domenica 11 dicembre 2011

TEMPO DI AVVENTO, TEMPO DI ATTESE

L’Avvento precede la nascita del Cristo, che in verità viene in noi (e vi resta col Padre e lo Spirito Santo) ogni qualvolta siamo in grado, col nostro impegno, di dare vita a chi vita non ne ha, di costruire itinerari di liberazione dell’uomo di questi nostri tempi segnati da una superficialità e da un consumismo frenetico, che tutto riduce alla dimensione del giornaliero, del possesso di cose inutili ed ingombranti, dei beni materiali, e che attende il Natale come l’ennesima occasione di darsi ai bagordi e a quelle manifestazioni di falsa gioia che sono il precipitato del cosiddetto nichilismo. Parlare oggi di interiorità, cioè di una dimensione di vita interiore dove l’uomo può ritrovarsi ed essere pienamente se stesso, è pura follia. Se tutto è apparenza ed esteriorità; se tutto si celebra nell’attimo fuggente; se la vita di un essere umano ha valore se vi è ricchezza, potere, salute, bellezza, allora più che di Avvento saremmo tentati di parlare di Restaurazione, cioè di un tempo abitato da idoli pagani e dall’idolatria dell’ego.
L’Avvento è un tempo di attesa di un evento che, se accolto, cambia la vita in meglio, dandole senso e profondità. Gesù si incarna, Dio si incarna e si manifesta al mondo, in primis a gente di scarto, emarginata, ai pastori. Nasce povero, “al freddo ed al gelo”, e per giunta pende su di Lui la mannaia di Erode, cioè del potere che si oppone alla venuta del regno di Dio fra gli uomini, cosa che accade anche ai nostri giorni. Il fedele cristiano è dileggiato per la sua fede, sebbene si discetti tanto di tolleranza e di rispetto da parte di settori del laicismo nostrano che, in realtà, sono tolleranti verso tutti tranne che verso chi si professa credente. È la croce del seguace del Cristo.
Ma l’Avvento è tempo di riflessione in vista dell’azione concreta per il bene della comunità, e non mi riferisco soltanto a quella parrocchiale. Intendo riferirmi alla nostra comunità cittadina, alla vita politica ed amministrativa locale, che auspichiamo possa portare risultati concreti, tangibili, specie in relazione all’ambito della solidarietà sociale. Le povertà sono molteplici, certo, ma la povertà materiale, le condizioni in cui versano tante famiglie ruvesi dovrebbero sollecitare ad impostare politiche di impatto, destinando all’emergenza sociale tutte le risorse disponibili. Così, piuttosto che di festival o di iniziative che oramai hanno fatto il loro tempo, sarebbe preferibile occuparsi di poveri e di povertà, di ambiente e di vivibilità. Se in una famiglia manca il necessario; se in una famiglia mancano il cibo ed i soldi per mandare i figli a scuola o per pagare le bollette, e nella città, altrove si suona o si spendono fior di quattrini per due, tre ore di musica o spettacolo o teatro o cerimonie, allora si commette un grave peccato sociale, che andrebbe confessato. La giustizia reclama che si badi prima di tutto all’essenziale e che ci si occupi dei senza voce, dei non garantiti, dei precari, di quanti, disoccupati o inoccupati o con redditi da fame, scivolano verso la disperazione.
Se un membro del corpo sociale è malato, tutto il corpo ne risente. Non si salva nessuno. È illusorio pensare il contrario. Le sacche di privilegi hanno generato e generano – come si assiste questi giorni – miserie maggiori, crisi economiche e finanziarie, determinate per l’appunto dall’avidità degli uomini. Bisogna cambiare strada e farlo presto, aiutando le membra affaticate ed oppresse a sollevarsi. Questo è esercizio di politica cristiana. Questo è vero esercizio di carità. Tutto il resto è materia diabolica.

mercoledì 12 ottobre 2011

INTERVISTA A RUVO LIVE - OTTOBRE 2011

- A quattro mesi dalla vittoria delle elezioni e dall'insediamento del nuovo sindaco, cosa pensa del lavoro finora svolto?
Penso che il Sindaco Ottombrini si stia impegnando molto per affrontare e risolvere problematiche di non poco conto, alcune delle quali, quali quelle inerenti ai comparti edilizi, rivenienti dal passato non recente. È chiaro che la nuova amministrazione necessita di un periodo di rodaggio per entrare nel merito delle questioni amministrative, tenendo in debito conto che la squadra assessorile è composta di uomini e donne che non hanno mai amministrato, fatta eccezione per Salvatore Lovino, oggi Assessore al Bilancio, ieri alle Attività Produttive ed alla Polizia Municipale. Alcune figure sono alla loro prima esperienza, come l’architetto Altamura. I vincoli di bilancio ed il rispetto del patto di stabilità stanno massacrando gli enti locali, impedendo loro di spendere pur in presenza di un avanzo di amministrazione. Ciò è penalizzante e paralizzante.
- Quali sono i nodi difficili da districare, per il nuovo Sindaco?
Ho già accennato alla questione dei comparti edilizi. Ci sono poi le problematiche della raccolta dei rifiuti solidi urbani, del P.U.G., della Ruvo Servizi, della riorganizzazione della macchina amministrativa. Quest’ultima questione è di fondamentale importanza e andrebbe risolta con celerità. Stiamo scontando ritardi e difficolta a causa dell’assenza di figure dirigenziali e di un’organizzazione più snella e memo farraginosa. È evidente che tutto il peso gestionale non può gravare sulle spalle del solo ing. Stasi o di qualche dipendente di buona volontà che sopperisce come può.
-Cosa pensa, da scrittore e giornalista, della capacità di comunicare, di Palazzo Avitaja?
Bisogna comunicare di più e meglio. Penso che questo sia un nodo da sciogliere. Al momento si è un po’ carenti sotto questo aspetto, ma ciò è imputabile al processo di riorganizzazione degli uffici e dei servizi. Sono certo che nel nuovo assetto la comunicazione sarà privilegiata.

- E’ pentito di aver militato a fianco di Ottombrini?
Assolutamente no. Con Vincenzo Fracchiolla, Rino Di Rella, Roberto D’Ingeo, Biagio Livorti, Daniela Lamura ed altri amici ed amiche tenemmo a battesimo la lista “INSIEME”, che ha dato il suo contributo alla vittoria del centrosinistra. Non siamo riusciti a far eleggere un nostro rappresentante in seno al Consiglio Comunale, ma facciamo parte a pieno titolo di questa maggioranza, ai cui vertici partecipa un nostro rappresentante. Oggi “INSIEME” è non solo una lista civica, ma un laboratorio politico-culturale che mette insieme persone che hanno compiuto scelte diverse e che sono portatrici di istanze diverse. Alcuni sono confluiti in SEL, altri nel PD, altri mantengono la loro autonomia dai partiti, ma continuiamo a procedere uniti, insieme. Il futuro della politica del centrosinistra sta in un di più di unità, e credo che questa unità sia più facilmente perseguibile in un contesto politico e associativo che vada oltre i partiti pur rispettando i partiti.

- Qual è la sua posizione adesso?
È di assoluta collaborazione con la nuova amministrazione, non solo in quanto dipendente comunale, ma anche nella mia veste e caratterizzazione politico-culturale. Mi definisco ancora moroteo, sebbene Moro sia scomparso nel 1978. Il confronto ed il dialogo ne caratterizzarono la vita politica, culturale ed umana. Io resto ancorato a quei fondamenti culturali, ritenendo che nessuno abbia la verità in tasca, ma che essa si debba ricercare insieme, faticosamente. Ovviamente per dialogare bisogna essere in due e rispettarsi. Assisto purtroppo a molti monologhi all’insegna del poco rispetto.

- Dia un voto alla giunta, assessore per assessore.
Mi permetta di non fare valutazioni. È troppo presto per giudicare l’operato degli assessori. Sono tutti impegnati a dare il meglio di sé, su questo non ho dubbi.

- Qual è la maniera per far rinascere Ruvo, secondo lei?
Ogni ripartenza ha bisogno di poggiare su basi culturali solide, di visioni nuove ed avanzate, di coraggio e lungimiranza. Bisogna prendere le mosse dalle nostre tradizioni culturali e proiettarle con un po’ di fantasia nel futuro. Bisogna accogliere il nuovo, non averne timore. Bisogna osare, sforzarsi di immaginare percorsi nuovi, alternativi. Per tale ragione guardo con particolare speranza alle nuove generazioni. Loro possiedono il dono della visione. Sono dei visionari. Fra di loro ci sono dei creativi. Se saremo capaci di affidarci a giovani di qualità e spessore culturale e morale, faremo progressi. Badi bene, però, che non ne faccio una mera questione anagrafica. Per me è giovane chi ha lo spirito ancora giovane. Ruvo è piena di persone di tutte le età in grado di dare e di sognare un paese migliore.

giovedì 14 luglio 2011

LA CITTA' DELLE DONNE, OVVERO AMALIA

Quando alcune donne, nate dall’unione tra maschi e femmine, fondarono la loro città, dopo la fuga dal regno dei maschi ed un esodo durato moltissimi anni (alcuni storici parlano di 40 anni), decisero di darle il nome della prima martire della lotta di liberazione, lapidata perché aveva osato mettere in dubbio l’umanità del suo uomo, sposato senza il battesimo dell’amore, e per giunta fissandolo negli occhi. Ora la città di Amalia, che contava a quale tempo circa diecimila abitanti, distava poche miglia dal mare, le cui onde accarezzavano o schiaffeggiavano pietre e rocce, e sorgeva ai piedi di una collina da cui, in primavera, scendevano lentamente a valle odori di fresco e fiori ed erba bambina.
A capo della città vi era un triumvirato che restava in carica tre anni e che veniva eletto da un consiglio composto di trenta sagge, scelte per alzata di mano nell’agorà, al cui centro svettava la statua di marmo della martire. Saggia era considerata ogni donna che si fosse distinta per femminilità ed indipendenza, operosità ed intelligenza, e che, soprattutto, avesse dato prova di non rimpiangere l’uomo, sebbene – benché fosse illegale – talune, le più anziane, custodissero gelosamente le reliquie di indumenti od oggetti appartenuti ai loro avi di genere maschile.
Le più giovani non avvertivano il sentimento dell’amore, non sapevano cosa fosse quell’alchimia di cui si leggeva nei testi scolastici e che conduceva uomini e donne ad unirsi e a procreare. Quell’alchimia era rubricata alla voce amore, con postille e note a piè di pagina relative a dolori, illusioni e sofferenze. Molte associavano quel dolore dell’anima a quello fisico o a quello mestruale.
La regola era l’omosessualità. L’alternativa era la solitudine.
Ma come impedire l’estinzione del genere femminile? Come impedire che la città di Amalia si popolasse di vecchie dai grembi sterili e si estinguesse? Come perpetuare la specie in assenza del seme maschile? In un primo tempo si pensò di ricorrere alla scienza, alla biologia. Fu finanziato un progetto per creare sperma maschile dal nulla, da un insieme di piante che si diceva possedessero virtù magiche. La sperimentazione diede esito negativo. Fu per tale ragione che, scartata la scienza, dopo una consultazione popolare si pervenne alla decisione di importare dall’esterno seme maschile di origine controllata. La fecondazione assistita avrebbe risolto il problema della denatalità e del progressivo invecchiamento della popolazione. Alcune ambasciatrici si recarono all’estero e comprarono quantità cospicue di seme maschile. La questione successiva fu: cosa farne di embrioni maschili? In fondo, sostenevano le più ciniche, non si poteva parlare in senso stretto di figli, ma di procreati per ragioni di carattere sociale. Si poteva senza alcuna perplessità procedere alla loro soppressione. La donna doveva conservare il primato. Un maschio, uno solo, avrebbe rotto l’equilibrio. Il serpente si sarebbe intrufolato nel loro giardino e messo a soqquadro le loro vite, proprio come accadde all’origine dei tempi quando si consumò la scissione fra uomo e donna.
L’etica, la morale. Potevano queste “sovrastrutture” aeree imporre una nuova visione della vita? Non era la vita un fatto in sé, più prossima al materiale che allo spirituale? Vennero consultate alcune sacerdotesse del dio Sole, le quali sentenziarono che ogni cosa aveva un’anima, era pervasa dallo spirito. Lo spirito non si vedeva, non lo si poteva toccare, ma era in ogni fibra di ogni essere, dal più piccolo al più grande. Se si uccideva una creatura, che fosse una formica o un uomo, si commetteva un delitto contro il dio Sole. Il conflitto fra religione e Stato diede così luogo ad una lunga diatriba, finché si giunse a sancire la libertà della religione dallo Stato e dello Stato dalla religione. La legge avrebbe tenuto conto della libertà di coscienza, ed una commissione composta di due donne e di due sacerdotesse avrebbe vigilato sull’applicazione del principio.
Una grande filosofa di Amalia scrisse il “Trattato delle cose divine e dello spirito”, in cui introdusse la nozione di relazione fra diversi e di coesistenza delle differenze. Per salvare il genere femminile non si poteva prescindere non già dal seme maschile – fatto puramente meccanico o genetico - ma dall’uomo che si fosse sollevato alle altezze dell’anima, facendo perno sulla forza dello spirituale per dare senso alle cose materiali. Uomini, quindi, non puramente maschi.
Dall’importazione di seme si passò, progressivamente, a consentire l’accesso di uomini dotati di virtù. Non tutti coloro che entrarono nella città di Amalia si mostrarono all’altezza dello spirituale, ma questo – si convenne – era frutto della limitatezza dell’animo di uomo e donne. Su questa comune consapevolezza si costruì il futuro di Amalia, che fu popolata di donne gravide e di uomini con un anima pulsante.
Amalia prosperò e qualcuno la paragonò alla Città del Sole di Tommaso Campanella.

domenica 12 giugno 2011

La città della persona umana

Il Convegno regionale sui laici ha consegnato ai Vescovi di Puglia dodici proposizioni. Mi soffermerò in particolare sulla dodicesima proposizione, relativa all’impegno socio-politico. Vi si legge, fra l’altro, che le chiese di Puglia si impegnano a formare e sostenere donne ed uomini capaci di operare scelte, in campo socio-politico, nello stile del dono e della gratuità. Per raggiungere questo obiettivo è necessario costruire percorsi educativi radicati nella Parola.
È fuori di dubbio che sia improcrastinabile immaginare percorsi di formazione, scuole di cultura e di approfondimento delle tematiche socio-politiche orientate dalla Buona Notizia, che postula che l’amore-carità si tramuti, presto e bene, in fatto, progetto, azione che miri a liberare ogni uomo o donna dalle influenze di Satana, laicamente inteso quale l’istigatore – sui piani sociale e politico – di ogni lacerazione ed arretramento umano. Meno umanesimo, meno libertà, meno essenza vitale equivalgono per larga parte a meno cristianesimo, perché il cristianesimo rettamente inteso, nella sua versione depurata da moralismi e fondamentalismi, è ricerca della felicità di ogni essere umano, è travaso di vita nel recipiente delle nostre comunità. Il Vangelo non è un elenco di prescrizioni e di precetti moralistici, ma il vademecum della gioia, ottenuta attraverso comportamenti, atteggiamenti, pensieri, azioni che rispecchino l’amore incondizionato di Dio per ogni essere umano. Poiché chi ama vuole la felicità dell’essere amato, non che grondi tristezza e dolore o che si fustighi, Dio vuole che l’uomo sia felice a partire da questo tempo, qui ed ora. Rinviare la ricerca della felicità ad un tempo oltre la morte è depredare l’uomo, è renderlo schiavo della morte stessa, a ben pensarci. La morte non incute più timore se si è in Cristo e con Lui per costruire la felicità degli altri, sempre, anche quando costa fatica e rinunce. La felicità dell’uomo, che cioè la sua gioia sia grande, è quindi il progetto di Dio. Questo deve essere chiaro e la Chiesa deve convertirsi a questa visione ottimistica della storia, proprio fondandosi sul patrimonio di gioia che il Cristo le ha lasciato in eredità. Il Suo Spirito pervade la terra e soffia dove vuole, il che significa che raggiunge anche chi dovessimo ritenere lontano da noi per sensibilità religiosa, politica, ideale. Ciò che conta agli occhi di Dio è che ci si occupi degli orfani e delle vedove, vale a dire delle persone che non godono di alcuna protezione perché contano poco agli occhi dei potenti. I poveri sono strumentalizzati dal potere, ma non amati, e non potrebbe essere diversamente, perché il potere senza anima è l’Anticristo. Ciò comporta che si realizzino strumenti di analisi dei bisogni, discreti e rispettosi della dignità degli uomini, che sostengano il progetto di liberazione dal bisogno, che è fonte di nessuna libertà, di nessuna autonomia di pensiero, di nessun progresso. Se non si ha o non si è, si è preda di mercenari e contrabbandieri, di mistificatori e falsificatori di speranze.
Credo che non ci si debba più crogiolare in complesse analisi sociologiche, pure necessarie. È necessario passare dalla sintesi all’azione. Le città vanno organizzate secondo principi di giustizia sociale, e tale giustizia deve concretizzarsi, assumere forma di pane e lavoro, reddito sufficiente a garantire un’esistenza libera e dignitosa, di strumenti di cultura, teatro, luoghi creativi. Questa è la città della persona umana. Le altre sono le città dell’individuo, dove vige la legge del più forte, del potente, del signore.
Ma poniamoci una domanda. La Chiesa, e mi riferisco alle gerarchie e a certi laici credenti, si è mostra sempre coerente con questi principi? Ha sempre preferito l’uomo di fede all’uomo di potere? Non ha talvolta inclinato verso personaggi di dubbia moralità per accattivarsene i favori? Possiamo dare lezione di onestà intellettuale e di integrità morale agli altri o dobbiamo prenderne? Ciascuno dia in cuor suo una risposta.

Salvatore Bernocco

da Fermento, Giugno 2011

La città della persona umana

Il Convegno regionale sui laici ha consegnato ai Vescovi di Puglia dodici proposizioni. Mi soffermerò in particolare sulla dodicesima proposizione, relativa all’impegno socio-politico. Vi si legge, fra l’altro, che le chiese di Puglia si impegnano a formare e sostenere donne ed uomini capaci di operare scelte, in campo socio-politico, nello stile del dono e della gratuità. Per raggiungere questo obiettivo è necessario costruire percorsi educativi radicati nella Parola.
È fuori di dubbio che sia improcrastinabile immaginare percorsi di formazione, scuole di cultura e di approfondimento delle tematiche socio-politiche orientate dalla Buona Notizia, che postula che l’amore-carità si tramuti, presto e bene, in fatto, progetto, azione che miri a liberare ogni uomo o donna dalle influenze di Satana, laicamente inteso quale l’istigatore – sui piani sociale e politico – di ogni lacerazione ed arretramento umano. Meno umanesimo, meno libertà, meno essenza vitale equivalgono per larga parte a meno cristianesimo, perché il cristianesimo rettamente inteso, nella sua versione depurata da moralismi e fondamentalismi, è ricerca della felicità di ogni essere umano, è travaso di vita nel recipiente delle nostre comunità. Il Vangelo non è un elenco di prescrizioni e di precetti moralistici, ma il vademecum della gioia, ottenuta attraverso comportamenti, atteggiamenti, pensieri, azioni che rispecchino l’amore incondizionato di Dio per ogni essere umano. Poiché chi ama vuole la felicità dell’essere amato, non che grondi tristezza e dolore o che si fustighi, Dio vuole che l’uomo sia felice a partire da questo tempo, qui ed ora. Rinviare la ricerca della felicità ad un tempo oltre la morte è depredare l’uomo, è renderlo schiavo della morte stessa, a ben pensarci. La morte non incute più timore se si è in Cristo e con Lui per costruire la felicità degli altri, sempre, anche quando costa fatica e rinunce. La felicità dell’uomo, che cioè la sua gioia sia grande, è quindi il progetto di Dio. Questo deve essere chiaro e la Chiesa deve convertirsi a questa visione ottimistica della storia, proprio fondandosi sul patrimonio di gioia che il Cristo le ha lasciato in eredità. Il Suo Spirito pervade la terra e soffia dove vuole, il che significa che raggiunge anche chi dovessimo ritenere lontano da noi per sensibilità religiosa, politica, ideale. Ciò che conta agli occhi di Dio è che ci si occupi degli orfani e delle vedove, vale a dire delle persone che non godono di alcuna protezione perché contano poco agli occhi dei potenti. I poveri sono strumentalizzati dal potere, ma non amati, e non potrebbe essere diversamente, perché il potere senza anima è l’Anticristo. Ciò comporta che si realizzino strumenti di analisi dei bisogni, discreti e rispettosi della dignità degli uomini, che sostengano il progetto di liberazione dal bisogno, che è fonte di nessuna libertà, di nessuna autonomia di pensiero, di nessun progresso. Se non si ha o non si è, si è preda di mercenari e contrabbandieri, di mistificatori e falsificatori di speranze.
Credo che non ci si debba più crogiolare in complesse analisi sociologiche, pure necessarie. È necessario passare dalla sintesi all’azione. Le città vanno organizzate secondo principi di giustizia sociale, e tale giustizia deve concretizzarsi, assumere forma di pane e lavoro, reddito sufficiente a garantire un’esistenza libera e dignitosa, di strumenti di cultura, teatro, luoghi creativi. Questa è la città della persona umana. Le altre sono le città dell’individuo, dove vige la legge del più forte, del potente, del signore.
Ma poniamoci una domanda. La Chiesa, e mi riferisco alle gerarchie e a certi laici credenti, si è mostra sempre coerente con questi principi? Ha sempre preferito l’uomo di fede all’uomo di potere? Non ha talvolta inclinato verso personaggi di dubbia moralità per accattivarsene i favori? Possiamo dare lezione di onestà intellettuale e di integrità morale agli altri o dobbiamo prenderne? Ciascuno dia in cuor suo una risposta.

Salvatore Bernocco

Fermento, Giugno 2011

mercoledì 2 febbraio 2011

L’OSPITE INQUIETANTE

Politica locale avvitata su se stessa o svitata, nel senso di matta, folle, irrazionale? Entrambe le cose, anche perché la condizione solipsistica è terreno fertile per la follia. Molti si parlano addosso in queste ore, anche sui siti web. Scrivono cose che non pensano, falsificano il corso degli eventi, addolciscono la pillola. Fra “strategia del centrodestra” e “il teatrino della politica” la ragione si perde, naufraga. Probabilmente la politica ha sue logiche-illogiche che non appartengono ad altro ambito delle scienze sociali. È, la politica locale, un fenomeno da studiare, da approfondire da parte di sociologi, politologi e filosofi alla Cacciari. Oppure è vero il contrario? Troppo semplice la lettura degli accadimenti da accreditarsi a raffinate menti contorte, la semplicità e la linearità essendo entrate a far parte dell’insolito e finanche dell’inutile. Portiamo elementi di riflessione alle nostre tesi, sperando di essere smentiti con argomenti seri e circostanziati e non con insulti e minacce dirette ed indirette, esercizio, quest’ultimo, nel quale eccelle un politico nostrano che non si arrende all’evidenza del tempo che passa e all’affermarsi di nuove generazioni che, dai suoi contorsionismi, hanno francamente poco da apprendere, anzi nulla. O forse no, perché, come sosteneva il filosofo francese Jean Guitton, si conosce per contrasto, e quindi quella figura di politico locale assurge a figura emblematica e simbolica di come occorre non-essere e non-comportarsi in politica e nella vita di relazione. Essendo le città, i paesi, i borghi comunità di esseri umani in relazione, se queste dovessero dipendere dai capricci e dalle ambizioni di potere dell’anti-politico si trasformerebbero in crocevia di caste e di egoismi corporativi. Non ci sarebbe più l’Uomo con i suoi bisogni, ma l’individuo da manipolare e da asservire ai propri fini. Non ci sarebbe più la società, ma le società segrete, le combriccole, le carbonerie. Nessuna amicizia, perché in politica essa non ha valore alcuno, ma interessi ed inciuci. D’altronde, mi consta personalmente che quel politico abbia espressamente dichiarato che, in politica, l’amicizia è una superfetazione, un disvalore, un bruscolo nell’occhio rapace che va eliminato con il collirio del tornaconto. Un po’ di gocce di convenienza ed il gioco è fatto, si troncano rapporti come si concludono i giochi sessuali berlusconiani, con un calcio nel deretano, con la mistificazione e la menzogna. Millantando contentini. Su queste basi le società si riducono ad aggregati di individui in lotta per la sopravvivenza. È la legge della giungla urbana; è la cartina di tornasole del livello di acidità dei cuori che, per vivere, necessitano dell’ossigeno della verità e di condotte trasparenti e cristalline. In politica la linearità e la logica non andrebbero mai abolite, perché la loro mancanza partorirebbe mostri quali: provvedimenti amministrativi senza né capo né coda, lassismo, superficialità, ambivalenze, timori reverenziali, il pugno di ferro, l’intolleranza e l’intimidazione, la diade amico-nemico (bisognerebbe rileggersi Bobbio sul punto), per cui se non sei dalla mia parte, sei mio nemico, ed io devo fare quanto è nelle mie possibilità per ridurti al silenzio, distruggerti, renderti la vita difficile.

A Ruvo siamo giunti a questo capolinea? Non spetta a me dirlo, ma siamo sulla buona strada. È di tutta evidenza. Di certo un ospite inquieto ed inquietante si aggira per le vuote segreterie politiche di ciò che resta delle sedi di partito, dove fra uno scopone ed un tressette, una cospirazione a due o a tre, il sussurrio dei maldicenti ed il sibilo sinistro dei delatori, si complotta ai danni del paese, delle persone perbene – che ancora ci sono -, a vantaggio di pochi o di nessuno. Si fa strada la nuova visione copernicana narcisistica: io sono il centro del sistema, io conto, io solo penso e ho le soluzioni (a cosa, soprattutto quando si è all’origine di tanti disastri?). Voi, tutti voi, siete appendici, protesi del capo, come Fitto lo fu di Berlusconi (a quale protesi alludesse il Drago, dopo le vicende di questi giorni condite di escort, mignotte, denaro, corruzione, etc., è ora abbastanza chiaro).

L’ospite inquietante è il cinismo, che dà la patente del cattolicesimo sociale a chi, semmai, lo utilizza strumentalmente, giusto per intercettare il voto di qualche nostalgico di un tempo in cui la D.C. era il partito dei cattolici democratici e liberali, con una costante caratterizzazione laica che farebbe impallidire gli odierni cattolici prestati alla politica o, meglio, che sono in politica per ottenere qualche prestito, un seggio alla Provincia o alla Regione, che significa tanti soldi e poche noie per almeno cinque anni. Troppe genuflessioni e poca sana laicità, perché lo Stato e le istituzioni sono laiche e non confessionali. Speriamo cessi quanto prima quest’operazione mistificatoria. Quanto alla fede, è evidente che più che dirsi cristiani, occorre esserlo. Sarebbe il miglior viatico alla nuova evangelizzazione. Sarebbe il servizio più alto alla Chiesa ed alla comunità degli uomini e delle donne.

L’ospite inquietante è il nichilismo delle classi dirigenti, che mettono sulla bilancia il calcolo invece del bene comune. Alcuni suggeriscono che le alleanze di oggi per le amministrative del prossimo maggio riflettono in realtà i calcoli dei singoli circa il loro futuro politico. In altre parole avremo l’impressione di eleggere sindaco e consiglieri comunali, ma in realtà porteremo acqua alle aspirazioni dei singoli per altri scranni, quali la Provincia e la Regione Puglia , con largo anticipo. Già, possiamo pure chiamarle, in tal senso, elezioni anticipate; l’apparenza dice Ruvo, la sostanza dice “altrove”, non qui, non la città delle due gestioni commissariali e dei due fallimenti amministrativi, uno di sinistra, forse due, ed uno di destra, forse due, se la “strana coalizione” dovesse vincere le amministrative. Il futuro di Ruvo è già scritto. Facciamo le Cassandre? È probabile, ma quanto sta accadendo all’ombra del gallo di Melodia e nei suoi dintorni è eloquente.

Vediamo aggirasi ombre grigie e sinistre e destre su Palazzo Avitaja. Speriamo che un vento di maestrale le spazzi via, prima che sia troppo tardi. Salvatore Bernocco

da Ruvolibera, Copyright 2011