giovedì 26 novembre 2009

Echi dal Novecento pugliese - Mia recensione

“ECHI DAL NOVECENTO PUGLIESE”

La pittura è una poesia che tace, sosteneva Plutarco. È una definizione della pittura che meglio delle altre nelle quali mi sono imbattuto rende l’idea di una manifestazione dello spirito che assume forme espressive in grado di trasmettere emozioni, sensazioni, travagli e turbamenti.
Non vi leggo nel fondo di essa, come diceva Argan, il pensiero o l’immagine della morte, ma il desiderio insopprimibile di comunicare, attraverso un medium umanamente rispettoso, la volontà di essere e di continuare ad esistere. I dipinti sono come tanti paragrafi di un unico codice, esprimono le prime, le intermedie e le ultime volontà dell’artista, gli itinerari della sua ricerca interiore, o meglio le tappe di essa. Non proprio un testamento, ma appunti di un viaggio il cui senso e valore si colgono appieno soltanto al suo termine, quando si ha la visione d’assieme e la memoria prende il posto dell’attualità, l’assenza si muta in presenza, i dettagli si fanno storia, i profeti trionfano nei luoghi natii.
È storia antica. È antica sorte che, tranne qualche eccezione, la fama e la notorietà fioriscano lontano dalle mura domestiche, dai focolari, dai paesi d’origine, che tuttavia costituirono il serbatoio culturale a cui attingere per la combinazione originale delle forme e dei soggetti, dei colori e delle tonalità. Per questo l'uomo abbandonerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una sola carne, si legge nel Genesi[1]. Dando del passo biblico un’interpretazione non letterale o ortodossa, ma artistica e psicologica, potrei affermare che l’abbandono delle certezze consolidate, l’allontanamento dalla cuna dove si è ninnati dall’autorità (o dall’autoritarismo) della tradizione e dalla condiscendenza incondizionata della tranquillità, per unirsi all’arte (la moglie), fondersi con essa in senso biblico, nutre il proprio talento, lo fortifica, lo sviluppa. L’abbandono della patria, quindi, è inscritto nel tema natale d’ogni artista vero, è il prezzo da pagare alla fama, fermo restando che spesso essa si forma misteriosamente post mortem, che è l’estremo andare, l’estremo abbraccio, la fusione assoluta con l'amor che move il sole e l'altre stelle (Paradiso XXXIII, v.145), non a caso l'ultimo verso del Paradiso e della Divina Commedia di Dante.
Ogni pintore dipigne di sé, rifletteva Cosimo I de’ Medici. È vero: all’interno della corrente impressionista, espressionista o cubista si situa la personale esperienza dell’artista, la sua sensibilità, il suo tocco, che sempre provengono da quei luoghi interiori che riflettono i volti e le cose, la roba ed i luoghi vissuti. Il sistema cede qualcosa di sé all’esperienza particolare e si muta in altro, in una finestra spalancata sull’esistenza. A quel balcone tutti possono affacciarsi per lasciarsi toccare dal sublime, che poi è l’essenza di ogni poesia. Con Echi del Novecento Pugliese – Omaggio a Domenico Cantatore, edito per i tipi della Levante Editori Figli di Mario Cavalli di Bari, si è voluto tributare un doveroso omaggio ad alcuni pittori pugliesi del Novecento quali, per citarne alcuni, Giuseppe Ar e Emanuele Cavalli di Lucera, il foggiano Mario Bucci, i baresi Francesco Colella e Michele De Giosa, il ruvese Francesco Di Terlizzi, accomunati per l’appunto dalla pugliesità (una sorta di meridionalismo pittorico, sebbene il meridionalismo attenga alle questioni politiche ed economiche del Sud), dalla emersione dei paesaggi, dei tratti, delle movenze della nostra terra. Un crescendo di opere, un saggio di tele, con un acuto finale, l’arte di Domenico Cantatore, nato a Ruvo di Puglia nel 1906 da famiglia contadina, vissuto in Italia e all’estero, che Salvatore Quasimodo[2] il 17 ottobre 1965 definì “pittore della tenerezza umana”[3].
I curatori del volume e della mostra che si è tenuta a Ruvo di Puglia nell’ex Convento dei Domenicani (certuni si ostinano ad intitolarlo al Maestro, sperando oltre ogni ragionevole speranza, spes contra spem) dal 26 luglio al 9 agosto 2008, Carmelo Cipriani e Domenico Toto, hanno opportunamente “tirato la volata” forse al più celebre fra i pittori pugliesi del Novecento, il quale conferì alla pugliesità rilievo internazionale. Quasi orografo delle facce, che sembrano scavate nella roccia murgiana, solcate dal tempo e dalle avversità, immobili ed eterne, Cantatore si discostò raramente dalle sue umili origini[4], di cui esaltò, in modo tenue e senza eccessi, talvolta attraverso impennate ed accentuazioni di colori e tonalità, i lineamenti essenziali, la frugalità del vivere, quasi l’ineluttabilità dell’esistere alla mercé del destino, su una terra riarsa dal sole, secondo i ritmi della natura, dentro una religiosità quasi ancestrale intrisa di tremori, croci, processioni, humus primordiali. Senza dimenticare i nostri profumi tipici che, oggi sfruttati esclusivamente per finalità di attrattiva turistica o per scopi commerciali, vanno ben oltre il palato del gourmet, sono beni immateriali, spirituali, perché orme, aromi di tempi ed effluvi di anime di cui, a torto o a ragione, si nutre nostalgia. E rammarico, se non conati di colpa, avendo l’uomo sacrificato al dio del progresso un patrimonio di umanità di cui, di tanto in tanto, quasi con intenti catartici, si tessono gli elogi. È un enigma che sa di male o di suprema stupidità: l’uomo apprezza a posteriori quanto ha contribuito a distruggere.
Cipriani e Toto hanno portato a termine un’operazione di salvataggio o di recupero di uno spicchio di memoria, di un bagaglio culturale che – ammettiamolo candidamente – tendiamo a dimenticare a vantaggio spesso di un’arte (sedicente) che non è in grado di comunicare bellezza, stupore, sogno, poesia. Che non seduce perché distante dai contesti e dai contenuti vitali, prossima più al superfluo ed alle leziosità di certi salotti che all’osso e all’aurea simplicitas. Ar, Bucci, Pastina, Notte, Leandro, Di Terlizzi (vi aggiungerei sommessamente, fra gli altri, Michele Chieco[5]) esaltando l’essenziale ne rivelano il nucleo di bellezza e di bontà (l’ambìto connubio etica-estetica), quindi ciò che sostenta la vita e sviluppa gli anticorpi ideali e culturali contro l’aggressione volgare ed ingiuriosa di questi nostri tempi, sovrabbondanti di bruttezza, ignoranza e miseria morale.
Di operazioni culturali di questo genere, che nascono sotto il segno dell’Arte e senza scopi profani, intellettualmente oneste, ce ne vorrebbero molte, specie nelle nostre contrade sudiste, lontane dai circuiti che contano. Non per gareggiare con essi, ma per segnalare con discrezione e garbo una presenza artistica che, forgiatasi nella penuria di ogni cosa tranne che dell’anima, ha ancora molto da comunicare e da insegnare ai grandi e agli eruditi.
Salvatore Bernocco
[1] Gn 2,24.
[2] Poeta e letterato, premio Nobel per la letteratura nel 1959, nasce a Modica il 20 agosto 1901 e muore a Napoli il 14 giugno 1968.
[3] cfr. C. Cipriani, Domenico Cantatore, “pittore della tenerezza umana”, Centro Stampa litografica, Terlizzi, 2006, per i tipi della Associazione Turistica Pro Loco di Ruvo di Puglia, pag. 13.
[4] “Ogni volta che torno è sempre una scoperta, una gioia di rivedere qualcosa che mi appartiene perché le mie radici sono qui e le emozioni hanno sempre un’importanza notevole nel lavoro di un artista. Ruvo rappresenta il mio mondo e la mia memoria” (a cura di C. Cipriani e D. Toto, Echi dal Novecento Pugliese. Omaggio a Domenico Cantatore, Levante Editori Figli di Mario Cavalli, Bari, 2008, pag. 83).
[5] Nato a Santo Spirito nel 1922 e spirato a Barletta nel 1996, Michele Chieco fu un “artista che ha partecipato a circa centocinquanta mostre a carattere nazionale ed internazionale che gli hanno meritato anche la qualifica di membro onorario della Columbian (USA) e di altri importanti sodalizi accademici italiani […]”. In questi termini si apre l’articolo di Vincenzo Amenduni su Il Rubastino, rivista della Pro Loco di Ruvo di Puglia, del bimestre luglio-agosto 1972 (pagg. 9 e 10), intitolato Il messaggio della pittura di Michele Chieco. In esso il docente e sacerdote ruvese scrive che è “un godimento guardare i suoi quadri dai colori limpidi e sfumati, non solo nelle nature morte, ma anche nei paesaggi pugliesi, in quelle campagne che rivelano uno studio dei movimenti inconsci dell’umana esistenza, con gusto ingenuamente misto “romantico” e di “decadente” quale può evidenziarsi nella esasperazione e nella passionalità di un uomo del sud”.

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