7. L’area absidale: uno sfolgorio di luci e di senso
Giungo infine nei pressi dell’altare che fu consacrato dal Servo di Dio Mons. Antonio Bello. Un Angelo stilizzato, di gran pregio, lo sorregge, mentre i tre gradini che portano ad esso sono mosaicati. È una sorta di motivo introduttivo, di accenno al maestoso mosaico del Cristo Redentore, posto al centro della scena, di sfolgorante bellezza, composto di 750.000 tessere. Ai suoi lati compaiono altri due mosaici che ritraggono creature angeliche, tre in entrambe le opere. Prima dei mosaici, due imponenti dipinti di Gaetano Valerio. Quello a destra ritrae la torma dei santi che procede verso la Luce, con in testa la Vergine Maria, S. Giovanni, i santi Cleto e Biagio, S. Pietro clavifero. S. Giacomo vi compare in ginocchio, mentre – con sorprendente preveggenza – vi è ritratto anche mons. Bello in atteggiamento umile ed affabile. È il primo dipinto in cui il Servo di Dio appare e viene offerto alla devozione popolare. Splendida intuizione di don Vincenzo Pellegrini, che si mosse in sintonia con il giudizio dei fedeli, presagendo la santità di un vescovo che nella nostra Diocesi inaugurò uno stile nuovo di essere al servizio della gente, molto lontano dallo stereotipo del vescovo burocrate e freddo amministratore delle cose sacre. Fa da sfondo la Cattedrale di Ruvo, ed è visibile una fisionomia, flebile e quasi diafana, che richiama la genitrice di don Vincenzo, un doveroso omaggio dell’artista al parroco e ad una pia donna. La ricordo seduta ai primi banchi della fila di destra, orante, con lo sguardo fisso sul figlio celebrante, un cuore di madre che prega e sospira per suo figlio, un’immagine esemplare dell’amore di Dio per l’uomo. È un ricordo che ancora oggi mi emoziona, riportandomi ad altre figure a me care, quelle dei miei nonni e zii, persone che irradiavano bontà e semplicità, autentici maestri di vita. Si avverte la mancanza di persone così, creatrici di ricchezza spirituale, di senso. Le vere miserie sono quelle prodotte dalle lacune di senso; i prosciugatori di senso sono tutti coloro che seminano pessimismo, tenebre, male. Il dipinto a sinistra, invece, si ispira alla risurrezione di Lazzaro. Le due tele si richiamano a vicenda, entrambe suscitano l’ottimismo della fede, la speranza nella resurrezione. Incitano ad inaugurare un nuovo modo di essere e di vivere: essere figli della Luce significa essere partoriti una seconda volta dalla Parola di Dio, rinascere ad una vita nuova secondo lo Spirito, che è Amore. Si è già partecipi della schiera esultante dei santi se si vive secondo la legge dell’amore-carità, che è vita eterna, sublimemente riassunta nell’espressione, molto cara a don Vincenzo, “i vivi non muoiono ed i morti non risorgono” del teologo Alberto Maggi. Di pregnante significato, essa vuol dire che chi ama vive per sempre, non muore mai, mentre chi non ama è già morto anche se respira ancora. Ricorrente, sebbene sia sottinteso, è il motivo della Luce, sottolineato anche dai colori caldi e luminosi utilizzati dall’artista. Essi dominano anche nel mosaico[1] del Cristo Redentore: è una fantasmagoria di luci e colori che suscita fiducia e disperde le ombre del cuore. Il Cristo poggia sull’orbe terraqueo, è Ostia, è Calice, in un’apoteosi dell’offerta di sé. L’interno richiama l’esterno, il Cristo dell’abside evoca il Cristo del 1954, che domina la città col suo messaggio di pace e di amore.
Giungo infine nei pressi dell’altare che fu consacrato dal Servo di Dio Mons. Antonio Bello. Un Angelo stilizzato, di gran pregio, lo sorregge, mentre i tre gradini che portano ad esso sono mosaicati. È una sorta di motivo introduttivo, di accenno al maestoso mosaico del Cristo Redentore, posto al centro della scena, di sfolgorante bellezza, composto di 750.000 tessere. Ai suoi lati compaiono altri due mosaici che ritraggono creature angeliche, tre in entrambe le opere. Prima dei mosaici, due imponenti dipinti di Gaetano Valerio. Quello a destra ritrae la torma dei santi che procede verso la Luce, con in testa la Vergine Maria, S. Giovanni, i santi Cleto e Biagio, S. Pietro clavifero. S. Giacomo vi compare in ginocchio, mentre – con sorprendente preveggenza – vi è ritratto anche mons. Bello in atteggiamento umile ed affabile. È il primo dipinto in cui il Servo di Dio appare e viene offerto alla devozione popolare. Splendida intuizione di don Vincenzo Pellegrini, che si mosse in sintonia con il giudizio dei fedeli, presagendo la santità di un vescovo che nella nostra Diocesi inaugurò uno stile nuovo di essere al servizio della gente, molto lontano dallo stereotipo del vescovo burocrate e freddo amministratore delle cose sacre. Fa da sfondo la Cattedrale di Ruvo, ed è visibile una fisionomia, flebile e quasi diafana, che richiama la genitrice di don Vincenzo, un doveroso omaggio dell’artista al parroco e ad una pia donna. La ricordo seduta ai primi banchi della fila di destra, orante, con lo sguardo fisso sul figlio celebrante, un cuore di madre che prega e sospira per suo figlio, un’immagine esemplare dell’amore di Dio per l’uomo. È un ricordo che ancora oggi mi emoziona, riportandomi ad altre figure a me care, quelle dei miei nonni e zii, persone che irradiavano bontà e semplicità, autentici maestri di vita. Si avverte la mancanza di persone così, creatrici di ricchezza spirituale, di senso. Le vere miserie sono quelle prodotte dalle lacune di senso; i prosciugatori di senso sono tutti coloro che seminano pessimismo, tenebre, male. Il dipinto a sinistra, invece, si ispira alla risurrezione di Lazzaro. Le due tele si richiamano a vicenda, entrambe suscitano l’ottimismo della fede, la speranza nella resurrezione. Incitano ad inaugurare un nuovo modo di essere e di vivere: essere figli della Luce significa essere partoriti una seconda volta dalla Parola di Dio, rinascere ad una vita nuova secondo lo Spirito, che è Amore. Si è già partecipi della schiera esultante dei santi se si vive secondo la legge dell’amore-carità, che è vita eterna, sublimemente riassunta nell’espressione, molto cara a don Vincenzo, “i vivi non muoiono ed i morti non risorgono” del teologo Alberto Maggi. Di pregnante significato, essa vuol dire che chi ama vive per sempre, non muore mai, mentre chi non ama è già morto anche se respira ancora. Ricorrente, sebbene sia sottinteso, è il motivo della Luce, sottolineato anche dai colori caldi e luminosi utilizzati dall’artista. Essi dominano anche nel mosaico[1] del Cristo Redentore: è una fantasmagoria di luci e colori che suscita fiducia e disperde le ombre del cuore. Il Cristo poggia sull’orbe terraqueo, è Ostia, è Calice, in un’apoteosi dell’offerta di sé. L’interno richiama l’esterno, il Cristo dell’abside evoca il Cristo del 1954, che domina la città col suo messaggio di pace e di amore.
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[1] L’etimo è incerto. Secondo alcuni deriva dal greco µουσαικόν (musaikòn), “opera paziente degna delle Muse”; in latino veniva chiamato opus musivum, cioè “opera delle Muse” oppure “rivestimento applicato alle grotte dedicate alle Muse stesse”. Il richiamo alle Muse è dovuto all'usanza degli antichi romani di costruire, nei giardini delle ville, grotte e anfratti dedicati alle Ninfe (ninpheum) o Muse (musaeum), decorandone le pareti con sassi e conchiglie. Quindi musaeum o musivum indica la grotta e opus musaeum o opus musivum indica il tipo di decorazione murale. In seguito si affermò l'uso dell'aggettivo musaicus ad indicare l'opera musiva. Potrebbe derivare anche dall'arabo muzauwaq, che significa "decorazione". C'è chi, invece, vi ha visto la radice di un vocabolo semita, soprattutto quando la parola viene usata come aggettivo, che potrebbe legarsi al termine "Mosè", quindi "pertinente a Mosè". Sono state indicate anche altre locuzioni, quali musium che significa esprimere qualcosa con diversi colori, oppure museos nel senso di elegante. Le ipotesi però sono molte e nessuna sembra avere titoli sufficienti per prevalere sulle altre. Le tessere erano chiamate in greco ἀβακίσκοι (abakìskoi), quadrelli (da ἄβαξ (àbax), tavoletta), mentre in latino abaculi, tesserae, tessellae.
[1] L’etimo è incerto. Secondo alcuni deriva dal greco µουσαικόν (musaikòn), “opera paziente degna delle Muse”; in latino veniva chiamato opus musivum, cioè “opera delle Muse” oppure “rivestimento applicato alle grotte dedicate alle Muse stesse”. Il richiamo alle Muse è dovuto all'usanza degli antichi romani di costruire, nei giardini delle ville, grotte e anfratti dedicati alle Ninfe (ninpheum) o Muse (musaeum), decorandone le pareti con sassi e conchiglie. Quindi musaeum o musivum indica la grotta e opus musaeum o opus musivum indica il tipo di decorazione murale. In seguito si affermò l'uso dell'aggettivo musaicus ad indicare l'opera musiva. Potrebbe derivare anche dall'arabo muzauwaq, che significa "decorazione". C'è chi, invece, vi ha visto la radice di un vocabolo semita, soprattutto quando la parola viene usata come aggettivo, che potrebbe legarsi al termine "Mosè", quindi "pertinente a Mosè". Sono state indicate anche altre locuzioni, quali musium che significa esprimere qualcosa con diversi colori, oppure museos nel senso di elegante. Le ipotesi però sono molte e nessuna sembra avere titoli sufficienti per prevalere sulle altre. Le tessere erano chiamate in greco ἀβακίσκοι (abakìskoi), quadrelli (da ἄβαξ (àbax), tavoletta), mentre in latino abaculi, tesserae, tessellae.
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