8. Parole conclusive
Dall’abside volgo il mio sguardo verso l’ingresso, e mi sovvengono gli anni trascorsi qui, in questo ventre accogliente ma non ovattato, mai insonorizzato agli echi delle tragedie umane, molte delle quali – forse tutte - trovano la loro origine nell’egoismo che, come rifletteva il poeta Giacomo Leopardi, “è sempre stato la peste della società e quanto è stato maggiore, tanto peggiore è stata la condizione della società”. Don Vincenzo mi chiamò a collaborare con lui più di vent’anni fa al mensile parrocchiale Fermento. Più di vent’anni fa mi chiese di redigere un articolo su Aldo Moro, un uomo ed un cristiano che molte volte sostò a Ruvo e che conobbe una sorte tragica, accettata con rassegnazione alla volontà di Dio, in realtà alla violenza dei suoi carcerieri, perché la volontà di Dio è amore e vita, non odio e morte (forse dovremmo rivedere certe nostre affermazioni e certi luoghi comuni, come anche don Vincenzo sostiene a proposito di alcuni passi dell’atto di dolore: Dio non castiga nessuno, siamo noi che liberamente, quando non aderiamo alla sua volontà di amore, ci castighiamo e ci danniamo). Da allora il mio modesto contributo alla vita parrocchiale non ha conosciuto soste, nella consapevolezza che i talenti vanno messi a disposizione della comunità, che scrivere di Dio e delle cose di Dio - sempre con il tremore dell’iniziato e di chi sa bene che Egli è l’inconoscibile -, è una forma di apostolato, mosso dal desiderio di comunicare l’amore di Dio, il nucleo fondante del messaggio evangelico, sempre con mansuetudine e rispetto per chi semmai è alla ricerca di Dio o non crede. Da don Vincenzo ho attinto il convincimento che occorre difendersi dalle tre “D”: dissipazione, dispersione, disperazione. Perché esse generano una quarta “D”, il dolore, non quello a cui tutti siamo sottoposti a causa della nostra natura umana, fragile e transeunte, ma il dolore dell’anima, la morte dello spirito, il tedium vitae degli antichi, meglio noto come depressione, assenza di stimoli vitali, appassimento della speranza, accidia . Grazie a don Vincenzo ho coltivato la mia passione per la lettura e la scrittura. Gli sono grato anche di questo, per avermi sollecitato a superarmi, a muovermi lungo le direttrici evangeliche, a concentrarmi sull’essenziale, che spesso, come scriveva Antoine de Saint-Exupéry, è invisibile agli occhi, conoscibile soltanto attraverso l’occhio interiore, l’ascolto attento della coscienza, l’adesione alla Verità, una verità che giudica per liberare, non per condannare. Questa è l’immagine serena di Dio che don Vincenzo ha contribuito a trasmettermi. A lui quindi dedico questo mio modesto lavoro nella felice circostanza del suo XXV anniversario di sacerdozio, di servizio alla Chiesa cattolica. A lui che ha arricchito la chiesa del SS. Redentore di nuove opere pregevoli, con gusto e competenza, senza mai tralasciare di custodire, con amore e dedizione, quanto gli pervenne in eredità dai suoi predecessori, in particolare da mons. Michele Montaruli. A lui, che ama la Tradizione e il Concilio Vaticano II, ben sapendo che a nulla vale innovare se non ci si radica nella sostanza del vero culto che si deve a Dio, fatto non tanto di riti quanto di cordiale apertura al mondo e di amore verso il prossimo e se stessi. A lui, in occasione del suo 40° anniversario din sacerdocio, tutta la mia stima ed amicizia, con il sincero augurio di sempre maggiori traguardi umani e spirituali.
Dall’abside volgo il mio sguardo verso l’ingresso, e mi sovvengono gli anni trascorsi qui, in questo ventre accogliente ma non ovattato, mai insonorizzato agli echi delle tragedie umane, molte delle quali – forse tutte - trovano la loro origine nell’egoismo che, come rifletteva il poeta Giacomo Leopardi, “è sempre stato la peste della società e quanto è stato maggiore, tanto peggiore è stata la condizione della società”. Don Vincenzo mi chiamò a collaborare con lui più di vent’anni fa al mensile parrocchiale Fermento. Più di vent’anni fa mi chiese di redigere un articolo su Aldo Moro, un uomo ed un cristiano che molte volte sostò a Ruvo e che conobbe una sorte tragica, accettata con rassegnazione alla volontà di Dio, in realtà alla violenza dei suoi carcerieri, perché la volontà di Dio è amore e vita, non odio e morte (forse dovremmo rivedere certe nostre affermazioni e certi luoghi comuni, come anche don Vincenzo sostiene a proposito di alcuni passi dell’atto di dolore: Dio non castiga nessuno, siamo noi che liberamente, quando non aderiamo alla sua volontà di amore, ci castighiamo e ci danniamo). Da allora il mio modesto contributo alla vita parrocchiale non ha conosciuto soste, nella consapevolezza che i talenti vanno messi a disposizione della comunità, che scrivere di Dio e delle cose di Dio - sempre con il tremore dell’iniziato e di chi sa bene che Egli è l’inconoscibile -, è una forma di apostolato, mosso dal desiderio di comunicare l’amore di Dio, il nucleo fondante del messaggio evangelico, sempre con mansuetudine e rispetto per chi semmai è alla ricerca di Dio o non crede. Da don Vincenzo ho attinto il convincimento che occorre difendersi dalle tre “D”: dissipazione, dispersione, disperazione. Perché esse generano una quarta “D”, il dolore, non quello a cui tutti siamo sottoposti a causa della nostra natura umana, fragile e transeunte, ma il dolore dell’anima, la morte dello spirito, il tedium vitae degli antichi, meglio noto come depressione, assenza di stimoli vitali, appassimento della speranza, accidia . Grazie a don Vincenzo ho coltivato la mia passione per la lettura e la scrittura. Gli sono grato anche di questo, per avermi sollecitato a superarmi, a muovermi lungo le direttrici evangeliche, a concentrarmi sull’essenziale, che spesso, come scriveva Antoine de Saint-Exupéry, è invisibile agli occhi, conoscibile soltanto attraverso l’occhio interiore, l’ascolto attento della coscienza, l’adesione alla Verità, una verità che giudica per liberare, non per condannare. Questa è l’immagine serena di Dio che don Vincenzo ha contribuito a trasmettermi. A lui quindi dedico questo mio modesto lavoro nella felice circostanza del suo XXV anniversario di sacerdozio, di servizio alla Chiesa cattolica. A lui che ha arricchito la chiesa del SS. Redentore di nuove opere pregevoli, con gusto e competenza, senza mai tralasciare di custodire, con amore e dedizione, quanto gli pervenne in eredità dai suoi predecessori, in particolare da mons. Michele Montaruli. A lui, che ama la Tradizione e il Concilio Vaticano II, ben sapendo che a nulla vale innovare se non ci si radica nella sostanza del vero culto che si deve a Dio, fatto non tanto di riti quanto di cordiale apertura al mondo e di amore verso il prossimo e se stessi. A lui, in occasione del suo 40° anniversario din sacerdocio, tutta la mia stima ed amicizia, con il sincero augurio di sempre maggiori traguardi umani e spirituali.
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