venerdì 28 agosto 2020

Terzo stadio: il confronto con gli alleati

 

Terzo stadio: il confronto con gli alleati.

Il terzo stadio del confronto avviene all’interno delle formazioni politiche che fanno parte di una stessa alleanza. In tale contesto si confrontano posizioni divergenti su taluni punti programmatici e politici, specie in prossimità delle elezioni amministrative, quando occorre scegliere il candidato alla carica di sindaco. Inizia un delicato ed estenuante processo di lanci e rilanci, di indicazione di nominativi da spendere, ed ogni forza politica tenderà a far prevalere la propria posizione sugli orientamenti delle altre (però, di solito, i primi nomi che affiorano saranno anche i primi ad essere scartati, ergo: chi in conclave entra papa, ne esce cardinale).   

La prima fase include il metodo di scelta del candidato, se vada individuato  attraverso una designazione il più possibile unitaria  e condivisa, tutta interna alle delegazioni politiche trattanti, oppure mediante il metodo delle primarie, che presenta luci ed ombre.

Le primarie avvantaggiano quelle componenti che dispongono di una buona capacità organizzativa e di mobilitazione di iscritti e simpatizzanti, che ha come presupposti sia le capacità di intessere relazioni sociali sia la capacità di attingere a risorse finanziarie per promuovere la propria azione di civile persuasione che, in un ambito di alleanze, non deve mai scadere nella trivialità e volgersi al dileggio morale del competitore, specialmente se è stato redatto e condiviso un programma amministrativo, seppure in linea di massima.  

La premessa che non va persa di vista è il perseguimento del bene dell’intera coalizione attraverso la stipula di un patto unitario, di un patto d’onore. L’unità della coalizione è quindi il principio da salvaguardare, e a tal fine potrebbe risultare utile, se non necessaria, la sottoscrizione di un codice etico di comportamento cui tutti dovranno strettamente attenersi, onde evitare che gli avversari politici possano utilizzare le divisioni interne per conseguire vantaggi tattici. Ma vi è un altro punto su cui focalizzare l’attenzione: il confronto interno alla coalizione, tranne che nel caso di unanimità, determinerà dei vinti e dei vincitori.

I vinti devono avvertire la piena responsabilità politica di sostenere convintamente la candidatura che ha ottenuto il più ampio gradimento, sia che sia stata individuata nel consesso interno, sia che sia emersa a seguito delle primarie, le quali – è bene sottolinearlo – devono svolgersi alla luce del sole, senza l’odioso ricorso a sotterfugi di varia natura, quali, ad esempio, dazioni di denaro o altre regalie, promesse, modalità velatamente ricattatorie, avvertimenti “mafiosi”.

Tutto deve essere lineare, limpido, corretto, sfatando - per quanto possibile in questo clima di rigetto dei partiti, di sfiducia generalizzata, fondamentalmente a-valoriale e nichilista – il luogo comune secondo cui la politica è faccenda sporca, lotta per il potere, luogo di inevitabile pericolo morale, enclave di corruzione. L’analisi della politica, difatti, considera il fenomeno politico come competizione per il potere, e molti studiosi sottolineano la dimensione negativa di essa, per cui «il potere corrompe, il potere assoluto corrompe assolutamente» (Lord ACTON); ogni uomo di potere è indotto ad abusarne (MONTESQUIEU).

C. WRIGHT MILLS ha parlato di “power élite”, in quanto il potere, cattivo in sé, è doppiamente cattivo se una élite lo possiede.

Vi è invece una dimensione positiva del potere. Deve esserci, altrimenti non essendovi politica non potranno esservi né governo né democrazia più o meno realizzata. Per i cristiani impegnati in politica, come per tutti i battezzati, l’obiettivo è salvare l’umanità intera, in preda alle potenze del male, dal caos e dalla catastrofe. Del resto, essere “pescatori di uomini” oggi vuol dire impegnarsi in tutte le iniziative che vogliono evitare all’uomo la perdizione.         

Ora, come sosteneva MORO, una democrazia è tale se il potere è utilizzato per ridurre al minimo i fenomeni di marginalità e di esclusione dell’uomo dai suoi benefici e vantaggi. Nessun uomo al di fuori del contesto democratico, delle dinamiche politiche che dovrebbero tendere a perseguire il massimo benessere della comunità, a favorire il massimo di partecipazione, la valorizzazione delle idee e delle posizioni delle minoranze significative ed etiche o quanto meno la loro tutela.

Eppure, ciò detto, realisticamente la politica che dovrebbe coinvolgere, rivolgersi o interessare tutti, non può essere svolta da tutti, perché non tutti hanno vocazione o talento o voglia di occuparsi della res publica. Alcide DE GASPERI sosteneva che politica equivale a realizzare, è quindi politica del fare, teoria che si fa prassi, e a un giovane Giuseppe GIACOVAZZO (1925-2012), già direttore de “La Gazzetta del Mezzogiorno”, disse che deve occuparsi di politica soltanto colui che ha la vocazione di voler risolvere i problemi altrui. 

Oggi invece – ma anche ieri - ci sono molti dilettanti allo sbaraglio che, approdati alla politica per vie istantanee, cioè senza aver maturato un bagaglio culturale e di competenze sufficiente, combinano grossi guai alle loro comunità, assottigliandone le possibilità di sviluppo economico e di crescita umana, trasferendo la risoluzione dei problemi comunitari a chi gli succederà.

Questo trasferimento in avanti dei problemi non fa che aggravarli, cosicché i nuovi governanti locali dovranno fronteggiare non solo le problematiche attuali, del presente, ma anche quelle rivenienti dal passato, da una pessima gestione amministrativa.   

In queste condizioni, sostengono molti studiosi di analisi delle politiche pubbliche, il sistema collassa. È la fotografia della politica dei nostri giorni, fatta da soggetti impreparati, superficiali, che non hanno vocazione o talento per la politica, che si servono del loro potere politico per colpire il nemico politico, grazie anche alla supina compartecipazione ai loro misfatti dei responsabili degli uffici pubblici, della burocrazia, ancella del potere e potere essa stessa. 

«Colpirne uno per educarne cento» (unum castigabis, cento emendabis), metodo utilizzato in epoca moderna da Mao ZEDONG e ripreso anche dall’organizzazione terroristica delle Brigate Rosse di infelice memoria.

Eppure, mi disse con aria seriosa e in tono solenne e perentorio un amministratore della cosa pubblica ateo e post-comunista, la politica va nettamente distinta dalla gestione. Costui mentiva sapendo di mentire, e chi mente a un uomo è capace di mentire a una intera comunità di uomini. Vi è di più: chi mente una volta, mentirà sempre. È una evidenza di fatto, incontestabile e inconfutabile.

In linea di massima, costui si servì del suo potere per danneggiare un uomo che non era detentore di nessun potere né aveva scheletri nell’armadio. Un uso palesemente illegittimo del potere politico, direi un abuso censurabile sotto tutti i punti di vista: legale, morale, etico, politico, culturale. 

Ecco, la politica deve poter fare a meno di tali soggetti senza se e senza ma, poiché essi iniettano nelle vene del corpo comunitario flebo massicce di odio e di rancori; semineranno inimicizie laddove dovrebbero essere operatori di pace e di amicizia sociale e politica; procureranno guasti all’apparato burocratico e fibrillazioni tra i dipendenti della Pubblica amministrazione, i quali lavoreranno in preda all’ansia e alla paura, temendo eventuali ritorsioni del princeps o del dominus e della sua rete di delatori  all’interno degli uffici pubblici.

I muri degli uffici pubblici hanno occhi ed orecchie molto sensibili.   

Ora, una caratteristica del delatore è quella di trasformare un sassolino in un macigno. Vi è indotto dalla ricompensa che lo attende – un occhio di riguardo sul lavoro, qualche ora di straordinario in più, una indennità di risultato più cospicua – ad ingigantire le cose ritenendo di rendere un servizio che sarà apprezzato dal princeps, il quale a sua volta si servirà della delazione per mettere sotto stretta osservazione il malcapitato e colpirlo alla prima occasione favorevole, semmai inducendo l’asservito burocrate ad aprire un procedimento disciplinare nei suoi confronti. Fatto questo, gli altri dipendenti  si prostreranno dinanzi al dominus, anzi – mi si lasci passare l’espressione – si metteranno a 90° pur di evitare qualsiasi forma di ritorsione.

Ma c’è dell’altro. Si consideri che il malcapitato-avversario (rectius: nemico politico del princeps) non farà carriera all’interno della P.A. benché possa essere fornito di capacità, di titoli, di talenti e sia una persona onesta e fattiva. A lui è riservata l’esibizione del cartellino giallo o di quello rosso, a seconda degli umori del dominus. Così, non posso, per esperienza diretta, che approvare e sottoscrivere le parole del magistrato Raffaele CANTONE, presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione dal marzo 2014, il quale ha detto che le persone per bene, oneste e con senso civico non riescono a fare carriera nella P.A. Spesso vengono emarginate proprio perché hanno un’etica del lavoro.       

Parole sante, sebbene non ci sia nessuna indicazione di come e cosa fare affinché questo mobbing strisciante di derivazione politica possa essere debellato.

Vi è il principio, ma è mancante la soluzione, per cui il tutto si risolve in una bolla di sapone. Tamquam non esset, direbbero i latini.

Questa a-finalizzazione di un principio sacrosanto dà come risultati l’impunità, la prosecuzione indisturbata di certe pratiche, la penalizzazione dei dipendenti onesti e non asserviti o che hanno idee politiche diverse da quelle del rex, la proliferazione della mala gestio, il carrierismo per gli allineati, l’induzione alla delazione come strumento per ingraziarsi il favore del rex e dei suoi più stretti collaboratori, in genere personaggi in cerca di autore, senza spina dorsale, servi sciocchi del potere, yes men, i quali reputano che servire il potente piuttosto che la verità sia la via maestra, mentre essa, in realtà, è la via larga che conduce alla perdizione. Alcuni mandatari si accosteranno al malcapitato o al sospettato con il pretesto di confidarsi, ma in realtà per estorcere confessioni.      

Fate attenzione a questo trucchetto: un mandatario verrà da voi a sparlarvi di A, non perché egli sia un nemico di A, ma per sondare il vostro pensiero su di lui, per tastarvi il polso. Voi non siate permalosi, non vi scomponete, perché dovete sapere che la politica è anche questo, “sangue e merda”, termini utilizzati dal socialista Rino FORMICA.

Voi, sapientemente, rispondete così: per me è una brava persona. L’interpellante resterà spiazzato dalla vostra risposta o sconcertato, alla stessa stregua del suo mandante politico. Di questo avviso era anche l’avv. Giuseppe ROMANO, democristiano, già sindaco di Ruvo di Puglia negli anni Sessanta. Quindi, parlate bene di tutti, specie dei vostri nemici, oppure ignorateli, così che essi siano svergognati qualora dovessero parlare male di voi. A ben vedere, essa è norma morale e regola cristiana di grande valore ed è fatta propria da coloro che hanno appreso il valore unificante del silenzio, la saggezza del parlare poco ed ascoltare molto. Con l’esito unificante del silenzio è più agevole conseguire la pacificazione, proiettarsi in un futuro dalle tinte meno fosche, procedere nella politica e nella vita amministrativa con maggiore speditezza, perché saranno stati evitati tutti quei rallentamenti dovuti a dissapori, fraintendimenti, personalismi, così frequenti e così presenti e condizionanti in senso negativo.

C’è quindi un tempo per tacere e un tempo per parlare, mai a sproposito e salvaguardando la carità, ma essendo ben edotti di tutti i termini della questione oggetto di analisi politica, e mantenendo un assoluto e caritatevole silenzio su uomini e circostanze delicate, evitando pettegolezzi da bar e battute spiacevoli.         

Quando i politici non saranno più qualcuno; quando la loro parabola sarà giunta a conclusione, nessuno di ricorderà di loro, su di essi scenderà un silenzio tombale. Nessuno si curerà più di loro. Saranno come fantasmi che vagano per le vie di quel paese di cui si sono serviti e che non hanno servito con onestà intellettuale e morale. Se saluteranno, non saranno salutati: la gente volgerà il capo dall’altro lato per non incrociarne lo sguardo torbido e nero. Non c’è solitudine peggiore di quella di chi, essendo stato potente, non ha servito il bene comune con mansuetudine, rettitudine, competenza; non ha prestato attenzione alla singola persona, aiutandola concretamente nel momento del bisogno, dicendole, anzi, in tono beffardo: «Arrivederci, stammi bene. Scaldati e mangia quando vuoi» (Gc, 2-16).    

Egli non ha adempiuto un precetto divino, ma ancor prima un elementare gesto di umana solidarietà e di partecipazione alle sofferenze, alle angosce altrui, oggi costituite dalla penuria di lavoro, da lavoretti precari, sottopagati e saltuari; dalla povertà economica di molte famiglie; dalle miserie morali, spirituali e culturali; dalle dipendenze dal gioco, dall’alcol, dalle droghe, dal sesso, dal denaro e dal potere.

È stato scritto che non di solo pane vive l’uomo, ma anche della Parola di Dio. Questa frase non pone il pane in secondo piano, ma sullo stesso piano della Parola. Anzi, forse vi è una leggera prevalenza o preferenza del pane sulle cose spirituali: a stomaco vuoto o in condizioni di vita pessime e miserrime, come si può vivere della Parola di Dio, che pure è cibo per l’anima?

Nessuna scissione, quindi, tra esigenze e bisogni materiali e bisogni spirituali. Spirito e corpo sono un tutt’uno inestricabile, e questo corpo unitario e composito abbisogna tanto di pane quanto di Dio e della sua Parola. L’uomo incorporeo non si angelica, ma si distrugge e si ammala di verticalismo; l’uomo corporeo si pone esclusivamente su un piano orizzontale e materialistico, distruggendosi anche lui per asfissia spirituale.

Queste considerazioni mi inducono a ritenere che il cammino dell’uomo sulla Terra debba muovere dall’io egoico e infantile, che tutto vuole per sé, all’io non belligerante e adulto, altruista e responsabile, altresì definito come “io mariano” dal filosofo Marco GUZZI.   

Non posso tuttavia sottacere che lo spirito di sapienza è preferibile a scettri, troni, ricchezze, oro, e vale più della salute e della bellezza, come si legge nel libro della Sapienza (7, 7-11). Un cristiano impegnato nell’arte della politica deve tener conto di queste luci di posizione, di queste coordinate spirituali al fine di poter amare rettamente il suo prossimo attraverso l’amore e la luce di Dio.

Non si tratta, forse, di immaginare un partito o un impegno politico di natura confessionale, ma di tramutare la propria fede in azione concreta a vantaggio dell’intera comunità cittadina. In mancanza di punti di riferimento valoriali, di ideali e del riferimento diuturno alla sapienza di Dio, che poi è la persona del Cristo, il ruolo del cristiano è sterile, non apporta valore aggiunto, non mette radici profonde, non è lievito di nuova umanità, non fermenta la vita sociale e politica.

Chiusa questa digressione, è evidente che il programma amministrativo di una coalizione deve necessariamente occuparsi dell’assetto organizzativo del personale della P.A., applicando, ove necessario, una sorta di spoil system (non vigente in Italia) per le posizioni apicali, selezionandole sulla scorta del loro valore reale e non già di un improponibile valore politico, poiché, come ho scritto, tra gestione e politica vi deve essere concertazione e collaborazione, ma non collusione e confusione. Ovviamente compete al governo locale affidare ai responsabili dei servizi gli obiettivi da raggiungere, ma non pure quello di intromettersi pesantemente ed illegittimamente nelle attività gestionali.

Assistiamo, invece, a fenomeni di individuazione di personale apicale da parte del princeps che non dà nessuna garanzia di competenza, conoscenza ed educazione, quindi si presume premiato per ragioni che soverchiano i curricula, le capacità ed abilità, le competenze specifiche, ma in forza del criterio della vicinanza politica, giacché il princeps desidera poter manovrare le sue pedine sulla scacchiera, e chi è più manovrabile di chi non sa e ti deve un favore che attiene al concetto di sopravvivenza?         

Vengono scelti non i migliori, ma i peggiori, i più ignoranti, i segnalati, sempre sotto la condizione che non rompano le uova nel paniere, di essere fedeli cani da guardia del regime locale, di fare o non fare ciò che viene loro indicato, di affrontare, rinviare o eludere un problema a seconda delle necessità politiche.

A mo’ di esempio: quale logica è alla base della scelta di rendere responsabile di un servizio o settore produttivo un ingegnere? Quali competenze specifiche in materia economica e giuridica questi possiede per ambire alla direzione di uno snodo strategico? Alla base vi è la logica dell’appartenenza all’area politica del dominus, o un atto di sottomissione, il resto è una minuzia, non conta affatto. Di qui la proliferazione della burocrazia, giacché il neo responsabile assunto secondo criteri non fondati sul merito e sulla competenza, nulla conoscendo della materia di cui dovrebbe occuparsi e dei processi amministrativi ad essa pertinenti, ritarderà sine die l’emissione di un atto dovuto oppure, per cautelarsi, moltiplicherà le richieste agli utenti di chiarimenti, documentazioni, peli nell’uovo.

Sono le sottigliezze, la paura e l’ignoranza ad alimentare la burocrazia.    

Il primo impegno programmatico, pertanto, deve consistere nella messa a punto della macchina burocratica, specie ai vertici, e nella effettiva sburocratizzazione dell’intero sistema dei procedimenti. Ciò, tra l’altro, garantirebbe l’ottenimento di risparmi in termini di tempo e di denaro pubblico, oltre ad avvantaggiare il cittadino che non potrà che esprimere un feedback positivo sul governo locale, riducendo quelli che l’analisi delle politiche pubbliche chiama inputs (richieste) che, se fossero molte e simultanee, sovraccaricherebbero il sistema, mandandolo in crisi.  

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