così ampi ed agevoli, facili e leggeri, mentre in realtà producono povertà e miseria morale e spirituale, fardelli pesanti, difficili da portare. Gli spazi apparentemente ampi si rivelano in realtà assai angusti. Trovano così puntuale conferma le parole del Signore: “Prendete il mio giogo sopra di voi […]. Il mio giogo infatti è dolce e il mio carico leggero” (Mt 11, 29); “Entrate per la porta stretta, perché larga è la porta e spaziosa la via che conduce alla perdizione […]; quanto stretta invece è la porta e angusta la via che conduce alla vita […]” (Mt 7, 13-14). Non siamo alla esaltazione della sofferenza e del dolore come via catartica, ma al cospetto di inviti a seguire un percorso di purificazione interiore e di disintossicazione dagli idoli, di affermazioni sulla bontà per l’uomo della “porta stretta” e della “via angusta”, che poi in realtà è quella più agevole da percorrere, piena di pace e di intime soddisfazioni, apportatrice di libertà interiore. Possiamo così senz’altro sottoscrivere anche noi, come fece il professor Giovanni Modugno di Bitonto, morto in concetto di santità, questo profondo pensiero di Alessandro Manzoni, espresso nelle sue Osservazioni sulla morale cattolica: “le filosofie puramente umane, richiedendo molto meno, sono molto più esigenti”, mentre “la religione, chiedendo all’uomo cose più perfette, chiede cose più facili, vuole ch’egli arrivi ad una grande altezza, ma gli ha fatto la scala, ma l’ha condotto per mano: le filosofie umane, accontentandosi ch’egli tocchi un punto assai meno elevato, pretendono spesso di più, pretendono un salto, che non è nella forza dell’uomo”[2].
Altra tematica di stretta attualità che la vita e le opere di Sant’Antonio ci suggeriscono è quella della lotta all’usura, per tacere dell’avversione alla commistione fra il sacro ed il profano, fra il potere politico e le realtà spirituali. L’usura ha ucciso molte vite umane, distrutto famiglie, depresso intere economie. È uno dei peccati più gravi che possano commettersi. Mi sovviene ancora una volta Dante che nella Divina Commedia dedica agli usurai alcuni versi. Siamo nel XVII canto dell’Inferno; mentre Virgilio parlamenta con Gerione, il mostruoso re di Spagna che nutriva i suoi tori con carne umana, Dante raggiunge il gruppo degli usurai, l’ultimo delle schiere di anime violente: “Per li occhi fora scoppiava lor duolo;/di qua, di là soccorrien con le mani;/quando a’ vapori, e quando al caldo suolo:/non altrimenti fan di state i cani/or col ceffo or col pié, quando son morsi/o da pulci o da mosche o da tafani” (vv. 46-51). Gli usurai sono trasformati da Dante, in segno di grande disprezzo, in cani tormentati da pulci, mosche e tafani. Essi commisero violenza contro l’arte, cioè contro l’onesto lavoro altrui, che sfruttarono da parassiti. Né arte né ingegno, ma denaro accumulato alle spalle degli altri. Nel canto XI Dante nutre un dubbio, e domanda alla sua guida perché l’usura sia violenza contro Dio. Virgilio gli risponde che ogni uomo trae i suoi mezzi di sostentamento dalla natura e dall’arte, e Dio prescrive il lavoro come legge fondamentale. L’usuraio, non lavorando ma sfruttando il lavoro altrui, offende l’arte e quindi Dio.
Il lavoro onesto e competente è sempre svolto in funzione del bene e del progresso della comunità, non soltanto di se stessi. In questo senso partecipa dell’opera creativa di Dio. L’usura non crea, distrugge; chi la pratica va contro l’amore del suo simile e, secondo la Scrittura, alla fine dei conti neppure ne trae vantaggio: “Chi accresce il patrimonio con l’usura e l’interesse, lo accumula per chi ha pietà dei poveri” (Pv 28,8). Al di là di ogni altra considerazione, forse superflua, l’unico debito legittimo per il cristiano è quello indicato dall’apostolo Paolo, “un amore vicendevole; perché chi ama il suo simile ha adempiuto la legge” (Rm 13, 8). E ancora: “L’amore non fa nessun male al prossimo: pieno compimento della legge è l’amore” (Rm 13, 10). Paolo rimarca quindi che l’amore è tutto, e non v’è nulla al di fuori di esso che possa salvare l’uomo. Poiché la fede senza le opere è vana, e giacché le opere senza l’amore sono niente, la fede senza l’amore non conduce da nessuna parte, è menzognera. Questo perché Dio stesso, che è continuamente all’opera, è amore, ed ogni sua azione o pensiero è intriso d’amore per le sue creature, assurte alla dignità di figli per mezzo del supremo sacrificio d’amore del Cristo. D’altra parte non è superfluo osservare che storicamente il primo esplicito divieto dell’usura si trova proprio nella Bibbia, nel libro dell’Esodo: “Se tu presti denaro a qualcuno del mio popolo, all’indigente che sta con te, non ti comporterai con lui da usuraio: voi non dovete imporgli alcun interesse” (22, 24). Altri passi contro tale pratica si rinvengono nel Levitico e nel Deuteronomio[3]. Né va probabilmente sottaciuta una pratica immorale ricollegabile in qualche modo all’usura: nei riguardi dei torti ricevuti non ci comportiamo forse da usurai nel momento in cui pretendiamo gesti, atti, azioni che vanno ben oltre il perdono? Ogni qualvolta non perdoniamo il fratello che sbaglia ci comportiamo da usurai, imponiamo risarcimenti ed interessi morali altissimi.
Ed eccomi alla statua di Maria Goretti, splendida creatura, figura femminile eccezionale, canonizzata il 24 giugno 1950 da Pio XII, poco prima della proclamazione del dogma dell’Assunzione di Maria. In questa comunità parrocchiale fiorì presto una grande devozione a lei, martire del vero amore, spirata all’età di dodici anni per essersi rifiutata di sottostare alle voglie di un giovane, Alessandro Serenelli (1882 – 1970), che lei perdonò sul letto di morte. Alessandro, dopo aver scontato la pesante pena, respinto dai suoi familiari, lavorò come ortolano dai Padri Cappuccini di Ascoli Piceno, coi quali rimase fino al 1956. Non più abile al lavoro, fu ospitato dai frati nella loro casa di riposo di Macerata, dove morì il 6 maggio 1970. Trascorse gli ultimi anni in grande raccoglimento, pregando ed accostandosi ai sacramenti con grande fervore. Ciò che colpisce, accanto alla purezza di Maria, è la rinascita alla vita di fede del suo omicida, che nel 1961 dettò il suo testamento, che vale la pena di riportare integralmente: "Sono vecchio di quasi 80 anni, prossimo a chiudere la mia giornata. Dando uno sguardo al passato, riconosco che nella mia giovinezza infilai una strada falsa: la via del male, che mi condusse alla rovina. Vedevo, attraverso la stampa, gli spettacoli e i cattivi esempi, che la maggior parte dei giovani seguiva quella via senza darsi pensiero ed io pure non me ne preoccupai. Persone credenti e praticanti le avevo vicino a me, ma non ci badavo, accecato da una forza bruta, che mi sospingeva per una strada cattiva. Consumai a vent'anni il delitto passionale, del quale oggi inorridisco al solo ricordo. Maria Goretti, ora Santa, fu l'angelo buono che la Provvidenza aveva messo avanti ai miei passi. Ho impresse ancora nel cuore le sue parole di rimprovero e di perdono. Pregò per me, intercedette per me, suo uccisore. Seguirono trenta anni di prigione. Se non fossi stato minorenne, sarei stato condannato a vita. Accettai la sentenza meritata; rassegnato espiai la colpa. Maria fu veramente la mia luce, la mia protettrice. Col suo aiuto mi diportai bene e cercai di vivere onestamente, quando la società mi riaccettò tra i suoi membri. I Figli di San Francesco, i Minori Cappuccini delle Marche, con carità serafica mi hanno accolto fra loro non come servo, ma come fratello. Con loro convivo dal 1936. Ed ora aspetto sereno il momento di essere ammesso alla visione di Dio, di riabbracciare i miei cari, di essere vicino al mio Angelo protettore e alla sua cara mamma Assunta. Coloro che leggeranno questa mia lettera vogliano trarre il felice insegnamento di fuggire il male, di seguire il bene sempre, fin da fanciulli. Pensino che la religione con i suoi precetti non è una cosa di cui si può fare a meno, ma è il vero conforto, l'unica via sicura in tutte le circostanze, anche le più dolorose della vita. Pace e bene!".
Una lettera densa di insegnamenti morali che ci induce a riflettere anche sulla portata di certi nostri giudizi, che suonano inappellabili con chi sbaglia, carenti di misericordia. Mentre mi soffermo sull’icona di Maria Goretti, memore della mia visita al Santuario di Nettuno dove il suo corpo è custodito dai Padri Passionisti, mi tornano alla mente alcune parole che Giovanni Paolo II inviò a mons. Agostino Vallini, vescovo di Albano, in occasione del centenario della morte della Santa (6 luglio 2002): “Quale fulgido esempio per la gioventù! La mentalità disimpegnata, che pervade non poca parte della società e della cultura del nostro tempo, fatica talora a comprendere la bellezza e il valore della castità. Dal comportamento di questa giovane Santa emerge una percezione alta e nobile della propria e dell'altrui dignità, che si riverberava nelle scelte quotidiane conferendo loro pienezza di senso umano. Non v'è forse in ciò una lezione di grande attualità? Di fronte a una cultura che sopravvaluta la fisicità nei rapporti tra uomo e donna, la Chiesa continua a difendere e a promuovere il valore della sessualità come fattore che investe ogni aspetto della persona e che deve quindi essere vissuto in un atteggiamento interiore di libertà e di reciproco rispetto, alla luce dell'originario disegno di Dio. In tale prospettiva, la persona si scopre destinataria di un dono e chiamata a farsi, a sua volta, dono per l'altro”. Lo stesso Enrico Berlinguer avrebbe indicato Maria Goretti quale esempio da seguire alle giovani ed alle donne comuniste.
Castità, perdono, misericordia, ravvedimento. Sono i quattro pilastri spirituali di una ideale costruzione etica suggeritaci dalla vicenda umana e religiosa di Maria Goretti[4] e di Alessandro Serenelli.
Mentre di San Giovanni Bosco[5] ricordiamo quale tratto saliente, sebbene non esaustivo, il trittico ragione, religione e amorevolezza, posto a fondamento del suo famoso sistema educativo, e, anche in lui, una sorta di distacco dalla politica[6], di Francesco da Paola, eremita e fondatore dell’Ordine dei Minimi, ricordiamo l’amore per gli infermi ed i poveri. Fu canonizzato nel 1519 a soli dodici anni dalla morte, durante il pontificato di Papa Leone X. Ma in questa comunità parrocchiale agisce anche lo spirito di S. Vincenzo de’ Paoli, il cui amore verso i poveri lo rese celebre al punto che Luigi XIII di Francia lo volle come suo consigliere. Chiamato nel 1643 dalla reggente Anna d’Austria a far parte del Consiglio della Coscienza o Congregazione degli Affari Ecclesiastici, ebbe aspri scontri col suo presidente, il potente cardinale Giulio Mazzarino, il quale faceva scelte opportunistiche in materia di scelta dei vescovi e di rilascio di benefici ecclesiastici. Nel 1649 chiese alla regina di allontanare Mazzarino, ma la sua richiesta non fu accolta, e quindi cadde in disgrazia. La reggente gli conferì tuttavia l’incarico di Ministro della Carità, per organizzare su scala nazionale gli aiuti ai poveri. Grande amico di San Francesco di Sales, elaborò una nuova dottrina spirituale, per cui le virtù dello spirito vincenziano sono date dalle cosiddette “cinque pietre di Davide”: semplicità, umiltà, mansuetudine, mortificazione e zelo per la salvezza delle anime. Francesco di Sales, che si preoccupò di sviluppare una predicazione e un modello di vita cristiana che fosse approcciabile anche dalla gente comune, è quindi una figura che idealmente collega Vincenzo de’ Paoli a Don Bosco, il quale nel 1854 diede inizio alla Società Salesiana, con cui assicurò stabilità alle sue opere e continuità al suo spirito. Il Volontariato Vincenziano, che nacque a Ruvo nel 1899 per volontà del vescovo mons. Pasquale Berardi[7], opera dal finire del 1990 in parrocchia con un centro di ascolto che ha seguito molti casi, adoperandosi concretamente per la loro soluzione o per il loro lenimento. Un’attività benemerita che ha trovato e trova in don Vincenzo un attento e sensibile interlocutore, anzi un incalzante promotore.
Infine, il gruppo statuario della Madonna del Rosario di Pompei, realizzato da Carmelo Bruno nel 1937. La Vergine, assisa in trono con il Bambino in braccio, porge la corona del rosario a S. Caterina da Siena, mentre Gesù la dà a S. Domenico di Guzmàn, inginocchiati ai lati del trono (in altri gruppi statuari è raffigurata S. Rosa da Lima invece di S. Caterina). Il culto del rosario è molto antico, risale al XIII secolo, quando fu propagato dai Domenicani. Ebbe una immediata diffusione perché consentiva di pregare facilmente e nello stesso tempo di meditare i misteri cristiani senza la necessità di leggere un testo, cosa che riusciva ostica a molti, in specie alla povera gente, totalmente priva di istruzione. Per tale ragione il rosario fu chiamato il “vangelo dei poveri”. Il suo culto si diffuse dopo le apparizioni di Lourdes del 1858, ed in Italia a Pompei grazie all’avvocato Bartolo Longo, pugliese di nascita[8], beatificato da Giovanni Paolo II il 26 ottobre 1980. Preghiera potentissima, ad essa si riferì San Pio da Pietrelcina, presentandola addirittura quale suo testamento spirituale ed eredità: “Questo è il mio testamento e la mia eredità: amate e fate amare la Madonna, recitate e fate recitare il Rosario”. Domenico di Guzmàn attuò una straordinaria sintesi fra vita contemplativa e apostolica. Combatte l’eresia catara e fonda l’Ordine dei Predicatori, le cui comunità si ispirano alla prima comunità di Gerusalemme, con una vita fondata sulla comunione fraterna, sulla preghiera e lo studio. Vuole che i frati si dedichino allo studio per essere più capaci di “parlare con Dio nella preghiera e a parlare di Dio nella predicazione”. Una vita monastica, quindi, ma aperta alla missione della predicazione per la conversione, in cui grande importanza ha lo studio della teologia. Spira a Bologna il 6 agosto 1221. Al Prado di Madrid è custodito il quadro che Tomàs de Torquemada commissionò al pittore Pedro Berruguete, intitolato “Autodafé presieduto da San Domenico di Guzmàn” (ca 1495). L’autodafé[9] (o sermo generalis) era una cerimonia pubblica in cui veniva eseguita la penitenza o la condanna comminata dalla Inquisizione. È una rappresentazione che ha nuociuto non poco alla figura di S. Domenico, poiché gli si attribuisce un ruolo che non gli appartenne[10]. Difatti egli morì dodici anni prima che Gregorio IX nominasse dei frati domenicani a capo dei tribunali dell’Inquisizione. Chiarito l’eventuale equivoco, fugata l’ombra, si staglia nettamente la grande personalità cristiana di Domenico, che ci invita ad acquisire una maggiore consapevolezza circa la nostra identità e vocazione attraverso la preghiera e lo studio. È impressionante l’ignoranza religiosa che ci circonda e che purtroppo alligna anche fra molti battezzati. Non si conoscono i dieci comandamenti e men che meno le otto beatitudini; si fa grande confusione fra verità di fede e semplici dicerie e si cade facilmente preda delle suggestioni di talune sette religiose. Non si è in grado di replicare alle tesi dei Testimoni di Geova e si danno per buone le fantasie più stravaganti. Mi ricordo di un matrimonio che fu celebrato in una chiesa di Roma non più tardi di quattro anni fa, a cui ero presente. I convenuti facevano fatica a recitare il Credo e a mala pena conoscevano la preghiera del Padre nostro. Una tristezza assoluta. Di qui l’esigenza di una nuova evangelizzazione, di una nuova alfabetizzazione religiosa. Se manca la conoscenza delle principali verità di fede e si hanno poche e confuse idee sulla Chiesa cattolica, si cadrà facilmente nella rete delle eresie moderne, delle pseudo-religioni, delle sette, come pure di cartomanti e maghi, filtri, formule, oroscopi e pozioni, il cui unico miracolo consiste nello svuotamento dei portafogli ed in un’accresciuta miseria morale e spirituale, con gravi ripercussioni di natura psichica. Ogni inganno sull’uomo e sulla sua natura contribuisce a rendere deboli le menti e fragili le personalità, si rivela distruttivo.
Santa Caterina nasce a Siena, nel rione di Fontebranda, il 25 marzo 1347. Mistica domenicana, di lei mi ha impressionato la “virilità”. Era una donna dal carattere forte e di incrollabili convinzioni, capace di parlare ai potenti del tempo senza alcun timore reverenziale. Suoi interlocutori furono cardinali, vescovi e papi. Si batté per la riforma dei costumi del clero, e non esiterà a definire “demoni incarnati” tredici cardinali che seguirono l’antipapa Clemente VII, eletto a Fondi il 20 settembre 1378. Nel suo Trattato della Provvidenza scrive, fra l’altro, che “essere la serva di Dio significa non essere soggetta all’autorità di nessun uomo.” Un pensiero che induce a riflettere sulla nostra facile remissività dinanzi ai potenti di oggi, che facilmente si muta in pavidità. Piuttosto di non offendere la suscettibilità del potente di turno, sia in ambito civile che religioso, preferiamo glissare, addolcire, o far finta di niente. Per amore del quieto vivere non esitiamo a sacrificare sull’altare dell’ipocrisia e del perbenismo cospicue quote di verità, la sola in grado di produrre non solo candore individuale, ma anche progresso civile[11]. Finché terremo celate le scomode verità, terremo ingabbiate energie positive di crescita personale e comunitaria. È un danno incalcolabile sotto il profilo della giustizia, che può darsi solo se la verità affiora e la menzogna arretra. Di certo c’è che oggi molti di noi, pur avendone l’autorità, eviterebbero di rivolgersi ad un potente con le stesse parole e con la stessa passione e santa intransigenza con cui Caterina si rivolse a Pietro, cardinale di Ostia, quando lo invitò ad essere “uomo virile e non timoroso”.
___________________________________________________________________
[1] Cfr la Repubblica del 24 settembre 2006, pag. 50.
[2] Cfr Giovanni Modugno, F. W. Förster e la crisi dell’anima contemporanea, Giuseppe Laterza & Figli, Bari, 1931, ristampa 2005, pag. 170.
[3] Cfr Lv 25, 35-37; Dt 23, 20.
[4] Alla vicenda di Maria Goretti si ispira il bel film Cielo sulla palude, girato nel 1949 dal regista Augusto Genina.
[5] A S. Giovanni Bosco è intitolato l’oratorio parrocchiale. L’inaugurazione avvenne il 5 dicembre 1955 alla presenza di mons. Aurelio Marena, vescovo di Ruvo e Bitonto, e del parroco mons. Michele Montaruli, il quale fu molto legato alla figura del santo. In quell’occasione fu inaugurato il nuovo complesso di campane di bronzo e consacrato il nuovo campanile neo-romanico. Cfr AA.VV., La Chiesa del SS. Redentore in Ruvo – Aspetti di storia urbana, civile e religiosa a cento anni dalla fondazione (1902-2002), CSL Editrice, Terlizzi, 2003, pagg. 97 e segg.
[6] “E’ mio fermo sistema tenermi estraneo ad ogni cosa che si riferisca a politica. Non mai pro, non mai contro” III, 294; “Il prete cattolico non ha altra politica che quella del Santo Vangelo” VI, 679.
[7] Cfr AA.VV., La Chiesa del SS. Redentore in Ruvo – Aspetti di storia urbana, civile e religiosa a cento anni dalla fondazione (1902-2002), op. cit., pagg. 109 e 110.
[8] Nacque a Latiano (Brindisi) il 10 febbraio 1841.
[9] Il nome deriva dal portoghese auto da fé, cioè “atto di fede”. La tradizione fu inaugurata dall’inquisitore Tomàs de Torquemada nel 1481 a Siviglia, sebbene il primo autodafé di cui si ha notizia si svolse a Parigi nel 1242, durante il regno di Luigi IX.
[10] Si parla a proposito di “leggenda nera” o di “triste leggenda”, prosperata grazie agli stessi predicatori, i quali, come sostiene Michel Roquebert, “ritenevano che essere nati per combattere l’eresia fosse motivo di gloria”.
[11] Secondo Marcel Eck un mondo in cui la verità fosse esibita senza criterio assomiglierebbe “più ad un inferno che ad un paradiso.” Ed aggiunge che mentire è qualche volta un dovere. Taluni distinguono poi fra bugie bianche e nere, con le prime che sarebbero sostanzialmente innocue. Possiamo osservare che la verità va manifestata con criterio, che occorre essere tempestivi, semmai scegliere i tempi ed i modi più opportuni, che tacere la verità non è un dovere, bensì un atto di codardia o di scarsa fiducia in se stessi. L’uomo dovrebbe essere sempre consapevole delle proprie azioni ed assumersene la paternità. Tacere la verità impedisce alla giustizia di fare il suo corso, in taluni casi può esporre altri a gravi pericoli, per cui ha in sé un alto potenziale antievangelico.

sabato 24 ottobre 2009

Ai partecipanti a "Poetare è d'Amore" 2^ edizione





E’ con grande piacere che vogliamo condividere con Voi la soddisfazione per il notevole successo ottenuto da questa edizione del concorso.
Con 107 autori e 176 opere provenienti da tutta l’Italia, ci sentiamo di poter dire che “Poetare d’amore” è diventato un punto di riferimento per gli autori di opere sull’amore.
La giuria ha ricevuto le Vostre liriche ed entro il 15 novembre ci fornirà i giudizi attraverso i quali saranno eletti i vincitori e redatta la classifica.
Un sincero grazie va all’Assessorato alla Cultura del Comune di Ruvo di Puglia, alla Pro Loco di Ruvo ed ai nostri partner: il periodico La Nuova Città di Terlizzi, Ruvolive e Ruvodipugliaweb, I Presidi del Libro. Questo risultato si deve anche a loro.
Un saluto di cuore a tutti e un sentito ringraziamento per la Vostra graditissima e qualificata partecipazione.

Un saluto di serenità e di amore.

Ruvo di Puglia, ottobre 2009

Salvatore Bernocco
Presidente “Sehaliah” a.s.d.

Viaggio spirituale (cap.4)

4. L’icona del Battesimo di Gesù
Proseguendo nel cammino all’interno del tempio, mi imbatto nella recente (2006) e stupenda icona[1] del Battesimo di Gesù, che sormonta il fonte battesimale del 1904, dono del can. Giuseppe Pellegrini, e collocata nell’omonima cappella. In realtà più che di una icona sarebbe corretto parlare di un dipinto che si rifà o si ispira al codice iconografico classico. E’ anch’essa opera del pittore Gaetano Valerio, che pare sia stato ispirato da Dio, il quale, anzi, secondo la tradizione, ne è il vero artefice. Si credeva infatti che Dio stesso esprimesse la sua perfezione attraverso l’iconografo[2]. Una breve digressione. Mi sovviene il dipinto “San Matteo e l’Angelo” del Caravaggio (1602), che si può ammirare a Roma nella chiesa di San Luigi dei Francesi. Ve ne furono due versioni, in realtà. In entrambe compare l’angelo ispiratore, il quale nella prima versione, quella che fu respinta perché non ortodossa e che andò distrutta negli eventi bellici del 1945 a Berlino, guida materialmente la mano di San Matteo nella stesura del vangelo, mentre nella seconda versione, quella accettata in quanto rispondente alle idee più canoniche circa la rappresentazione di un santo o di un angelo, gli parla dall’alto[3]. L’idea dominante è anche qui quella dell’intervento divino, come se Dio stesso fosse l’artefice dei vangeli, colui che realmente li detta attraverso uno dei suoi angeli. San Matteo quindi è solo un amanuense, l’autore dei testi è il Signore. Un parallelismo che, al di là del valore non comparabile delle due opere, evidenzia in ogni caso quanto pregnante e radicata sia l’idea che ad ispirare certe opere sia Dio, e che l’artista non sia che il mero esecutore dei deliberati divini, seppure con l’apporto determinante della propria sensibilità e la propria tecnica[4].
Per altro verso l’iconografia presupponeva non soltanto una notevole preparazione tecnica, ma anche spirituale da parte dell’artista. Il pittore si preparava adeguatamente per creare l’opera iconografica proprio perché egli diveniva la mano di Dio, con la sua arte entrava in stretto, intimo contatto con la divinità, e ciò richiedeva una profonda e generale catarsi, una generale purificazione mentale, spirituale e fisica.
Prima di addentrarci nel significato evangelico e di fede dell’icona o “festa” del Battesimo di Gesù, ricordiamo brevemente come si perveniva all’icona. Ne emergerà anche l’estrema perizia del suo autore, che si è attenuto a quanto stabilito in proposito dal Concilio in Trullo[5] nonché ai principali dettami della ortodossia iconografica. L’icona era dipinta su tavolette di legno (tiglio, larice o abete). La parte interna della tavola era scavata e chiamata tecnicamente KOVČEG[6] o più comunemente arca. Su questa tavola veniva poi applicata una tela di lino, che voleva ricordare il telo della Veronica, e su di essa si applicavano diversi strati, almeno sette, di LEVKAS[7], che serviva a creare il fondo dell’icona ed era composto dal bianco di Medon mescolato alla colla di coniglio. Sulla superficie che veniva così a crearsi si cominciava a tratteggiare il disegno. Si partiva con uno schizzo della rappresentazione, quindi si passava alla fase della pittura. S’iniziava con la doratura di tutti i particolari (bordi dell’icona, pieghe dei vestiti, sfondo e corone o nimbi), quindi si passava a dipingere i vestiti, gli edifici e il paesaggio. L’effetto tridimensionale dell’icona si otteneva partendo da un fondo scuro che si andava a schiarire in varie fasi fino a raggiungere il bianco che veniva dato solo nei tratti più in rilievo del volto, come zigomi, naso, fronte. Questo procedimento che parte dallo scuro per giungere fino al chiaro prende spunto da quanto Dio operò nella creazione: la luce di Dio irrompe nel caos e, via via che la luce sorge e si diffonde nel creato, si delineano le forme di tutte le cose[8]. La vernice rossa era disposta in uno strato sottile attorno alle labbra, sulle guance e sulla punta del naso. Con una vernice marrone chiara erano dipinti gli occhi, le ciglia ed eventualmente i baffi o la barba. Quanto poi all’espressione del soggetto religioso ritratto, lo sguardo delle icone è ricercato, volto a suscitare inquietudine, riflessione, ricerca di un dialogo con l’aldilà. È una finestra aperta su Dio. Ma essa suscita anche speranza, trattandosi di sguardi provenienti dall’eternità.
Per tali ragioni non si pensi che l’icona sia assimilabile ad un quadro o ad un dipinto qualsiasi. L’icona parla di eternità, parla di Dio, e può essere compresa soltanto da chi conosce le Sacre Scritture, da chi si pone in un’ottica di fede o spirituale per cui Dio è “il giudice ed il supremo occhio che osserva e al quale nulla sfugge”. Non sarebbe quindi corretto parlare di semplice rappresentazione artistica, ricca come essa è di significati simbolici. In tale contesto, ad esempio, i colori hanno una grandissima importanza per la comprensione dell’icona. I colori fondamentali sono quattro. Il blu è il colore della trascendenza, mentre il rosso è il simbolo dell’umano e del sangue sparso dai martiri. Il verde simboleggia la natura, la fertilità o l’abbondanza. Il giallo è, infine, il colore della conoscenza e della sapienza. Quando assume la sfumatura di giallo oro è simbolo della luce divina, della verità. Il marrone non è un colore primario, ma derivato (formato dal rosso e dal verde), e designa ciò che appartiene alla terra e nella sua natura più umile e povero. Anche le lettere dipinte sull’icona assumono un particolare valore: le icone del Cristo presentano sempre la dicitura “IC XC” (forma greca abbreviata di Gesù Cristo) e anche “O ΩN” ("colui che è"; il simbolo è generalmente inserito nel nimbo[9]). La Vergine Maria invece presenta la dicitura “MP OY” (forma greca abbreviata di Madre di Dio); vicino al suo nome possono comparire altre diciture, come ad esempio “Onnipotente”, “Datore di Vita”, “Vergine Madre”.
E veniamo più nel dettaglio alla nostra icona del Battesimo di Gesù. Notiamo, sul lato destro, tre angeli in vesti di colore marrone, i quali reggono un drappo blu che nasconde le loro mani. Il nascondimento delle mani indica una impossibilità o una proibizione, un divieto. Ad essi difatti è precluso toccare la divinità. La loro fisionomia è oblunga come lo sono quelle del Cristo nel fiume Giordano, al centro della scena, e di Giovanni il Battista, sul versante sinistro. Tale raffigurazione ne vuole enfatizzare la natura spirituale[10]. Si tratta di figure esili ed affusolate, prive d’ogni contenuto o elemento corporeo o materiale, quasi diafane. Sono figure che si allungano, si proiettano verso l’alto, il cielo, sede della divinità. Anche questa scelta è in linea con la ortodossia iconografica. Nelle icone i volti dei santi sono chiamati lichi, cioè volti che si trovano fuori dal tempo e dallo spazio, che hanno abbandonato il mondo delle passioni terrene, eternati dalla pittura iconografica. Pur essendo trascinati e coinvolti in questa dimensione spirituale ed eterea, tuttavia mantengono la loro dimensione umana: restano uomini e in qualità d’essere umani mantengono l’immagine di Dio sul loro volto. I tre angeli hanno sembianze umane. Sono puri spiriti, e come tali sarebbero non rappresentabili. Di qui l’attribuzione della sembianza antropomorfa che intende dare una pallida idea di ciò che appartiene alle realtà invisibili e non rappresentabili, con un aggancio probabile ed intuitivo alla Sacra Scrittura dove, a proposito dell’uomo, si dice che fu creato di poco inferiore alle creature angeliche[11]. Questo scarto minimale fra l’uomo e le creature angeliche autorizzerebbe la loro rappresentazione antropomorfa.
Il Cristo quindi si fa uomo e riceve nel fiume Giordano il battesimo da Giovanni il Battista, il precursore. Gesù entra nudo nelle acque, che rappresentano il peccato e la morte, mentre il fiume rappresenta il lento scorrere della vita. Cristo entra nella storia fatta di morte e peccato per uscirne vittorioso dopo il battesimo. Egli, entrando nelle acque, le benedice e queste diventano sante e fonte di vita perché tale è Gesù, il Santo di Dio e datore di vita. E’ importante notare la posizione della mano benedicente del Cristo che indica che egli è sia uomo-Dio (questo il senso dell’unione dell’ indice e del medio), sia una delle tre persone della Santissima Trinità (questo il senso delle altre tre dita: pollice, anulare e mignolo, che si toccano alle punte).
Come per altro verso scrive Micaela Soranzo, “senz’acqua non esiste vita. Nella tradizione ebraica e cristiana l’acqua è legata all’origine della creazione: è la sostanza-madre dalla quale venne creato il mondo, ma, per la sua mancanza di forma, è anche immagine del caos, delle condizioni esistenti prima della creazione del mondo. Prima che fosse creata la luce «le tenebre ricoprivano l’abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque» (Gen 1,2). L’acqua può essere creativa o distruttiva, sorgente di vita o di morte: tutto l’Antico Testamento esalta il segno di benedizione dell’acqua, poiché «un fiume usciva da Eden per irrigare il giardino» (Gen 2,10) e il Signore ha fondato la terra sui mari «e sui fiumi l’ha stabilita» (Sal 24,2), anche se constata la sua forza distruttiva nel diluvio e nel passaggio del Mar Rosso”[12]. In un certo senso Gesù, entrando nelle acque, completa l’opera di benedizione e di pacificazione universale del Padre. Il caos è vinto una volta per tutte, le acque si placano. In una prospettiva psicologica e del profondo, il mare si collega alla vita, al cambiamento, a fenomeni di mutazione[13], e con la fede nel Cristo anche il mare magnum dell’inconscio, con le sue acque talvolta torbide ed agitate, scure ed angoscianti, è rasserenato. Agile e non eludibile il riferimento all’episodio della tempesta sedata che può leggersi nel vangelo di Matteo[14].
Tutti i personaggi hanno la testa contornata dal nimbo. Il nimbo, come ho accennato, indica la presenza di Dio nella vita di tutti gli esseri, sia terrestri che celesti. E’ Dio che sorregge la vita. Il nimbo del Cristo è crociato per indicare di quale morte morirà. In questa croce ci sono le scritte Ό ΏΝ, che significano “io sono colui che sono”, nome con cui Dio si manifestò a Mosè sul monte Sinai. Alla destra di Cristo c’è Giovanni il Battista, che è l’unico personaggio a cui è concesso di toccare Gesù. Egli è vestito di pelli di cammello e simboleggia l’uomo vecchio, Adamo, che Cristo, l’uomo nuovo, è venuto a riscattare[15]. La scritta ΙС ХС (Gesù Cristo) è posta sopra le acque, vi aleggia come aleggiò lo spirito del Creatore sulle acque all’origine dei tempi [16].
La natura è arida e brulla, e ciò sta ad indicare la condizione di peccato in cui versa l’umanità. Le montagne poi hanno un significato particolare. Sono quattro, distinguibili solo nella parte alta, mentre alla base sono unite e compatte. Su questa base poggiano i personaggi. Le cime rappresentano i quattro evangelisti; sulla loro testimonianza poggiano i misteri principali della fede cristiana. Se si osserva il movimento delle punte delle montagne, si nota che tre di esse, quelle poste a destra, puntano al cielo, mentre una quarta, quella a sinistra, è ricurva e sembra piegare verso l'emisfero blu, colore che, come si è detto, rappresenta la divinità. Questa montagna ricurva rappresenta il quarto evangelista, Giovanni, che, come dice Clemente d'Alessandria, "vedendo che nei Vangeli degli altri erano narrate piuttosto le cose che riguardavano la parte umana di Cristo, per impulso divino, a richiesta dei suoi discepoli, ultimo di tutti, scrisse un Vangelo spirituale". Questa montagna, quindi, traccia una linea ideale che si protende verso l'alto e conduce a Cristo, e sta a significare che Giovanni evangelista tende a Dio nella sommità e in basso è di sostegno al Battista, il quale con il suo gesto riconduce lo sguardo alla persona del Cristo.
Tuttavia, a ben vedere, nel dipinto è presente tutta la SS. Trinità. La presenza del Padre è simboleggiata dalla nube posta in alto, da cui promana un fascio di luce, mentre una colomba indica la presenza dello Spirito Santo. Le lettere greche che compaiono accanto alla figura di Giovanni significano “Giovanni Battista precursore”, mentre l’espressione collocata in alto, HBAП TIGIG, vorrebbe dire “Battesimo di Gesù”.
L’opera di Gaetano Valerio può dirsi un compendio di teologia che si offre alla vista del visitatore, invogliato a soffermarsi sui particolari per scoprirne il messaggio di fede e di speranza. E per inclinare alla preghiera, quel movimento essenziale dell’anima che si volge al Padre come al sole della vita, e che è facilitato dalle immagini sacre. Queste aiutano la fede senza mai sostituirsi ad essa o esserne una pericolosa scorciatoia o deviazione. Se così fosse dovremmo dare ragione, seppure postuma, alle eresie iconoclastiche[17], mentre siamo nel campo della latria e della dulia, non dell’idolatria[18], quando ci serviamo delle immagini sacre scolpite o raffigurate.
Valgano in questa sede alcune considerazioni di ordine teologico di cui sono in parte debitore all’apologeta Giampaolo Barra. Ma prima un po’ di storia. Nel 730 Leone III Isaurico, imperatore d’Oriente, si intromette nelle questioni ecclesiastiche, essendoci state in Oriente degli episodi di fanatismo nella venerazione delle immagini sacre, e vieta il culto delle icone e delle immagini, diffuso in tutto l’orbe cristiano. Egli ordina la distruzione di un’immagine del Cristo assai venerata. La proibizione dà la stura alla distruzione feroce di stupende opere d’arte. Germano, patriarca di Costantinopoli, gli si oppone, ma viene destituito ed i difensori delle immagini sacre duramente perseguitati. La persecuzione durerà anche dopo Leone III. Nel 787 il Concilio di Nicea finalmente sancì l’assoluta liceità di rappresentare con immagini le figure di Gesù, di Maria, degli angeli e dei santi, in quanto la contemplazione di esse invita il fedele ad imitare i personaggi rappresentati. Imitazione, ma non solo. Esse servono anche ad abbellire i luoghi di culto e ad approfondire la conoscenza degli episodi biblici. Come affermò Gregorio Magno[19], “la pittura può servire all’analfabeta quanto la scrittura a chi sa leggere”. Nel XVI secolo l’iconoclastia riprese impulso. Furono soprattutto i calvinisti a distinguersi nella distruzione di molte statue e di molte immagini nelle chiese che occuparono dopo lo strappo con la Chiesa romana. A fianco del mondo protestante, anche la setta dei Testimoni di Geova è contraria alla venerazione delle immagini.
Tale contrarietà si fonda su una lettura errata della Bibbia. I versetti 2, 3 e 4 del capitolo 20 del libro dell’Esodo sono quelli sub judice: “Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dal paese d’Egitto, dalla condizione di schiavitù: non avrai altri dèi di fronte a me. Non ti farai idolo né immagine alcuna di quanto è lassù nel cielo né di quanto è quaggiù sulla terra, né di ciò che è nelle acque sotto la terra.” Ad una lettura superficiale, il divieto parrebbe esistere. Ma così non è perché soccorre il versetto 5, che spiega la ragione di quel divieto: “Non ti prostrerai davanti a loro e non li servirai.” Dio quindi non proibisce l’uso delle immagini sacre in quanto tali, ma l’idolatria, cioè la sostituzione di Dio con un idolo e la sua adorazione. Ma soccorrono altri passi. Sempre nel libro dell’Esodo si legge che Mosé convocò tutti gli uomini di ingegno perché eseguissero i lavori della costruzione del santuario, facendo ogni cosa secondo i voleri del Signore[20], consistenti nell’adornare con statue ed immagini l’Arca dell’Alleanza. Esplicita fu la richiesta di Dio di fare due cherubini d’oro. Egli impartì espresse disposizioni sul modo come lavorarli e sulla loro disposizione[21]. Ancora, Bezaleel, uno degli artisti convocati da Mosé, “fece il velo di porpora viola e di porpora rossa, di scarlatto e di bisso ritorto. Lo fece con figure di cherubini, lavoro di disegnatore”.[22] E finanche troppo agevole concludere che il Signore non aborre né le statue né i disegni, purché siano “funzionali” al suo culto, cioè al culto dell’unico vero Dio, e non siano piegate o dirette all’idolatria. Altri esempi possono estrapolarsi dalla Bibbia ed altri ancora dalla storia delle prime comunità cristiane. Ad esempio, lo scrittore Tertulliano nel De Pudicitia ci parla delle immagini del Buon Pastore con cui i primi cristiani adornavano i calici, mentre lo storico Eusebio di Cesarea nell’Historia Ecclesiastica dice di aver visto coi propri occhi le immagini dipinte di Gesù e dei Santi apostoli Pietro e Paolo. Per quanto attiene al culto dei santi, la stessa Bibbia e la storia della chiesa primitiva ci autorizzano a sostenere che la loro venerazione è gradita a Dio, non è contraria all’insegnamento della Bibbia e in sintonia con quello che i cristiani hanno sempre fatto.
Per venire a tempi più recenti, Giovanni Paolo II chiese ai Vescovi di tutto il mondo di “mantenere fermamente l’uso di proporre nelle Chiese alla venerazione dei fedeli le immagini sacre”. Questo perché il fedele deve essere aiutato nella preghiera e nella vita spirituale con la visione di opere che cercano di esprimere il mistero senza occultarlo. Per il predecessore di Benedetti XVI, “la scoperta dell’icona cristiana aiuterà anche a far prendere coscienza dell’urgenza di reagire contro gli effetti spersonalizzanti, e talvolta degradanti, delle molteplici immagini che condizionano la nostra vita nella pubblicità e nei mass-media”. Sono parole che confortano l’impegno costante di don Vincenzo Pellegrini a voler conservare il patrimonio ereditato e nel contempo a dotare il tempio di opere significative ai fini spirituali, volte a favorire l’espressione del culto che si deve a Dio ed ai suoi santi che, in ultima analisi, si risolve sempre in un atto di culto a Colui che è la sorgente sempre viva e zampillante della Santità[23]. Trovo ad abundantiam che la sua dedizione sia perfettamente conforme ai dettami della Chiesa in materia di arte sacra.
Ne fornisco qualche riscontro documentale, con un incipit “laico” dello scrittore Hermann Hesse, che nel suo libro “Peter Camenzind” così scrive: “L’arte di tutti i tempi si sforza di dare espressioni al muto desiderio del divino che è in noi”. È un efficace proemio a quanto segue, una straordinaria sintesi. Ad esempio, la Pontificia Commissione per i Beni Culturali della Chiesa in un documento del 15 ottobre 1992 intitolato “La formazione dei futuri presbiteri all’attenzione verso i beni culturali della Chiesa” ed indirizzato ai vescovi diocesani, pose l’accento sulla “promozione, la custodia e la valorizzazione delle più alte espressioni dello spirito umano in campo artistico e storico”. La Chiesa, si legge fra l’altro nel documento, “ha infatti annunciato il Vangelo e perfezionato il culto divino in molteplici modi attraverso le arti letterarie, figurative, musicali, architettoniche; nonché attraverso la conservazione di memorie storiche e di preziosi documenti della vita e della riflessione dei credenti. Il messaggio della salvezza si è comunicato, e ancora oggi si comunica, pure attraverso tali mezzi a intere moltitudini di credenti e non credenti”. In un contesto storico caratterizzato da grossolanità e volgarità, come pure dalla immanenza e dal fallimento della cultura dell’effimero, “sono molti, e sempre più numerosi, le donne e gli uomini che si fanno sensibili al valore umanizzante delle espressioni culturali e artistiche. Cresce di conseguenza la convinzione che è importante, per il futuro dell'umanità, por mano alla loro retta conservazione, alla difesa dalla dispersione e dalla strumentalizzazione (che derivano da un loro uso orientato solo a fini economici), alla loro valorizzazione come veicoli di senso e di valore per la vita umana”. La stessa preghiera comunitaria ed individuale dei futuri presbiteri, prosegue il documento, deve farsi spazio estetico, nel senso che essi devono essere educati alla preghiera “in modo da lasciare spazio anche alle dimensioni della sensibilità, dell'immaginazione, della contemplazione estetica. Quest'ultima, se ben inserita nell'esperienza della grazia e nell'accoglienza dello Spirito, non è per nulla distraente o evasiva; al contrario è veicolo di una sempre più profonda celebrazione delle “grandi opere del Signore” ”. Per venire a tempi a noi più vicini, si ricordi quanto Papa Giovanni Paolo II scrisse nella lettera apostolica Spiritus et Sponsa (4 dicembre 2003) nel quarantesimo anniversario della Costituzione Sacrosantum Concilium sulla Sacra Liturgia: “Un altro tema fecondo di sviluppi, affrontato dalla Costituzione conciliare, è quello concernente l'arte sacra. Il Concilio offre chiare indicazioni affinché essa continui ad avere, anche ai giorni nostri, un notevole spazio, sicché il culto possa risplendere anche per il decoro e la bellezza dell'arte liturgica”. Ciò perché l’arte, e in particolare l’arte sacra, è riflesso dell’infinita bellezza di Dio che l’uomo deve in qualche modo esprimere attraverso le sue opere. Bellezza e bene sono in rapporto osmotico. In una lettera agli artisti (4 aprile 1999), ancora Giovanni Paolo II osservava che “il rapporto tra buono e bello suscita riflessioni stimolanti. La bellezza è in un certo senso l'espressione visibile del bene, come il bene è la condizione metafisica della bellezza. Lo avevano ben capito i Greci che, fondendo insieme i due concetti, coniarono una locuzione che li abbraccia entrambi: “kalokagathía”, ossia « bellezza-bontà ». Platone scrive al riguardo: “La potenza del Bene si è rifugiata nella natura del Bello” ”.
Don Vincenzo ha quindi compreso che l’espressione artistica è un modo eccellente, oserei dire moderno o sempre attuale, per inserirsi nel vivo dei contenuti della nostra fede, in quanto la bellezza rimanda al buono, ed il buono al vero. È il circuito virtuoso dello spirito che prende le mosse da una qualificazione del Cristo, che la spiritualità orientale presenta come “il Bellissimo di bellezza più di tutti i mortali”[24]. Del resto egli, che ha vissuto appieno l’atmosfera del Concilio Vaticano II, di certo conserva vivida memoria dell’appello che i Padri Conciliari rivolsero agli artisti in conclusione del Concilio: “Questo mondo nel quale noi viviamo ha bisogno di bellezza, per non cadere nella disperazione. La bellezza, come la verità, mette la gioia nel cuore degli uomini ed è un frutto prezioso che resiste al logorio del tempo, che unisce le generazioni e le fa comunicare nell'ammirazione“.

__________________________________________________________
[1] Il termine icona deriva dal greco "eikon", che può essere tradotto con “immagine”. È l’espressione visiva del messaggio cristiano, affermato nel vangelo con le parole. Si tratta di una creazione bizantina del V secolo. L’occasione fu offerta dal ritratto della "Vergine odighitria" attribuito dalla tradizione all’evangelista San Luca. Quando nel 1453 crollò l’Impero Romano d’Oriente, i popoli balcanici contribuirono ad incrementare sia la produzione sia la diffusione di queste raffigurazioni sacre.

[2] Ciò spiega perché l’icona non riporta il nome dell’iconografo, cioè di colui del quale Dio stesso si è servito. Il dipinto iconografico del SS. Redentore invece riporta il nome del suo autore in basso a sinistra.
[3] A Michelangelo Merisi, detto il Caravaggio, “era stato ordinato un quadro di San Matteo per l’altare di una chiesa romana: il santo doveva essere rappresentato nell’atto di scrivere il Vangelo, e per mostrare che i Vangeli erano la parola divina doveva essergli posto vicino l’angelo ispiratore. Il Caravaggio, un giovane artista altamente creativo e intransigente, cercò di raffigurarsi la scena di un vecchio e povero operaio, un semplice pubblicano, improvvisamente alle prese con un libro da scrivere. Così dipinse San Matteo calvo, con i piedi nudi e polverosi, che afferra goffamente il grosso volume e aggrotta ansiosamente la fronte nell’insolito sforzo della scrittura. Al suo fianco dipinse un angelo adolescente, che sembra appena giunto dall’alto e che dolcemente gli guida la mano come può fare un maestro con il bambino. Quando il Caravaggio consegnò il quadro alla chiesa sul cui altare doveva essere appeso, suscitò scandalo per questa presunta mancanza di rispetto. Il dipinto non fu accettato e il Caravaggio dovette ricominciare da capo. Non volendo però correre ulteriori rischi, si attenne rigorosamente alle idee più convenzionali circa l’aspetto di un angelo o di un santo.” Ernst H. Gombrich, La storia dell’arte, Mondadori Electa Spa, Ristampa italiana 2002, Milano, pag. 31.
[4] Tuttavia va detto che la seconda versione, quella accettata, è più aderente all'idea cristiana di ispirazione, per cui l’autore sacro è solo ispirato da Dio e mantiene salve le sue facoltà di vero autore del testo sacro, tant’è che è possibile affermare che Dio e l'uomo sono coautori del testo biblico.
[5] Il Quinisext Concilio o Concilio in Trullo si tenne a Costantinopoli nel 692. Si affermò la centralità della figura umana del Cristo, che in ambito iconografico venne storicizzata allo stesso modo dei santi (ai quali si associa l’espressione di rappresentazione antropomorfica), vietandone nel contempo le raffigurazioni allegoriche non antropomorfe quali l'agnello, il pesce e la colomba.

[6] Il termine nel linguaggio biblico indica l’arca dell’alleanza.
[7] Il termine deriva dal greco leukos e significa bianco.
[8] “In principio Dio creò il cielo e la terra. Ora la terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l'abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque. Dio disse: "Sia la luce!". E la luce fu. Dio vide che la luce era cosa buona e separò la luce dalle tenebre e chiamò la luce giorno e le tenebre notte. E fu sera e fu mattina: primo giorno” (Gn. 1, 1-5).

[9] La parola nimbo deriva dal latino nimbus, che significa “nuvola”. Altra cosa è l’aureola, che è il cerchio di luce che avvolge la testa di un santo, di un angelo o di Gesù. Il nimbo è invece il disco dorato che avvolge il capo di costoro. L'aureola non può essere usata per i personaggi ancora viventi o che non sono ancora stati canonizzati dalla Chiesa. In alcuni dipinti, persone viventi in fama di santità sono ritratte con un'aureola quadrata. A volte il diavolo viene rappresentato con un'aureola nera, e così pure Giuda Iscariota.

[10] Mi sovviene – ma siamo su un piano prosaico – la distinzione degli uomini in due categorie tracciata dallo scrittore russo Nikolaj Gogol’ nel suo romanzo “Anime Morte”. Egli li distingue nei sottili e nei grassi o “non troppo grassi, ma neppure magri.” I primi sono esseri volteggianti, leggeri, aerei, mentre i secondi sono stabili e certi, più radicati nelle cose terrene. Come si vede, alle figure snelle o sottili è più agevole associare qualità spirituali.
[11] “Se guardo il tuo cielo, opera delle tue dita, la luna e le stelle che tu hai fissate, che cosa è l'uomo perché te ne ricordi e il figlio dell'uomo perché te ne curi? Eppure l'hai fatto poco meno degli angeli, di gloria e di onore lo hai coronato [...]” (Sal 8, 4-6).

[12] Micaela Soranzo, Simbolismo dell’acqua e oggetti collegati, su Vita Pastorale, n. 3, marzo 2007.
[13] “Mi è stato dato di vedere numerosi sogni di immersione totale nell’acqua e, a quanto ho potuto notare, essi corrispondono sempre ad un momento di possibile, radicale trasformazione dell’individuo. Non mi riferisco, ovviamente, ad immagini di lavacri in una vasca da bagno, o simili: sogni che possono anche essere importanti, ma solo a livello di purificazione, di pulizia da qualche cosa - ma certamente non di più. Parlo, invece, di sogni di immersione nel mare, in una sorgente, nell’acqua viva. Si tratta qui di un segno che è contemporaneamente un evento, una realtà dello spirito in cammino”. È ciò che scrive Mirjam Viterbi Ben Horin, psicoanalista junghiana, che si è dedicata in modo particolare allo studio dell’inconscio collettivo ebraico. Il passo in cui mi sono imbattuto mentre navigavo in Internet, è estrapolato da un capitolo del testo Il Sogno di Giacobbe, Edizioni Borla, Roma, 1993. Lia Luzzatto e Renata Pompas, nel loro interessante saggio intitolato “Il significato dei colori nelle civiltà antiche”, scrivono che il colore nero “connota la parte più celata dell’anima, quella che Jung chiama “ombra”, l’aspetto notturno della psiche”, l’inconscio dove, con le parole di Jung, “si agitano le belve e i mostri: l’inferno dello psichismo, che è anche riserva di energia da ordinare”. Cfr L. Luzzatto e Renata Pompas, Il significato dei colori nelle civiltà antiche, Bompiani, Milano, 2005, 2^ edizione Tascabili, pag. 66.

[14] “Essendo poi salito su una barca, i suoi discepoli lo seguirono. Ed ecco scatenarsi nel mare una tempesta così violenta che la barca era ricoperta dalle onde; ed egli dormiva. Allora, accostatisi a lui, lo svegliarono dicendo: «Salvaci, Signore, siamo perduti!». Ed egli disse loro: «Perché avete paura, uomini di poca fede?» Quindi levatosi, sgridò i venti e il mare e si fece una grande bonaccia. I presenti furono presi da stupore e dicevano: «Chi è mai costui al quale i venti e il mare obbediscono?»” (Mt 8, vv. 24-27).


[15] “Il Signore Dio fece per Adamo e sua moglie delle tuniche di pelle e li rivestì” (Gn 3, 21).
[16] “La terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l’abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque” (Gn 1, 2).
[17] La parola iconoclastia viene dal greco è significa “distruzione delle immagini”. L’iconoclastia afflisse la Chiesa dal 726 all’ 842 d.C. Riprese vigore col Protestantesimo nel XVI secolo.
[18] Per latria si intende il culto di adorazione dovuto solo a Dio. L’etimo deriva dal greco latreia, servitù, che deriva da latris, servo; la dulia è il culto reso ai santi, in quanto servi di Dio, mentre quello dovuto alla Madonna è di iperdulia. Infine, l’idolatria è l’adorazione di false divinità. Cfr Antonio Rosario Mennonna, Piccolo glossario del Cristianesimo, Edizioni Dehoniane, Roma, 2^ Edizione, gennaio 1992.
[19] Gregorio I o Gregorio Magno (540 – 12 marzo 604) fu papa della Chiesa cattolica dal 3 settembre 590 alla sua morte.
[20] Es 36, 1
[21] Es 25, 18-20
[22] Es 37, 35
[23] L’errore da evitare è di rivolgersi al santo non in qualità di intermediario, di intercessore, ma di “elargitore autonomo” di grazie e favori.

[24] Enkomia dell'Orthós del Santo e Grande Sabato.