In origine vi è il disegno, preceduto semmai dal tratto, dallo schizzo, che ne è un avanzamento verso il “prodotto finito”, il dipinto.
Ma non si creda che il disegno non possa avere e non abbia una sua propria autonomia, una sua propria vita nel contesto dell’arte del ritratto o pittorica.
Così, senza eccessiva forzatura, potrei affermare che vi sono disegni che non balbettano il soggetto pittorico, ma che essi stessi sono temi finiti, consegnati ai cultori del bello, forse meno alla categoria leziosa dei critici, i quali spesso amano crogiolarsi nei codici consolidati (non a caso il grande De Chirico sosteneva che nessun uomo serio e coscienzioso potrebbe attribuirsi il titolo di ‘critico d’arte’). Se compito dell’artista non è rappresentare ma esprimere, come sosteneva van Gogh, è immediato concludere che un disegnatore è un artista a tutto tondo al quale non manca nulla, né talento né espressività; anch’egli è un tornitore di sensi, come un vasaio all’opera al suo tornio, una mano che si libra su un foglio bianco per dare espressione visiva e simbolica a quel mondo interiore che scalcia e scalpita, che si agita a contatto col visibile, che tenta di ritrarne i contenuti estetici a partire da una percezione intima e soggettiva, anch’essa estetica, talvolta nevrotica, il che accade tutte le volte che il futuribile titilla l’anima, tentandola ad una affannosa ed estenuante ricerca di novità di fogge e contenuti.
Qui si va ben oltre l’invito alle forme semplici di Cézanne (“Trattare la natura secondo il cilindro, la sfera, il cono”) o le sei leggi della pittura citate da Shieh Ho, poiché si procede oltre le regole e certo formalismo . Qui si parla di Spirito , il quale talvolta troverebbe arduo adattarsi alla carne, secondo la tesi del grande umanista francese Jean Guitton, sebbene sia lungi da me la visione platonica della scissione fra anima e corpo, più convincente e prossima al vero quella olistica. Eppure per chi coltiva le arti pare si determini una frattura insanabile fra lo “spirito” ed il “bruto”, che Charles Baudelaire, l’inverecondo autore della raccolta poetica Les Fleurs du Mal, esponeva con schietta rozzezza nell’approccio diverso alla sessualità dell’artista rispetto al popolano (“Più l’uomo coltiva le arti, meno scopa. Si ha un divorzio sempre più sensibile fra lo spirito ed il bruto. Soltanto il bruto fotte bene, e fottere è il lirismo del popolo”).
Il testo “Nel Segno del Tratto – Disegni del Novecento Pugliese”, egregiamente curato da Carmelo Cipriani e Domenico Toto, è un inno allo Spirito, un’appendice preziosa e finanche necessaria al volume “Echi dal Novecento Pugliese. Omaggio a Domenico Cantatore”, anch’esso offertoci dai due curatori nel contesto della mostra omonima svoltasi a Ruvo di Puglia dal 26 luglio al 9 agosto del 2008, il quale già conteneva alcuni disegni di Domenico Cantatore (ad esempio, i ritratti di Leonardo Sinisgalli e di Caterina Lelj, entrambi del 1938).
Anche “Nel Segno del Tratto – Disegni del Novecento Pugliese” scaturisce dalla omonima mostra tenutasi nell’ex Convento dei Domenicani di Ruvo dal 10 al 20 settembre del 2009, e ci presenta una raffinata carrellata di disegni di artisti del calibro di Francesco Saverio Netti, Gioacchino Toma, Geremia Re, Francesco Di Terlizzi e Domenico Cantatore, Giuseppe Ar, Antonio Lanave, Antonio Piccini ed altri di non minore talento e tecnica.
Un testo, quello di Cipriani e Toto, che spazia con leggerezza e leggiadria nel mondo del tratto, impropriamente reputato parente povero dell’opera pittorica, e che ci allerta sulla urgenza di conservare e promuovere un patrimonio culturale che, se sa di antico, ci restituisce per tale ragione alle nostre origini, ai volti, alle fisionomie, ai luoghi di un tempo, passato solo per l’incuria, la superficialità e la volgarità di chi, non amando il bello ed ignorando lo Spirito, inevitabilmente sottovaluta o distrugge.
Salvatore Bernocco
Copyright 2010 - Studi Bitontini, n. 88/2009
lunedì 26 luglio 2010
domenica 25 luglio 2010
LA TRADIZIONE TRADITA
Dovremmo partire da un’analisi semantica. Che cosa significa tradizione? Da dove deriva questo termine talvolta abusato, conculcato per transitorie quanto incomprensibili motivazioni, legate alle mode o, peggio ancora, ai capricci di qualcuno?
Dunque, il termine tradizione viene dal latino traditio-onis, ‘consegna, trasmissione’, e deriva da traděre, ‘consegnare’. La tradizione reca in sé il suo tradimento, giacché il verbo tradire deriva anch’esso da traděre. Forse non è un caso. È arduo conservare integro quanto ci è stato tramandato da coloro che ci hanno preceduto, un po’ per sciatteria, un po’ per lassismo, un po’ per il maledetto nuovismo, che è una forma di nevrosi, e un po’ perché vi è il vezzo di voler lasciare un’impronta, la propria, sul suolo della tradizione, come accade alle star di Hollywood sulla Hollywood Boulevard, la celeberrima "strada delle stelle", disseminata di impronte dei divi sul cemento. Un’orma o una ferita. Il risultato è lo stesso che è dato osservare quando un pavimento musivo secolare viene calpestato da centinaia di piedi villici e rozzi: non si distingue più il disegno; i tasselli sopravvissuti appaiono scoloriti; alcune aree sono scarnificate. Insomma, una devastazione che griderebbe vendetta al cospetto di un’autorità garante delle tradizioni, che purtroppo non è stata ancora istituita.
Questo proemio è inerente alla nostra tradizionale festa dell’Ottavario del Corpus Domini, che si tiene nel mese di giugno (almeno questo è scontato e non è soggetto a stravolgimenti). Lo scenario non è più quello tradizionale, ma quello deciso da non si sa bene chi e perché. C’erano una volta cinque altari, cinque momenti di sosta per onorare il SS. Sacramento, in devoto raccoglimento: Piazza Bovio, Corso Carafa (S. Giacomo al Corso), Piazza Matteotti, Porta Nuova (Purgatorio), Piazza Menotti Garibaldi. Questa volta ci sono state tre soste ed un nuovo giro del corteo processionale, che si è snodato per Via Corato e ha fatto tappa nei pressi dell’Ospedale. Il centro storico è andato a farsi benedire. Zero soste, nessun altare: un contributo all’abbandono di un’area che andrebbe valorizzata e che è stata destinata a zona di sosta, sì, ma di autovetture. È sopravvissuta Piazza Matteotti, dove, a detta di molti presenti, il Vescovo ha dettato una meditazione incentrata più sul rispetto delle tradizioni, che palesemente non c’è stato, che sul significato religioso della festa del Corpus Domini. Scarsissimo il raccoglimento, a cui pure i sacerdoti avevano richiamato i fedeli durante le messe celebrate la domenica mattina. Probabilmente ha complottato lo svolgimento contestuale del mercato, enfaticamente chiamato fiera, che, sempre secondo la tradizione, non dovrebbe tenersi. Il mercato, per consuetudine, si tiene infatti il sabato mattina lungo l’Estramurale Pertini, e là dovrebbe restare confinato, senza interferire con la festa religiosa. Glissiamo sul programma delle iniziative di contorno, ancora una volta deludenti. Per mancanza di fondi? Per la mancata contribuzione dei ruvesi? Anche per queste ragioni, certo, sebbene non si veda perché si debba contribuire a sostenere tradizioni che poi verranno tradite e stravolte.
Già numerose – orami innumerevoli – volte, la Pro Loco ha richiamato l’attenzione delle istituzioni civili e religiose sulla necessità di salvaguardare le tradizioni culturali, religiose, popolari della nostra città, dedicando riflessioni pubbliche puntuali proprio alla festa patronale dell’Ottavario del Corpus Domini. Dobbiamo constatare che il silenzio sul punto è frastornante. Nessuna iniziativa degna di nota è stata assunta per rimettere ordine nel caos della festa ed arginare le mene di qualcuno.
La festa patronale è patrimonio di tutti i ruvesi. Non è appannaggio di questo o di quello. Se si partisse da questo assunto di base, probabilmente si farebbe qualche passo avanti. Purtroppo temiamo che anche questa volta il nostro appello cadrà nel vuoto, certificando l’insensibilità di certi poteri nei confronti di un paese che vanta tradizioni secolari.
Salvatore Bernocco
Copyright 2010 Il Rubastino
Dunque, il termine tradizione viene dal latino traditio-onis, ‘consegna, trasmissione’, e deriva da traděre, ‘consegnare’. La tradizione reca in sé il suo tradimento, giacché il verbo tradire deriva anch’esso da traděre. Forse non è un caso. È arduo conservare integro quanto ci è stato tramandato da coloro che ci hanno preceduto, un po’ per sciatteria, un po’ per lassismo, un po’ per il maledetto nuovismo, che è una forma di nevrosi, e un po’ perché vi è il vezzo di voler lasciare un’impronta, la propria, sul suolo della tradizione, come accade alle star di Hollywood sulla Hollywood Boulevard, la celeberrima "strada delle stelle", disseminata di impronte dei divi sul cemento. Un’orma o una ferita. Il risultato è lo stesso che è dato osservare quando un pavimento musivo secolare viene calpestato da centinaia di piedi villici e rozzi: non si distingue più il disegno; i tasselli sopravvissuti appaiono scoloriti; alcune aree sono scarnificate. Insomma, una devastazione che griderebbe vendetta al cospetto di un’autorità garante delle tradizioni, che purtroppo non è stata ancora istituita.
Questo proemio è inerente alla nostra tradizionale festa dell’Ottavario del Corpus Domini, che si tiene nel mese di giugno (almeno questo è scontato e non è soggetto a stravolgimenti). Lo scenario non è più quello tradizionale, ma quello deciso da non si sa bene chi e perché. C’erano una volta cinque altari, cinque momenti di sosta per onorare il SS. Sacramento, in devoto raccoglimento: Piazza Bovio, Corso Carafa (S. Giacomo al Corso), Piazza Matteotti, Porta Nuova (Purgatorio), Piazza Menotti Garibaldi. Questa volta ci sono state tre soste ed un nuovo giro del corteo processionale, che si è snodato per Via Corato e ha fatto tappa nei pressi dell’Ospedale. Il centro storico è andato a farsi benedire. Zero soste, nessun altare: un contributo all’abbandono di un’area che andrebbe valorizzata e che è stata destinata a zona di sosta, sì, ma di autovetture. È sopravvissuta Piazza Matteotti, dove, a detta di molti presenti, il Vescovo ha dettato una meditazione incentrata più sul rispetto delle tradizioni, che palesemente non c’è stato, che sul significato religioso della festa del Corpus Domini. Scarsissimo il raccoglimento, a cui pure i sacerdoti avevano richiamato i fedeli durante le messe celebrate la domenica mattina. Probabilmente ha complottato lo svolgimento contestuale del mercato, enfaticamente chiamato fiera, che, sempre secondo la tradizione, non dovrebbe tenersi. Il mercato, per consuetudine, si tiene infatti il sabato mattina lungo l’Estramurale Pertini, e là dovrebbe restare confinato, senza interferire con la festa religiosa. Glissiamo sul programma delle iniziative di contorno, ancora una volta deludenti. Per mancanza di fondi? Per la mancata contribuzione dei ruvesi? Anche per queste ragioni, certo, sebbene non si veda perché si debba contribuire a sostenere tradizioni che poi verranno tradite e stravolte.
Già numerose – orami innumerevoli – volte, la Pro Loco ha richiamato l’attenzione delle istituzioni civili e religiose sulla necessità di salvaguardare le tradizioni culturali, religiose, popolari della nostra città, dedicando riflessioni pubbliche puntuali proprio alla festa patronale dell’Ottavario del Corpus Domini. Dobbiamo constatare che il silenzio sul punto è frastornante. Nessuna iniziativa degna di nota è stata assunta per rimettere ordine nel caos della festa ed arginare le mene di qualcuno.
La festa patronale è patrimonio di tutti i ruvesi. Non è appannaggio di questo o di quello. Se si partisse da questo assunto di base, probabilmente si farebbe qualche passo avanti. Purtroppo temiamo che anche questa volta il nostro appello cadrà nel vuoto, certificando l’insensibilità di certi poteri nei confronti di un paese che vanta tradizioni secolari.
Salvatore Bernocco
Copyright 2010 Il Rubastino
Etichette:
Ottavario del Corpus Domini,
Tradizione
LA CABALA
Il giovane Pasquale De Palo lascia la segreteria del PD ed al suo posto si insedia Caterina Montaruli, frequentatrice di lungo corso della politica ruvestina, già candidata a sindaco per il centrosinistra e consigliere comunale. La scelta della Montaruli sembra derivare da un accordo fra l’area degli ex popolari (grassiani), quella che fa capo all’Assessore regionale Minervini e qualche ex pidiessino. Non tutti erano d’accordo, al di là della raggiunta unanimità. Obiettivo inconfessato: arginare l’influenza politica di qualcun altro? Potrebbe darsi, non mi meraviglierei più di tanto. Ci sono incrostazioni e vecchie logiche che potrebbero dileguarsi solo se ci fosse un generale repulisti, cosa altamente improbabile. Le rivoluzioni radicali non piacciono a nessuno, specie nella nostra Ruvo dove gli intrecci parentali ed amicali (e gli interessi personali e di cordata) condizionano pesantemente il quadro politico e la sua evoluzione. Ma non sono bene accette neppure le mezze rivoluzioni, un po’ per amore del quieto vivere, un po’ perché si temono ripercussioni, punizioni trasversali, convergenze parallele. E mi sovviene quanto mi confidò mio padre anni or sono con riguardo all’ambito politico e non solo: a Ruvo tutti hanno paura di tutti. Le pecore prevalgono, e di molto, sui leoni. Le lepri, poi, non si contano, e le iene e gli avvoltoi si aggirano minacciosi intorno ai presunti cadaveri politici.
A ben vedere, quindi, le rivoluzioni non piacciono proprio, e ciò è segno di stagnazione e di chiusura. Lo stesso ex segretario del PD è stato molto esplicito al riguardo nel corso della sua brillante ed applaudita relazione, quando ha detto che a Ruvo “il tempo degli “ex-qualcosa” è finito, il tempo dei “neo” non è ancora maturato, ma nel contempo si sono create e solidificate diverse sensibilità nel nostro partito ruvese, sulla base di fattori aggreganti a me poco chiari. Si è scelta la strada breve dell’individuare l’unitarietà delle candidature, quella facile dei numeri, non già quella della condivisione di percorsi ed obiettivi.” Il questo passaggio c’è tutto il reale disagio di un giovane segretario che ha dovuto prendere atto della mancata rivoluzione, totale e parziale, che è prima culturale e quindi politica. È storia francamente non nuova, e mi sorprende che ci si possa ancora sorprendere del fatto che la politica tenda a rinnovare se stessa senza rinnovare un fico secco, in un gioco lezioso di parole che fanno da contorno a scenari triti e ritriti. Il Gattopardo docet. In politica si va dall’estetista per rifarsi il look e dare una limata alle unghie, che comunque restano ben affilate come lame di coltelli. Questa è la politica con la “p” minuscola. Le maiuscole appartengono al mondo delle utopie e soltanto agli esordi dei periodi. Non è forse vero che in ortografia il punto è seguito dalla lettera maiuscola? Dopo, inevitabilmente, seguono le minuscole, e dal Bolscioi si transita ai teatrini di provincia, maleodoranti e pregni di fumo, in un batter d’occhio, con tutto, o quasi, il carro di Tespi. Durante il tragitto i meloni si assestano: non si deve disturbare il manovratore, e con gli altri meloni è saggio andare d’amore e d’accordo. Dal lifting e dall’alta chirurgia plastica alla cafonaggine delle dita nel naso il passo è breve, talvolta impercettibile. Molti se ne accorgono ma si distraggono e girano la testa dall’altro lato: il galateo lasciamolo ai salotti e alle cene di gala, la politica è lacrime e sangue, dicono, sgomitate e compromesso, perché no! La polvere intanto si deposita sui mobili delle tradizioni e delle culture politiche d’origine. Le occasioni mancate gridano vendetta al cospetto dei grandi del pensiero politico e di quanti, di tutti gli schieramenti politici, consentirono a Ruvo di fare un salto di qualità, molto, ma molto tempo addietro.
Intanto il centrosinistra candiderà chi? Stragapede? Ottombrini? Crispino? Le scommesse sono aperte. Siamo alla cabala. Varrà la logica del consenso interno o quella della qualità programmatica? Si terrà conto del gradimento dell’opinione pubblica o dei consuntivi? Si partirà, come è giusto che sia, da un esame dell’attività amministrativa svolta o non svolta in questi cinque anni, evidenziandone luci ed ombre, terrazzi e scantinati, oppure se ne farà pregiudizialmente a meno, aderendo all’invalso luogo comune per cui questa Amministrazione ha fatto poco o non ha fatto niente?
Nel PDL siamo alla bagarre. Accuse incrociate, minacce di stroncare carriere e di commissariamenti sono state affidate a documenti di chiara provenienza, a dichiarazioni più o meno pubbliche e alle voci della notte. Giovanni Mazzone, e non solo, si è opposto a Matteo Paparella, il quale ha messo sul tavolo una questione politica: l’autoreferenzialità del direttivo del PDL, sublimando il disagio del coordinatore Salvatore Barile e mettendo sul banco degli imputati Mazzone, il quale, come altri dirigenti del PDL, devono “dimostrare di avere una personale legittimazione elettorale verificabile con consultazioni elettorali amministrative che ne attestino il reale radicamento sul territorio. Trattasi evidentemente di un antica regola democratica propedeutica per legittimare aspettative personali elettive comunque di rappresentanza a tutti i livelli”.
Intelligenti pauca. Qui c’è sotto la questione dei patti non mantenuti, che siano della crostata, della braciola o del caminetto poco importa. Chi fu a rompere il patto di ferro fra le componenti interne, ora carta straccia, Paparella o Fitto? Avrebbe potuto il candidato locale del PDL alle Regionali opporre il grande rifiuto, alla maniera di Celestino V? Che cosa si siano detti Fitto e Paparella non si sa. I colloqui sono privati e coperti da una coltre di segreto. Tuttavia, secondo un’antica quanto saggia regola, pacta sunt servanda, i patti si onorano. Sempre. Il proprio contributo consistente alla campagna elettorale di un altro si può dare anche stando dietro le quinte, lavorando per questi dopo che questi si è prodigato in altre occasioni. Non si deve lavorare solo per se stessi. Su questo ci sono pochi dubbi: le parole date non si ritirano, se non in un caso, se c’è l’accordo comune ed una nuova intesa. Nel frattempo, chi subisce i contraccolpi di questa querelle è il candidato a sindaco del centrodestra, Franco Catalano, lanciato in tempi di bonaccia, forse con largo anticipo. Alcuni danno ora in bilico la sua candidatura, indebolita dalla frattura interna al PDL, che potrebbe aprire scenari inediti. Di certo c’è che, come un regno diviso al suo interno è destinato a perire, così una coalizione lacerata semplicemente non c’è più, è destinata ad implodere. E, temo, a seppellire chi avrebbe dovuto condurla alla vittoria.
Salvatore Bernocco
Copyright 2010 Il Rubastino
A ben vedere, quindi, le rivoluzioni non piacciono proprio, e ciò è segno di stagnazione e di chiusura. Lo stesso ex segretario del PD è stato molto esplicito al riguardo nel corso della sua brillante ed applaudita relazione, quando ha detto che a Ruvo “il tempo degli “ex-qualcosa” è finito, il tempo dei “neo” non è ancora maturato, ma nel contempo si sono create e solidificate diverse sensibilità nel nostro partito ruvese, sulla base di fattori aggreganti a me poco chiari. Si è scelta la strada breve dell’individuare l’unitarietà delle candidature, quella facile dei numeri, non già quella della condivisione di percorsi ed obiettivi.” Il questo passaggio c’è tutto il reale disagio di un giovane segretario che ha dovuto prendere atto della mancata rivoluzione, totale e parziale, che è prima culturale e quindi politica. È storia francamente non nuova, e mi sorprende che ci si possa ancora sorprendere del fatto che la politica tenda a rinnovare se stessa senza rinnovare un fico secco, in un gioco lezioso di parole che fanno da contorno a scenari triti e ritriti. Il Gattopardo docet. In politica si va dall’estetista per rifarsi il look e dare una limata alle unghie, che comunque restano ben affilate come lame di coltelli. Questa è la politica con la “p” minuscola. Le maiuscole appartengono al mondo delle utopie e soltanto agli esordi dei periodi. Non è forse vero che in ortografia il punto è seguito dalla lettera maiuscola? Dopo, inevitabilmente, seguono le minuscole, e dal Bolscioi si transita ai teatrini di provincia, maleodoranti e pregni di fumo, in un batter d’occhio, con tutto, o quasi, il carro di Tespi. Durante il tragitto i meloni si assestano: non si deve disturbare il manovratore, e con gli altri meloni è saggio andare d’amore e d’accordo. Dal lifting e dall’alta chirurgia plastica alla cafonaggine delle dita nel naso il passo è breve, talvolta impercettibile. Molti se ne accorgono ma si distraggono e girano la testa dall’altro lato: il galateo lasciamolo ai salotti e alle cene di gala, la politica è lacrime e sangue, dicono, sgomitate e compromesso, perché no! La polvere intanto si deposita sui mobili delle tradizioni e delle culture politiche d’origine. Le occasioni mancate gridano vendetta al cospetto dei grandi del pensiero politico e di quanti, di tutti gli schieramenti politici, consentirono a Ruvo di fare un salto di qualità, molto, ma molto tempo addietro.
Intanto il centrosinistra candiderà chi? Stragapede? Ottombrini? Crispino? Le scommesse sono aperte. Siamo alla cabala. Varrà la logica del consenso interno o quella della qualità programmatica? Si terrà conto del gradimento dell’opinione pubblica o dei consuntivi? Si partirà, come è giusto che sia, da un esame dell’attività amministrativa svolta o non svolta in questi cinque anni, evidenziandone luci ed ombre, terrazzi e scantinati, oppure se ne farà pregiudizialmente a meno, aderendo all’invalso luogo comune per cui questa Amministrazione ha fatto poco o non ha fatto niente?
Nel PDL siamo alla bagarre. Accuse incrociate, minacce di stroncare carriere e di commissariamenti sono state affidate a documenti di chiara provenienza, a dichiarazioni più o meno pubbliche e alle voci della notte. Giovanni Mazzone, e non solo, si è opposto a Matteo Paparella, il quale ha messo sul tavolo una questione politica: l’autoreferenzialità del direttivo del PDL, sublimando il disagio del coordinatore Salvatore Barile e mettendo sul banco degli imputati Mazzone, il quale, come altri dirigenti del PDL, devono “dimostrare di avere una personale legittimazione elettorale verificabile con consultazioni elettorali amministrative che ne attestino il reale radicamento sul territorio. Trattasi evidentemente di un antica regola democratica propedeutica per legittimare aspettative personali elettive comunque di rappresentanza a tutti i livelli”.
Intelligenti pauca. Qui c’è sotto la questione dei patti non mantenuti, che siano della crostata, della braciola o del caminetto poco importa. Chi fu a rompere il patto di ferro fra le componenti interne, ora carta straccia, Paparella o Fitto? Avrebbe potuto il candidato locale del PDL alle Regionali opporre il grande rifiuto, alla maniera di Celestino V? Che cosa si siano detti Fitto e Paparella non si sa. I colloqui sono privati e coperti da una coltre di segreto. Tuttavia, secondo un’antica quanto saggia regola, pacta sunt servanda, i patti si onorano. Sempre. Il proprio contributo consistente alla campagna elettorale di un altro si può dare anche stando dietro le quinte, lavorando per questi dopo che questi si è prodigato in altre occasioni. Non si deve lavorare solo per se stessi. Su questo ci sono pochi dubbi: le parole date non si ritirano, se non in un caso, se c’è l’accordo comune ed una nuova intesa. Nel frattempo, chi subisce i contraccolpi di questa querelle è il candidato a sindaco del centrodestra, Franco Catalano, lanciato in tempi di bonaccia, forse con largo anticipo. Alcuni danno ora in bilico la sua candidatura, indebolita dalla frattura interna al PDL, che potrebbe aprire scenari inediti. Di certo c’è che, come un regno diviso al suo interno è destinato a perire, così una coalizione lacerata semplicemente non c’è più, è destinata ad implodere. E, temo, a seppellire chi avrebbe dovuto condurla alla vittoria.
Salvatore Bernocco
Copyright 2010 Il Rubastino
Etichette:
Catalano,
Paparella,
Politica,
Ruvo di Puglia
giovedì 15 luglio 2010
IL PDL SI SPACCA
Cosa sta succedendo in casa PDL? Ci sono frange finiane in rivolta che reclamano decisioni collegiali, che sgomitano per ottenere più spazio, che si battono per sterilizzare altre frange che, stando ad un comunicato diramato dai paparelliani (tanto per esemplificare), comandano troppo pur non avendo ottenuto nessun consenso popolare? Quanto vale sotto il profilo politico chi non si è mai candidato a niente? Questa è la sottolineatura di fondo dei paparelliani. Oppure tutto nasce da un accordo siglato qualche tempo addietro, poco prima delle elezioni provinciali, quando si decise il tridente da schierare agli appuntamenti elettorali: Franco Catalano, candidato alla carica di sindaco; Matteo Paparella, candidato al Consiglio provinciale; Antonello Paparella o un altro politico di area ex AN, candidato alle regionali? Un patto di ferro sancito pubblicamente, con annessa foto di gruppo. Tutti soddisfatti. Tutti al settimo cielo. Col placet dei coordinatori Giovanni Mazzone e Salvatore Barile.
I finiani non c’entrano niente. Crediamo che a Ruvo non ce ne siano o, se ci sono, non ne siamo a conoscenza. Di vero c’è che Matteo Paparella entra in Consiglio provinciale e viene nominato assessore. Una risurrezione politica in piena regola che molti non si aspettavano. A chi va il merito? Chi ha vestito i panni del Cristo che risuscita Lazzaro? Qui la questione si fa un tantino delicata, proprio perché tira in ballo il potenziale elettorale dei singoli, la capacità organizzativa di un partito, il lavoro dei coordinatori e dei comitati. Ebbene, secondo alcuni si sarebbe trattato di auto-resurrezione, nel senso che Paparella avrebbe fatto tutto da solo, secondo la tradizione anglosassone del selfmade man o sulla scia del vecchio adagio italico “chi fa da sé fa per tre”. Secondo altri, l’apporto dei coordinatori, consiglieri, componenti del direttivo, sarebbe stato decisivo. Comunque stiano le cose, fatto sta che, probabilmente galvanizzato dal consenso ottenuto, Paparella non seppe resistere alle avance del Ministro Raffaele Fitto, il quale gli avrebbe chiesto di candidarsi al Consiglio regionale per sostenere la candidatura, deboluccia, di Rocco Palese. Il patto di ferro si sfarina, nascono i primi dissensi. Il coordinatore Mazzone, che pure si era impegnato perché Paparella entrasse in Giunta, minaccia di dimettersi. Per un certo periodo si dimette. Poi, sollecitato dai vertici sovracomunali del partito, vi rientra, ma con un suo piglio e con le sue ragioni. I patti vanno mantenuti, disse. Come non dargli ragione?
Due domande nascono spontanee. Fitto decide ed il PDL ruvese non ne sa nulla? Grave mancanza di tatto. Scarsissimo rispetto per gli organismi di partito. I dissidenti/dissenzienti prendono strade diverse, appoggiano candidati forestieri, portano via fette di consenso al candidato locale. La resa dei conti è già nell’aria, e si terrà subito dopo l’esito elettorale, negativo tanto per Palese che per Paparella.
Seconda domanda: perché non chiedere la convocazione dell’organismo interno di partito e discutere della scelta di Fitto o di chi per lui? Che cosa sarebbe accaduto di così grave? Posti di fronte alla decisione inappellabile del leader indiscusso del PDL pugliese, pensiamo che nessuno avrebbe potuto eccepire alcunché. Si sarebbe preso atto. Si sarebbero rivisti i termini dell’accordo iniziale. Si sarebbero trovati altri aggiustamenti. Così non è stato. Il mistero è Fitto.
Duro scontro interno, dunque. Una riunione finita in malo modo. Mazzone che attacca Paparella, il quale, per tutta risposta, articola un documento politico in cui, sostanzialmente, si chiede la sua destituzione, anzi il commissariamento della sezione. Viene salvato, non si sa bene perché, Salvatore Barile. I firmatari del documento si asterranno dal partecipare alle riunioni del direttivo fino a soluzione del problema da parte degli organismi di partito sovracomunali. Contro-documento puntuale del Coordinamento, anch’esso sottoposto a Bari, firmato da consiglieri comunali e componenti del direttivo, la maggioranza.
Dove condurrà questa diatriba? Di certo c’è che essa rischia seriamente di danneggiare il cammino del candidato a sindaco del centrodestra, Francesco Catalano, lanciato forse troppo presto ed in epoca di bonaccia. Poi, com’è noto e risaputo, in politica le cose cambiano. Basta un nonnulla per far saltare tavoli ed accordi e semmai immaginare candidature a sindaco fuori dagli accordi primigeni. Oppure, come profetizzò il Lupo Marsicano, alias Franco Marini, il momento migliore per siglare un accordo a tenuta stagna è proprio quello di massimo conflitto. Staremo a vedere.
Salvatore Bernocco
Copyright 2010 La Nuova Città
BONIFICHE E CONVERSIONI: PER UN’ESTATE DI RIPENSAMENTI
Stamattina, appena alzato e prima di correre al mare, mi sono casualmente imbattuto in un pensiero del padre gesuita indiano Anthony de Mello (1931-1987): “La religione non è una questione di rituali o di studi accademici. Non è un tipo di culto o compiere delle buone azioni. La religione consiste nello sradicare le impurità del cuore. Questa è la via da percorrere per incontrare Dio.” È proprio così: la religione può essere una manifestazione puramente esteriore che lascia intatto il desolante quadro interiore. Nessun reale cambiamento, nessuna bonifica dei pensieri, nessuna conversione del cuore, ma esteriorità, rituale, paravento che cela ogni sorta di deficienza morale e spirituale. Quelle che de Mello chiama “le buone azioni” possono anch’esse veicolare all’esterno il nostro egoismo, per cui compio una buona azione per gratificare il mio ego piuttosto che per vero amore del mio prossimo. Peggio ancora sarebbe compiere una buona azione per amore di Dio e non dell’uomo, col quale Dio ha voluto identificarsi.
E che dire di certa teologia (gli “studi accademici”) che scava nel mistero insondabile di Dio, confondendo le acque e tramutando il Vangelo in testo filosofico? Comprendere sempre meglio il Vangelo non implica un atto o uno sforzo intellettuale, ma l’adozione di un altro modus vivendi: farsi piccoli, perché soltanto i piccoli, gli umili, i dimenticati hanno accesso alle profondità del mistero di Dio. È Dio stesso che si mostra ai suoi piccoli senza mediazioni umane. L’accesso al cuore del Padre dei poveri è precluso ai dotti ed ai sapienti. Lo ha detto il Cristo: “Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli” (Mt 11, 25-30). Chi sono “i piccoli”? Qualcuno asserisce che siano i discepoli. Può darsi, sebbene preferisca pensare agli umili, ai pastori che si recarono alla grotta di Betlemme, ai tre pastorelli di Fatima, a Bernadette Soubirous, all'indio Juan Diego, al quale apparve la Madonna a Guadalupe, in Messico, a san Francesco D’Assisi. Povertà nel senso letterale del termine, semplicità, assenza di beni cui attaccarsi, rinuncia e distacco dalle sicurezze del denaro e del potere per aderire alle ricchezze del Cristo.
Dobbiamo essere sinceri. Dire la verità non è mai peccato, anzi. C’è una parte della Chiesa-istituzione che cinguetta col potere. Ci sono stati e ci sono esempi nella Chiesa cattolica da non seguire. Alla implacabilità dei principi morali impartiti al popolo dei fedeli non sempre ha corrisposto un comportamento moralmente ineccepibile da parte di molti aderenti alla Chiesa cattolica, si tratti di prelati, di sacerdoti, di suore o di semplici fedeli laici. Portiamo sulle spalle un fardello pesante di responsabilità verso il mondo, al quale avremmo dovuto rivelare il Cristo nella sua onnipotenza d’amore e di salvezza. Sua Santità Benedetto XVI ha ammesso, con verità e senza mezzi termini, che il pericolo peggiore per la Chiesa viene dal suo interno, dal peccato dei suoi membri. È una dichiarazione di forte impatto e dalle molteplici prospettive, cui faranno seguito atti consequenziali. Questo Papa non è affatto debole, sta affrontando con coraggio e fermezza molti nodi venuti al pettine, e lo farà al meglio delle sue possibilità.
È una fase di catarsi e di conversione dei cuori. È una stagione delicata, dolorosa, ma necessaria. Dal male Dio trarrà il bene. Ciascuno di noi è interpellato a collaborare a questo rinnovamento morale e spirituale, partendo da se stesso, dalle proprie azioni, dalle proprie idee, che vanno ri-orientate. Bonificarci per bonificare ed essere meno indegni di Colui che diede la vita per noi. È il compito per questa estate. Arrivederci a settembre! Salvatore Bernocco
Copyright 2010 Fermento, Luglio-Agosto 2010
E che dire di certa teologia (gli “studi accademici”) che scava nel mistero insondabile di Dio, confondendo le acque e tramutando il Vangelo in testo filosofico? Comprendere sempre meglio il Vangelo non implica un atto o uno sforzo intellettuale, ma l’adozione di un altro modus vivendi: farsi piccoli, perché soltanto i piccoli, gli umili, i dimenticati hanno accesso alle profondità del mistero di Dio. È Dio stesso che si mostra ai suoi piccoli senza mediazioni umane. L’accesso al cuore del Padre dei poveri è precluso ai dotti ed ai sapienti. Lo ha detto il Cristo: “Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli” (Mt 11, 25-30). Chi sono “i piccoli”? Qualcuno asserisce che siano i discepoli. Può darsi, sebbene preferisca pensare agli umili, ai pastori che si recarono alla grotta di Betlemme, ai tre pastorelli di Fatima, a Bernadette Soubirous, all'indio Juan Diego, al quale apparve la Madonna a Guadalupe, in Messico, a san Francesco D’Assisi. Povertà nel senso letterale del termine, semplicità, assenza di beni cui attaccarsi, rinuncia e distacco dalle sicurezze del denaro e del potere per aderire alle ricchezze del Cristo.
Dobbiamo essere sinceri. Dire la verità non è mai peccato, anzi. C’è una parte della Chiesa-istituzione che cinguetta col potere. Ci sono stati e ci sono esempi nella Chiesa cattolica da non seguire. Alla implacabilità dei principi morali impartiti al popolo dei fedeli non sempre ha corrisposto un comportamento moralmente ineccepibile da parte di molti aderenti alla Chiesa cattolica, si tratti di prelati, di sacerdoti, di suore o di semplici fedeli laici. Portiamo sulle spalle un fardello pesante di responsabilità verso il mondo, al quale avremmo dovuto rivelare il Cristo nella sua onnipotenza d’amore e di salvezza. Sua Santità Benedetto XVI ha ammesso, con verità e senza mezzi termini, che il pericolo peggiore per la Chiesa viene dal suo interno, dal peccato dei suoi membri. È una dichiarazione di forte impatto e dalle molteplici prospettive, cui faranno seguito atti consequenziali. Questo Papa non è affatto debole, sta affrontando con coraggio e fermezza molti nodi venuti al pettine, e lo farà al meglio delle sue possibilità.
È una fase di catarsi e di conversione dei cuori. È una stagione delicata, dolorosa, ma necessaria. Dal male Dio trarrà il bene. Ciascuno di noi è interpellato a collaborare a questo rinnovamento morale e spirituale, partendo da se stesso, dalle proprie azioni, dalle proprie idee, che vanno ri-orientate. Bonificarci per bonificare ed essere meno indegni di Colui che diede la vita per noi. È il compito per questa estate. Arrivederci a settembre! Salvatore Bernocco
Copyright 2010 Fermento, Luglio-Agosto 2010
Iscriviti a:
Post (Atom)