domenica 29 novembre 2009



Dio non è l’ultimo arrivato. L’ultimo arrivato sei tu, che pure ti rifiuti di aprire la porta del cuore a chi era prima di te e ti ha tessuto nel grembo di tua madre. Non ti sembra un’assurdità, oltre che un gesto di scortesia, chiudere la porta in faccia al tuo parente più intimo?

giovedì 26 novembre 2009

Echi dal Novecento pugliese - Mia recensione

“ECHI DAL NOVECENTO PUGLIESE”

La pittura è una poesia che tace, sosteneva Plutarco. È una definizione della pittura che meglio delle altre nelle quali mi sono imbattuto rende l’idea di una manifestazione dello spirito che assume forme espressive in grado di trasmettere emozioni, sensazioni, travagli e turbamenti.
Non vi leggo nel fondo di essa, come diceva Argan, il pensiero o l’immagine della morte, ma il desiderio insopprimibile di comunicare, attraverso un medium umanamente rispettoso, la volontà di essere e di continuare ad esistere. I dipinti sono come tanti paragrafi di un unico codice, esprimono le prime, le intermedie e le ultime volontà dell’artista, gli itinerari della sua ricerca interiore, o meglio le tappe di essa. Non proprio un testamento, ma appunti di un viaggio il cui senso e valore si colgono appieno soltanto al suo termine, quando si ha la visione d’assieme e la memoria prende il posto dell’attualità, l’assenza si muta in presenza, i dettagli si fanno storia, i profeti trionfano nei luoghi natii.
È storia antica. È antica sorte che, tranne qualche eccezione, la fama e la notorietà fioriscano lontano dalle mura domestiche, dai focolari, dai paesi d’origine, che tuttavia costituirono il serbatoio culturale a cui attingere per la combinazione originale delle forme e dei soggetti, dei colori e delle tonalità. Per questo l'uomo abbandonerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una sola carne, si legge nel Genesi[1]. Dando del passo biblico un’interpretazione non letterale o ortodossa, ma artistica e psicologica, potrei affermare che l’abbandono delle certezze consolidate, l’allontanamento dalla cuna dove si è ninnati dall’autorità (o dall’autoritarismo) della tradizione e dalla condiscendenza incondizionata della tranquillità, per unirsi all’arte (la moglie), fondersi con essa in senso biblico, nutre il proprio talento, lo fortifica, lo sviluppa. L’abbandono della patria, quindi, è inscritto nel tema natale d’ogni artista vero, è il prezzo da pagare alla fama, fermo restando che spesso essa si forma misteriosamente post mortem, che è l’estremo andare, l’estremo abbraccio, la fusione assoluta con l'amor che move il sole e l'altre stelle (Paradiso XXXIII, v.145), non a caso l'ultimo verso del Paradiso e della Divina Commedia di Dante.
Ogni pintore dipigne di sé, rifletteva Cosimo I de’ Medici. È vero: all’interno della corrente impressionista, espressionista o cubista si situa la personale esperienza dell’artista, la sua sensibilità, il suo tocco, che sempre provengono da quei luoghi interiori che riflettono i volti e le cose, la roba ed i luoghi vissuti. Il sistema cede qualcosa di sé all’esperienza particolare e si muta in altro, in una finestra spalancata sull’esistenza. A quel balcone tutti possono affacciarsi per lasciarsi toccare dal sublime, che poi è l’essenza di ogni poesia. Con Echi del Novecento Pugliese – Omaggio a Domenico Cantatore, edito per i tipi della Levante Editori Figli di Mario Cavalli di Bari, si è voluto tributare un doveroso omaggio ad alcuni pittori pugliesi del Novecento quali, per citarne alcuni, Giuseppe Ar e Emanuele Cavalli di Lucera, il foggiano Mario Bucci, i baresi Francesco Colella e Michele De Giosa, il ruvese Francesco Di Terlizzi, accomunati per l’appunto dalla pugliesità (una sorta di meridionalismo pittorico, sebbene il meridionalismo attenga alle questioni politiche ed economiche del Sud), dalla emersione dei paesaggi, dei tratti, delle movenze della nostra terra. Un crescendo di opere, un saggio di tele, con un acuto finale, l’arte di Domenico Cantatore, nato a Ruvo di Puglia nel 1906 da famiglia contadina, vissuto in Italia e all’estero, che Salvatore Quasimodo[2] il 17 ottobre 1965 definì “pittore della tenerezza umana”[3].
I curatori del volume e della mostra che si è tenuta a Ruvo di Puglia nell’ex Convento dei Domenicani (certuni si ostinano ad intitolarlo al Maestro, sperando oltre ogni ragionevole speranza, spes contra spem) dal 26 luglio al 9 agosto 2008, Carmelo Cipriani e Domenico Toto, hanno opportunamente “tirato la volata” forse al più celebre fra i pittori pugliesi del Novecento, il quale conferì alla pugliesità rilievo internazionale. Quasi orografo delle facce, che sembrano scavate nella roccia murgiana, solcate dal tempo e dalle avversità, immobili ed eterne, Cantatore si discostò raramente dalle sue umili origini[4], di cui esaltò, in modo tenue e senza eccessi, talvolta attraverso impennate ed accentuazioni di colori e tonalità, i lineamenti essenziali, la frugalità del vivere, quasi l’ineluttabilità dell’esistere alla mercé del destino, su una terra riarsa dal sole, secondo i ritmi della natura, dentro una religiosità quasi ancestrale intrisa di tremori, croci, processioni, humus primordiali. Senza dimenticare i nostri profumi tipici che, oggi sfruttati esclusivamente per finalità di attrattiva turistica o per scopi commerciali, vanno ben oltre il palato del gourmet, sono beni immateriali, spirituali, perché orme, aromi di tempi ed effluvi di anime di cui, a torto o a ragione, si nutre nostalgia. E rammarico, se non conati di colpa, avendo l’uomo sacrificato al dio del progresso un patrimonio di umanità di cui, di tanto in tanto, quasi con intenti catartici, si tessono gli elogi. È un enigma che sa di male o di suprema stupidità: l’uomo apprezza a posteriori quanto ha contribuito a distruggere.
Cipriani e Toto hanno portato a termine un’operazione di salvataggio o di recupero di uno spicchio di memoria, di un bagaglio culturale che – ammettiamolo candidamente – tendiamo a dimenticare a vantaggio spesso di un’arte (sedicente) che non è in grado di comunicare bellezza, stupore, sogno, poesia. Che non seduce perché distante dai contesti e dai contenuti vitali, prossima più al superfluo ed alle leziosità di certi salotti che all’osso e all’aurea simplicitas. Ar, Bucci, Pastina, Notte, Leandro, Di Terlizzi (vi aggiungerei sommessamente, fra gli altri, Michele Chieco[5]) esaltando l’essenziale ne rivelano il nucleo di bellezza e di bontà (l’ambìto connubio etica-estetica), quindi ciò che sostenta la vita e sviluppa gli anticorpi ideali e culturali contro l’aggressione volgare ed ingiuriosa di questi nostri tempi, sovrabbondanti di bruttezza, ignoranza e miseria morale.
Di operazioni culturali di questo genere, che nascono sotto il segno dell’Arte e senza scopi profani, intellettualmente oneste, ce ne vorrebbero molte, specie nelle nostre contrade sudiste, lontane dai circuiti che contano. Non per gareggiare con essi, ma per segnalare con discrezione e garbo una presenza artistica che, forgiatasi nella penuria di ogni cosa tranne che dell’anima, ha ancora molto da comunicare e da insegnare ai grandi e agli eruditi.
Salvatore Bernocco
[1] Gn 2,24.
[2] Poeta e letterato, premio Nobel per la letteratura nel 1959, nasce a Modica il 20 agosto 1901 e muore a Napoli il 14 giugno 1968.
[3] cfr. C. Cipriani, Domenico Cantatore, “pittore della tenerezza umana”, Centro Stampa litografica, Terlizzi, 2006, per i tipi della Associazione Turistica Pro Loco di Ruvo di Puglia, pag. 13.
[4] “Ogni volta che torno è sempre una scoperta, una gioia di rivedere qualcosa che mi appartiene perché le mie radici sono qui e le emozioni hanno sempre un’importanza notevole nel lavoro di un artista. Ruvo rappresenta il mio mondo e la mia memoria” (a cura di C. Cipriani e D. Toto, Echi dal Novecento Pugliese. Omaggio a Domenico Cantatore, Levante Editori Figli di Mario Cavalli, Bari, 2008, pag. 83).
[5] Nato a Santo Spirito nel 1922 e spirato a Barletta nel 1996, Michele Chieco fu un “artista che ha partecipato a circa centocinquanta mostre a carattere nazionale ed internazionale che gli hanno meritato anche la qualifica di membro onorario della Columbian (USA) e di altri importanti sodalizi accademici italiani […]”. In questi termini si apre l’articolo di Vincenzo Amenduni su Il Rubastino, rivista della Pro Loco di Ruvo di Puglia, del bimestre luglio-agosto 1972 (pagg. 9 e 10), intitolato Il messaggio della pittura di Michele Chieco. In esso il docente e sacerdote ruvese scrive che è “un godimento guardare i suoi quadri dai colori limpidi e sfumati, non solo nelle nature morte, ma anche nei paesaggi pugliesi, in quelle campagne che rivelano uno studio dei movimenti inconsci dell’umana esistenza, con gusto ingenuamente misto “romantico” e di “decadente” quale può evidenziarsi nella esasperazione e nella passionalità di un uomo del sud”.

Ami l'uomo del piacere,
fioca luce o tenebra leggera.
Il mai nato è sua creatura,
e tu stringi al giovane petto
la tua ossessione e la sua colpa,
la vana attesa che un seme scampato alla strage
ti renda madre.
Non c'è miracolo né giorno nuovo
per chi non semina vita,
solo sterili fluidi,
di tanto in tanto,
quando il bisogno urla,
in terra straniera,
dentro un corpo armeno,
un tempio eretto all'amore
nel centro di Bucarest.

mercoledì 25 novembre 2009

Nuova recensione


Una caratteristica delle società avanzate è il loro grado elevato e modello specifico di individualizzazione. L’immagine di sé dell’uomo, prevalente oggi, come ha osservato Norbert Elias, è quella dell’ homo clausus. Nelle nostre società “gli uomini per lo più pensano a se stessi come a esseri indipendenti, a monadi senza finestre, a soggetti isolati, a cui si contrappone il mondo esterno e quindi anche gli altri uomini, e il cui mondo interno è separato da questo mondo esterno come da un muro invisibile”. Questa immagine solipsistica dell’uomo ben si addice a chi, per scelta o perché costretto dalle circostanze della vita, si ritrova a vivere la condizione di “single”. E in effetti anche l’Autore del libro “...


Il secondo testo di Bernocco, edito sempre per i tipi della Libreria del Santo di Padova, intitolato “Sul passo degli ultimi – Lineamenti del pensiero politico del Servo di Dio Mons. Antonio Bello” si conclude con questa frase: “Don Tonino non era un uomo di parte. Egli era dalla parte dell’uomo”. Nel testo l’Autore tratteggia accuratamente quello che era il pensiero politico di don Tonino Bello, il vescovo innamorato della povertà e dei poveri....

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Recensioni di Domenico Campanale...


Recensioni a cura di Domenico Campanale

Una caratteristica delle società avanzate è il loro grado elevato e modello specifico di individualizzazione. L’immagine di sé dell’uomo, prevalente oggi, come ha osservato Norbert Elias, è quella dell’ homo clausus. Nelle nostre società “gli uomini per lo più pensano a se stessi come a esseri indipendenti, a monadi senza finestre, a soggetti isolati, a cui si contrappone il mondo esterno e quindi anche gli altri uomini, e il cui mondo interno è separato da questo mondo esterno come da un muro invisibile”. Questa immagine solipsistica dell’uomo ben si addice a chi, per scelta o perché costretto dalle circostanze della vita, si ritrova a vivere la condizione di “single”. E in effetti anche l’Autore del libro “Lettera ad un single” (edizioni Libreria del Santo di Padova) sembra, in un primo momento, essere d’accordo con quanto afferma Elias. Infatti, nelle battute iniziali, Salvatore Bernocco, nel fare una rapida e attenta analisi dei valori della società in cui egli stesso si ritrova a vivere da single, denuncia quella che potrebbe essere la causa, o una delle cause, che porta alla “singletudine”: “La stessa società ce la mette tutta con i suoi modelli di riferimento ed i suoi mille idoli per colpire al cuore il concetto di famiglia (e di famiglia cristiana) e cancellare dalle mappe della coscienza il trine comunitario, per sovvertire ruoli e comportamenti ed esaltare effimere fisionomie e modalità individuali fortemente autocentrate o autoreferenziali”. Tuttavia, nonostante questa visione pessimistica della realtà, l’Autore si pone nella “schiera di coloro che non spengono il lucignolo fumigante e che non spezzano la canna inclinata”. Quanti si accingeranno alla lettura di questo testo ben comprenderanno il punto di vista di Bernocco che, attraverso una serie di esperienze vissute e l’esempio di grandi uomini (uno per tutti: il servo di Dio don Tonino Bello), evidenzia, con razionalità ma anche con molta naturalezza, che la condizione del single è ben lungi dall’immagine dell’homo clausus e che, nonostante tutto, la felicità non è compromessa. L’importante è che la propria esistenza sia vissuta come apertura all’altro e soprattutto messa a disposizione degli altri. “Chi non vive per servire non serve per vivere” ci ricordava don Tonino Bello. Questo presuppone una nostra capacità di riconoscerci nell’altro, di sentirci a lui uguale pur nella differenza. Bernocco pone l’accento sul fatto che il single per dare senso alla sua vita deve promuovere continuamente una cultura più empatica e partecipativa, tendente non a separare e a dominare, ma a collegare l’uomo all’ambiente, all’altro e ad aiutarlo a convivere e non a contrapporsi a ciò che lo circonda. L’invito è a non isolarsi cercando una libertà e una felicità effimere, ma ad agire sempre e comunque a favore dell’altro la cui transitorietà, indigenza e insicurezza devono indurre ciascuno a mettere a disposizione la propria persona, libero da ogni desiderio di appropriazione. Anche nella “singletudine” è possibile realizzare pienamente se stessi sperimentando sempre di più la condivisione perché ogni uomo, come dice il Vangelo, possa essere custode del proprio fratello.

Il secondo testo di Bernocco, edito sempre per i tipi della Libreria del Santo di Padova, intitolato “Sul passo degli ultimi – Lineamenti del pensiero politico del Servo di Dio Mons. Antonio Bello” si conclude con questa frase: “Don Tonino non era un uomo di parte. Egli era dalla parte dell’uomo”. Nel testo l’Autore tratteggia accuratamente quello che era il pensiero politico di don Tonino Bello, il vescovo innamorato della povertà e dei poveri. Don Tonino, nell’arco della sua breve ma intensa esistenza, ha sempre richiamato i cristiani all’impegno politico, quello vero, quello che si contrappone “a tutte le sopraffazioni dell’uomo”. Purtroppo, come spesso accade, ognuno cerca di tirare l’acqua al proprio mulino, ed ecco che si è confuso quello che egli diceva a proposito della politica con una presa di posizione a favore di questo o di quell’altro partito. A tal proposito è da elogiare il lavoro letterario di Bernocco, perché toglie don Tonino da questa diatriba partitica e lo restituisce al suo vero ambito, che è quello della “liberazione politica”. Infatti nel testo viene evidenziato il coraggio del Vescovo “col grembiule” di schierarsi non a favore di un partito, ma con chi si impegna a rimuovere situazioni di violenza e di ingiustizia. Con chi ha “il coraggio di denunciare profeticamente le gravi forme di sopraffazione presenti nel nostro territorio. Il coraggio di creare continuamente spine nel fianco della buona coscienza pubblica, rivelando con caparbietà i bisogni scoperti e quelli emergenti”. Don Tonino non ha mai perso occasione per scuotere le coscienze di chi preferisce abbandonare le sedi di partito piuttosto che scardinarle e provocarle in termini di pulizia, di onestà e di rettitudine. La sua “preoccupazione politica” è stata quella di promuovere sempre una strategia nuova di coscientizzazione, di educazione alla giustizia e alla carità, di stimolo alla partecipazione, di rottura con la mentalità individualistica che inquadra tutti i problemi sempre nell’ottica degli interessi personali. Questo era e resta il pensiero politico di don Tonino che “parlava di politica, non di partiti”. Che invitava i credenti a compiere una grande transumanza: “dalla carità dossologica, quella interiore, quella religiosa, alla carità politica”. Certo la sua “filosofia politica”, così come la chiama l’Autore, non era limitata solo a denunciare le ingiustizie, ma consisteva soprattutto nell’annunciare in termini propositivi che le cose possono cambiare, nella convinzione che la politica è arte nobile e difficile. Naturalmente il filo conduttore di tutto ciò sono gli ultimi. Il pensiero politico di don Tonino, così come il suo progetto pastorale, è un continuo richiamo ai poveri “dai quali dobbiamo partire per rinnovare la terra”. L’Autore riporta una “questione” che si aprì a Ruvo di Puglia, una delle città della diocesi di Molfetta, che riguardava i marocchini la cui accoglienza “non fu festosa né incondizionata”. “Chiese ai cristiani di occuparsi loro, di prenderli in affido ... di allargare la cinta comunitaria, inserendovi quegli uomini che, al di là di ogni altra considerazione, erano e sono icone della nostra precarietà, simboli del nostro pellegrinaggio, avamposti della nostra transitorietà”. L’invito di don Tonino era quello di “collaborare con le istituzioni pubbliche e con i servizi sociali, di stimolarli alla ricerca e alla tenacia, e di precederli sulla battuta intuendo risposte nuove a bisogni nuovi”. Solo così i poveri finalmente potranno essere liberati. Il vero culto a Dio è il servizio all’uomo: potremmo racchiudere in questa frase il libro di Bernocco, nella consapevolezza che chi ama ha ben compreso che “sull’amore ci si gioca tutto”, come ha dimostrato don Tonino, “servo di Dio perché servo dell’uomo”.


I testi sono in vendita presso la libreria L’Agorà (Corso Cavour, 46 – tel. 0803620943) e l’edicola Rubini (Piazza Matteotti – tel. 0803611242) in Ruvo di Puglia, oppure collegandosi al sito web www.libreriadelsanto.it

domenica 8 novembre 2009


VIZI PRIVATI E PUBBLICHE VIRTU’


Lungi da noi fare del moralismo. La fede va al di là dei moralismi, spesso di facciata, valevoli per gli uni e non per gli altri. Né va dimenticato che bisogna odiare il peccato e mai il peccatore, perché peccatori lo siamo tutti, ognuno di noi ha i suoi scheletri nell’armadio dell’anima. Tutti abbiamo bisogno della misericordia e della grazia del Padre, di essere rigenerati a nuova vita, di convertirci a stili di vita più aderenti a quello evangelico. Quindi niente ipocrisie e perbenismi. L’uomo è fragile e fallibile. Le ultime vicende scandalose che hanno riguardato l’ex presidente della Regione Lazio Marrazzo hanno suscitato scalpore e non pochi commenti salaci. La notizia terrà banco per qualche tempo ancora, nelle more di qualche altro scandalo all’italiana. Ma lo squallore del fatto, dei luoghi, dei personaggi, però, non deve indurci ad ergerci a giudici di persone e situazioni di cui sappiamo poco o nulla, o meglio soltanto quello che viene pubblicato dai giornali o di cui parla la televisione. Spesso queste tristi vicende nascondono retroscena inconfessabili e, forse, battaglie politiche condotte su altri piani. Uno di questi consiste nella demolizione della persona: se non puoi colpirne gli atti pubblici, devi tentare di sferrare il colpo mortale e di metterla fuori gioco pescando nel torbido, nella sua vita privata, anteriore o attuale. Scava e qualcosa di certo troverai, fosse anche un neo o un piccolo vizio. Nel caso Marrazzo c’è questo ed altro. C’è un cocktail di ricatti e di intrecci oscuri, di soffiate e di vizi privati, di gossip e di favori trasversali. C’è soprattutto la verità di un episodio che, al di là di ogni altra considerazione, lascia sconcertato chi ritiene che la politica debba essere fatta da uomini e donne al di sopra di ogni sospetto, moralmente sane ed affidabili, dedite al bene comune piuttosto che al vizio privato. Per chi fa politica il privato costituisce una dimensione molto risicata. L’uomo politico è sempre sotto i riflettori, e le sue vicende personali ne condizionano il giudizio pubblico. È inevitabile ed è giusto che sia così. Uomini come Alcide De Gasperi, come Amintore Fanfani, come Aldo Moro, come Berlinguer, come Almirante e Giorgio La Pira ebbero una condotta privata esemplare. Non erano ricattabili. Non andavano a festini e non si circondavano di donzelle scollacciate in cerca di notorietà. Non sniffavano cocaina e si occupavano seriamente del bene comune, sebbene da posizioni ed orientamenti politici differenti. Mi si dirà che i tempi sono cambiati, che gli uomini non sono più quelli di una volta. È vero, è incontestabile che siano cambiati, ma è anche vero che ci sono uomini e donne che credono in determinati valori umani e cristiani e che si battono per una società più giusta. Guardiamo a costoro, lasciando a chi ha sbagliato la possibilità di redimersi, ma lontano dalla politica.

Salvatore Bernocco
Fermento, Novembre 2009

sabato 7 novembre 2009

Viaggio spirituale (cap.8)


8. Parole conclusive
Dall’abside volgo il mio sguardo verso l’ingresso, e mi sovvengono gli anni trascorsi qui, in questo ventre accogliente ma non ovattato, mai insonorizzato agli echi delle tragedie umane, molte delle quali – forse tutte - trovano la loro origine nell’egoismo che, come rifletteva il poeta Giacomo Leopardi, “è sempre stato la peste della società e quanto è stato maggiore, tanto peggiore è stata la condizione della società”. Don Vincenzo mi chiamò a collaborare con lui più di vent’anni fa al mensile parrocchiale Fermento. Più di vent’anni fa mi chiese di redigere un articolo su Aldo Moro, un uomo ed un cristiano che molte volte sostò a Ruvo e che conobbe una sorte tragica, accettata con rassegnazione alla volontà di Dio, in realtà alla violenza dei suoi carcerieri, perché la volontà di Dio è amore e vita, non odio e morte (forse dovremmo rivedere certe nostre affermazioni e certi luoghi comuni, come anche don Vincenzo sostiene a proposito di alcuni passi dell’atto di dolore: Dio non castiga nessuno, siamo noi che liberamente, quando non aderiamo alla sua volontà di amore, ci castighiamo e ci danniamo). Da allora il mio modesto contributo alla vita parrocchiale non ha conosciuto soste, nella consapevolezza che i talenti vanno messi a disposizione della comunità, che scrivere di Dio e delle cose di Dio - sempre con il tremore dell’iniziato e di chi sa bene che Egli è l’inconoscibile -, è una forma di apostolato, mosso dal desiderio di comunicare l’amore di Dio, il nucleo fondante del messaggio evangelico, sempre con mansuetudine e rispetto per chi semmai è alla ricerca di Dio o non crede. Da don Vincenzo ho attinto il convincimento che occorre difendersi dalle tre “D”: dissipazione, dispersione, disperazione. Perché esse generano una quarta “D”, il dolore, non quello a cui tutti siamo sottoposti a causa della nostra natura umana, fragile e transeunte, ma il dolore dell’anima, la morte dello spirito, il tedium vitae degli antichi, meglio noto come depressione, assenza di stimoli vitali, appassimento della speranza, accidia . Grazie a don Vincenzo ho coltivato la mia passione per la lettura e la scrittura. Gli sono grato anche di questo, per avermi sollecitato a superarmi, a muovermi lungo le direttrici evangeliche, a concentrarmi sull’essenziale, che spesso, come scriveva Antoine de Saint-Exupéry, è invisibile agli occhi, conoscibile soltanto attraverso l’occhio interiore, l’ascolto attento della coscienza, l’adesione alla Verità, una verità che giudica per liberare, non per condannare. Questa è l’immagine serena di Dio che don Vincenzo ha contribuito a trasmettermi. A lui quindi dedico questo mio modesto lavoro nella felice circostanza del suo XXV anniversario di sacerdozio, di servizio alla Chiesa cattolica. A lui che ha arricchito la chiesa del SS. Redentore di nuove opere pregevoli, con gusto e competenza, senza mai tralasciare di custodire, con amore e dedizione, quanto gli pervenne in eredità dai suoi predecessori, in particolare da mons. Michele Montaruli. A lui, che ama la Tradizione e il Concilio Vaticano II, ben sapendo che a nulla vale innovare se non ci si radica nella sostanza del vero culto che si deve a Dio, fatto non tanto di riti quanto di cordiale apertura al mondo e di amore verso il prossimo e se stessi. A lui, in occasione del suo 40° anniversario din sacerdocio, tutta la mia stima ed amicizia, con il sincero augurio di sempre maggiori traguardi umani e spirituali.

domenica 1 novembre 2009

Viaggio spirituale (cap.7)


7. L’area absidale: uno sfolgorio di luci e di senso
Giungo infine nei pressi dell’altare che fu consacrato dal Servo di Dio Mons. Antonio Bello. Un Angelo stilizzato, di gran pregio, lo sorregge, mentre i tre gradini che portano ad esso sono mosaicati. È una sorta di motivo introduttivo, di accenno al maestoso mosaico del Cristo Redentore, posto al centro della scena, di sfolgorante bellezza, composto di 750.000 tessere. Ai suoi lati compaiono altri due mosaici che ritraggono creature angeliche, tre in entrambe le opere. Prima dei mosaici, due imponenti dipinti di Gaetano Valerio. Quello a destra ritrae la torma dei santi che procede verso la Luce, con in testa la Vergine Maria, S. Giovanni, i santi Cleto e Biagio, S. Pietro clavifero. S. Giacomo vi compare in ginocchio, mentre – con sorprendente preveggenza – vi è ritratto anche mons. Bello in atteggiamento umile ed affabile. È il primo dipinto in cui il Servo di Dio appare e viene offerto alla devozione popolare. Splendida intuizione di don Vincenzo Pellegrini, che si mosse in sintonia con il giudizio dei fedeli, presagendo la santità di un vescovo che nella nostra Diocesi inaugurò uno stile nuovo di essere al servizio della gente, molto lontano dallo stereotipo del vescovo burocrate e freddo amministratore delle cose sacre. Fa da sfondo la Cattedrale di Ruvo, ed è visibile una fisionomia, flebile e quasi diafana, che richiama la genitrice di don Vincenzo, un doveroso omaggio dell’artista al parroco e ad una pia donna. La ricordo seduta ai primi banchi della fila di destra, orante, con lo sguardo fisso sul figlio celebrante, un cuore di madre che prega e sospira per suo figlio, un’immagine esemplare dell’amore di Dio per l’uomo. È un ricordo che ancora oggi mi emoziona, riportandomi ad altre figure a me care, quelle dei miei nonni e zii, persone che irradiavano bontà e semplicità, autentici maestri di vita. Si avverte la mancanza di persone così, creatrici di ricchezza spirituale, di senso. Le vere miserie sono quelle prodotte dalle lacune di senso; i prosciugatori di senso sono tutti coloro che seminano pessimismo, tenebre, male. Il dipinto a sinistra, invece, si ispira alla risurrezione di Lazzaro. Le due tele si richiamano a vicenda, entrambe suscitano l’ottimismo della fede, la speranza nella resurrezione. Incitano ad inaugurare un nuovo modo di essere e di vivere: essere figli della Luce significa essere partoriti una seconda volta dalla Parola di Dio, rinascere ad una vita nuova secondo lo Spirito, che è Amore. Si è già partecipi della schiera esultante dei santi se si vive secondo la legge dell’amore-carità, che è vita eterna, sublimemente riassunta nell’espressione, molto cara a don Vincenzo, “i vivi non muoiono ed i morti non risorgono” del teologo Alberto Maggi. Di pregnante significato, essa vuol dire che chi ama vive per sempre, non muore mai, mentre chi non ama è già morto anche se respira ancora. Ricorrente, sebbene sia sottinteso, è il motivo della Luce, sottolineato anche dai colori caldi e luminosi utilizzati dall’artista. Essi dominano anche nel mosaico[1] del Cristo Redentore: è una fantasmagoria di luci e colori che suscita fiducia e disperde le ombre del cuore. Il Cristo poggia sull’orbe terraqueo, è Ostia, è Calice, in un’apoteosi dell’offerta di sé. L’interno richiama l’esterno, il Cristo dell’abside evoca il Cristo del 1954, che domina la città col suo messaggio di pace e di amore.
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[1] L’etimo è incerto. Secondo alcuni deriva dal greco µουσαικόν (musaikòn), “opera paziente degna delle Muse”; in latino veniva chiamato opus musivum, cioè “opera delle Muse” oppure “rivestimento applicato alle grotte dedicate alle Muse stesse”. Il richiamo alle Muse è dovuto all'usanza degli antichi romani di costruire, nei giardini delle ville, grotte e anfratti dedicati alle Ninfe (ninpheum) o Muse (musaeum), decorandone le pareti con sassi e conchiglie. Quindi musaeum o musivum indica la grotta e opus musaeum o opus musivum indica il tipo di decorazione murale. In seguito si affermò l'uso dell'aggettivo musaicus ad indicare l'opera musiva. Potrebbe derivare anche dall'arabo muzauwaq, che significa "decorazione". C'è chi, invece, vi ha visto la radice di un vocabolo semita, soprattutto quando la parola viene usata come aggettivo, che potrebbe legarsi al termine "Mosè", quindi "pertinente a Mosè". Sono state indicate anche altre locuzioni, quali musium che significa esprimere qualcosa con diversi colori, oppure museos nel senso di elegante. Le ipotesi però sono molte e nessuna sembra avere titoli sufficienti per prevalere sulle altre. Le tessere erano chiamate in greco ἀβακίσκοι (abakìskoi), quadrelli (da ἄβαξ (àbax), tavoletta), mentre in latino abaculi, tesserae, tessellae.