sabato 8 agosto 2020

Secondo stadio: il confronto con coloro che sono a noi prossimi.

 

Secondo stadio: il confronto con coloro che sono a noi prossimi.

È la seconda fase della dinamica del confronto.

Prendiamo ad esempio una formazione politica. Vi sarà un confronto interno, anche duro e serrato, tra tesi e antitesi. L’esito delle diverse opinioni sarà (dovrebbe essere) una sintesi di esse, che definirei come quella posizione che salva elementi di verità relativa, le buone ragioni, le intuizioni presenti in ciascuna tesi per comporre un mosaico il più possibile coerente, intelligibile e unitario.

È la cosiddetta unità del molteplice che viene a comporsi secondo la metodologia della parola, del concetto che si fa dialogo e comunicazione tra quanti appartengono ad una formazione politica, il cui obiettivo primario non può che essere il perseguimento e il mantenimento dell’unità interna, che è destinata a manifestarsi all’esterno del consesso e a darne una percezione più o meno calcata di unità e affidabilità pubblica.

Se questa unità interna, frutto di una sintesi alta, dovesse corrompersi e quindi rivelarsi effimera e di facciata, fragile e incostante, l’output del confronto interno sarebbe dato da una disarmonia che invano ha tentato di farsi unità durevole intorno agli organi rappresentativi.

Ciò che è disunito, disomogeneo, oscillante determina una perdita di consensi popolari e una crescente difficoltà a dar vita ad alleanze con altre formazioni politiche affini o meno distanti quanto ad idee, valori e programmi.

La disunione interna, inoltre, funziona come deterrente all’avvicinamento alla formazione politica di nuovi soggetti individuali e associativi, che quindi ne subisce un danno considerevole e difficilmente riparabile se non col passare del tempo e l’impostazione di nuove dinamiche interne funzionali alla coerenza e al consolidamento del gruppo.  

Se si perde il momento favorevole, si perde tutto, e bisogna ricominciare a tessere la tela.

In mancanza di una sintesi alta e che faccia salve in qualche modo le buone ragioni di tutti i portatori di tesi e antitesi; se il metodo del dialogo, anche protratto nel tempo e severo, non ha condotto a nulla di fattuale e concreto – giacché dobbiamo operare nella realtà concreta e non nel mondo iperuranico -, varrà il principio democratico del peso della maggioranza, espresso e verificato in modo palese e da tutti accettato quale regola e norma dirimente.

La maggioranza, tuttavia, non deve schiacciare la minoranza (dittatura della maggioranza), ma ricercare con essa intese percorribili anche solo parzialmente, cooptandola nell’assetto organizzativo e direttivo della formazione politica.

Le posizioni democratiche di maggioranza e minoranza coesistono col principio di unità, nel senso che esse non si contrappongono necessariamente tra loro, ma collaborano fedelmente tra loro per mantenere integra l’immagine del partito, quell’unità dei più comunque raggiunta per via del dialogo o per via di un voto espresso e consapevole. Se ciò non dovesse accadere, si formerebbero correnti di opposizione; la minoranza si tramuterebbe in preconcetta e ostile opposizione alla maggioranza, e correnti oligarchiche e elitarie farebbero a meno e ripudierebbero le dinamiche del confronto, detenendo tutto il potere interno.

Ma si delinea un altro rischio: che la minoranza, trasmutatasi in opposizione, decida di abbandonare la formazione politica e di dar vita ad un nuovo soggetto politico di contrasto, accrescendo i fenomeni del localismo, del particolarismo e della proliferazione delle liste civiche, specie oggi che gli ideali ispiratori delle grandi tradizioni politiche dell’Ottocento e del Novecento sono stati espunti sotto la massiccia ed eterodiretta pressione di un uso politico distorto e fazioso della giustizia (giustizialismo), che ha favorito taluni e processato altri, e l’ingresso nell’arena politica delle élite economiche e finanziarie che hanno anch’esse scalzato la politica, sostituendosi ad essa. Ma quando l’economia si sostituisce alla politica non fa della politica economica, fa ben altro: fa dell’economia uno strumento per la massimizzazione dei profitti delle élite economiche, emarginando le politiche sociali e salariali. Lo Stato, i cittadini passano in secondo piano, mentre l’economia dovrebbe essere al servizio della politica del valore umano e non viceversa.    

L’ideale consiste nella pura passione politica, nella lucida consapevolezza morale che essa è tanto una scienza quanto un’arte complessa e talvolta complicata in virtù del fatto che può ricondursi agli stamenti primordiali della pace e della guerra, sotto il profilo psicologico soggettivo all’io sano o all’ego belligerante. In questo senso, non posso non condividere la definizione che della commistione tra guerra e politica diede Karl VON CLAUSEWITZ (1780-1831): «La guerra non è soltanto un atto politico, ma un vero istrumento politico, una prosecuzione dell’attività politica, nella sua continuazione con altri mezzi». In altre parole, la politica sarebbe un surrogato della guerra, ovvero una guerra condotta con altri mezzi, senza spargimento di sangue ma di vittime, di vinti e vincitori.

Le vittorie, per chi conosce i rudimenti della politica in azione, non deve mai presentarsi come totale o totalizzante, schiacciante, così da tramutare il vinto in un implacabile e subdolo nemico; essa deve lasciare al vinto un discreto margine di azione e di movimento, qualche possibilità di manovra, di modo che resti avversario ma non nemico, e possa, date certe condizioni di dialogo, avvicinarsi gradualmente e progressivamente alle posizioni del vincitore fino a divenirne, in qualche caso, suo alleato.        

Si ricordi che è meglio avere accanto e poter esercitare qualche forma di controllo sul proprio avversario che tenerlo a distanza, di modo che se ne possano intuire le mosse, i tatticismi, i rapporti trasversali con altre parti politiche avverse, sulle quali, quindi, sarà possibile esercitare, a mezzo terzi, una qualche forma di sorveglianza per tutelarsi da eventuali insidie, trame e colpi bassi. Ciò accade perché nessuno o pochissimi, per orgoglio, presunzione o semplice stupidità, sa mantenere un segreto a lungo, conosce l’arte del silenzio e del tacere.

Il depositario di un segreto si sentirà legittimato dal suo orgoglio e dalla tentazione di ostentare un potere che in realtà non possiede a rivelare ciò che conosce. Tanto sarà sufficiente al vincitore per porre in essere strategie diversive e di annullamento delle azioni dei vinti e dei loro alleati esterni. Non solo. Attraverso il vinto/alleato avviene la diffusione di notizie false o parzialmente veritiere che determina un effetto domino. Questa è una modalità diversiva molto utilizzata nella vita politica.

Si rammenti un’altra lezione: il più delle volte il politico è, come nell’interpretazione dei sogni, come “un morto che parla”. La nostra voce popolare (è noto il detto “vox populi, vox Dei”) sostiene difatti che i morti, quando vengono in sogno, parlino “a doppio”, in altri termini evochino l’esatto contrario di ciò che potrebbe verificarsi nella vita reale. Ad esempio, se si sogna un proprio parente, vivo, che muore, gli si allunga la vita. Credenze popolari, miti, forse superstizioni o folleggi dell’inconscio.

Nel rapporto dialogico con l’altra parte o con coloro dei quali non ci si fida, può essere molto utile il ricorso ad uno stratagemma volto, per l’appunto, a testarne la fedeltà: elevare (rectius: far credere) l’altro a confidente esclusivo.

Vediamo come funziona in pratica questo stratagemma: A confida a B un fatto che si è inventato di sana pianta, avendo però l’accortezza di aggiungere di averlo confidato anche a C e D, i quali invece ne sono totalmente all’oscuro. A chiede a B di mantenere in ogni caso su di esso il più stretto riserbo. Orbene, se B è infedele, essendo stato messo a conoscenza che del fatto sono al corrente anche C e D, cadrà nel trabocchetto: rivelerà il fatto di cui A gli ha parlato, ritenendo in caso di sua divulgazione di poter ricorrere alla giustificazione di non essere stato lui il delatore, ma C o D, i quali, come ho detto, non sanno nulla. Ecco così smascherato senza ombra di dubbio un soggetto di cui non ci si può affatto fidare, ma che, all’occorrenza, potrebbe essere agevolmente strumentalizzato.

Di qui emerge il valore assoluto del silenzio misto a grande prudenza: ascoltare molto e parlare poco o semplicemente zittire come nel segreto confessionale o sigillo sacramentale (sigillum confessionis), le cui caratteristiche sono indicate nel Codice di Diritto Canonico: a) il sigillo proibisce al confessore di fare uso o avvalersi delle conoscenze acquisite; b) il sigillo proibisce a chi è costituito in autorità e ha avuto notizia dei peccati in una confessione […] di avvalersi di tale notizia in alcun modo per il governo esterno; c) la violazione diretta del sigillo sacramentale comporta la scomunica latae sententiae.        

Laicizzando l’argomento del sigillum confessionis, chi riceve la notizia o viene a conoscenza di un fatto su cui vige la massima riservatezza e lo divulga, dovrebbe essere “scomunicato”, cioè, con tutte le cautele del caso, allontanato dai centri decisionali, pur tenendo in debito conto quanto ho detto a proposito del nemico, il cui ruolo va in qualche modo degradato o depotenziato, ma che non andrebbe  emarginato del tutto perché ciò potrebbe rivelarsi politicamente rischioso.

Molti nemici, molto onore? Lo slogan mussoliniano funziona meno o non funziona affatto in un regime democratico. Esso ha una propria logica, una propria ragione d’essere soltanto in un contesto dittatoriale o tirannico, in cui il nemico viene soppresso, talvolta fisicamente, esiliato o messo nelle condizioni di non nuocere, senza contare l’apporto allo sviluppo del nemicismo offerto dalle numerose spie, che ottengono cospicui benefici, e l’azione pesantemente repressiva delle forze dell’ordine, nonché quella punitiva dei tribunali di regime, vale a dire non indipendenti dal potere, ma mere appendici giustizialiste di esso. 

In questo nostro tempo in cui si danno per acquisiti il pluralismo politico e la democrazia, forse sarebbe il caso di soffermarsi sulla possibilità che un regime formalmente democratico impercettibilmente, con passo felpato, ovvero attraverso forti spinte cosiddette populiste, si diriga verso una deriva pseudo-democratica se non autoritaria nella  sostanza.

La forma non può celare la sostanza per lunghi periodi, per cui progressivamente le istituzioni tenderanno a sposare le soluzioni autoritarie e a favorirle. Ma è necessaria una precisazione. Al termine populismo si è data una accezione negativa, per cui esso sarebbe un fenomeno degenerativo del popolarismo, inteso come dottrina che pone al centro delle politiche pubbliche i bisogni e le aspettative dei ceti popolari. Il popolarismo fu centrale nella vicenda storico-politica del Partito Popolare Italiano fondato da don Luigi Sturzo nel 1919, e poi in quella della Democrazia Cristiana di DE GASPERI, DOSSETTI, LA PIRA, FANFANI, MORO, per citarne alcuni tra gli esponenti più insigni.

Il popolarismo democristiano fu sostanzialmente centrista, sintesi di una visione della D.C. che Renato DELL’ANDRO, sindaco di Bari, parlamentare, sottosegretario e infine giudice della Corte costituzionale, avrebbe efficacemente sintetizzato nei seguenti termini: «Se essere di destra significa essere rispettosi delle leggi, tutori dell’ordine democratico, allora vuol dure che la D.C. è un partito di destra. Se essere di sinistra significa garantire lo sviluppo sociale, assicurare e salvaguardare la dignità della persona umana, andare incontro alle istanze sociali e popolari, allora vuol dire che la D.C. è un partito di sinistra. La verità è che la D.C. è un partito di centro, garante dello sviluppo complessivo della società nel rispetto delle leggi e dell’ordine democratico».     

La D.C., quindi, partito di centro, ma vincolato all’alleanza con le sinistre.

Quanto le sinistre, il P.C.I. alleato del PCUS, e i regimi comunisti abbiano favorito le istanze sociali e popolari, nonché la dignità della persona umana, è evidente a tutti, nel senso che essi hanno agito in una prospettiva rivoluzionaria,  liberticida e disumanizzante. Penso ai milioni di morti causati dai regimi comunisti. Ora, quando una formula politica sovrasta la verità dei fatti ed è, quindi, una sovrastruttura, il dato storico inoppugnabile e oggettivo, quella formula va cassata e sostituita da un’altra che sia rispettosa della verità dei fatti e dell’oggettivo dato storico. Per ciò non può esserci nessun tipo di incontro tra comunismo e democrazia e valori cristiani. Essi si contrappongono e si elidono a vicenda.

Vi è anche un popolarismo di sinistra, ma esso si coniuga, come la storia insegna, più con l’utopismo ed un estremismo che ne è la risultante, che assume spesso modalità violente e reazionarie. Delle forze di destra è una visione arcigna di popolarismo, che anch’esso si manifesta utopisticamente, secondo modalità peroniste, nonché con una certa dose di violenza verbale e non verbale.      

Aldo MORO ne era consapevole, riconoscendo che «agli antipodi del comunismo, ma come il comunismo, il Movimento sociale è nella democrazia, è nel Parlamento, sperimenta la vitalità della polemica delle idee, della rinuncia alla violenza, della fecondità dell’influenzare e del convincere, ma pensa ad altro, ha la mente rivolta ad altro» (dalla Relazione introduttiva al VII Congresso nazionale della D.C., Firenze, 24 ottobre 1959).

La sua parabola politica non si discostò dal centro-sinistra, fino al punto di spingersi alla costruzione di un governo di solidarietà nazionale col P.C.I. di Enrico BERLINGUER, il quale gli fu talmente riconoscente – se di riconoscenza può parlarsi in politica – da schierare, dopo l’agguato di via Mario Fani il 16 marzo 1978, il P.C.I. sulla linea della fermezza (rectius: della durezza) per coprirsi alla sua sinistra. Nessuna trattativa con le B.R. era possibile proprio in quanto anch’esse erano in ogni caso figlie dell’ideologia marxista-leninista, tant’è vero che molti compagni di quel tempo definivano eufemisticamente i brigatisti come “compagni che sbagliano”, non come terroristi e assassini. Soggetti erranti, quindi; figli degeneri, ma pur sempre compagni, termine che deriva dal latino medievale companio-onis, “colui che ha il pane in comune”, e quindi per estensione logico-interpretativa colui che è fatto della stessa pasta o che mangia lo stesso pane.    

La solidarietà nazionale, tuttavia, contemplava il coinvolgimento del P.C.I. nell’area della maggioranza parlamentare, non in quella di governo. MORO non si spinse fino al punto di ipotizzare un tale coinvolgimento, tenendo ben separati e distinti il P.C.I. e la D.C. Ciò nonostante, tale formula non fu gradita a Washington, a Mosca e ad altri paesi dell’Europa occidentale, sicché si presume che alla triste vicenda MORO abbiano preso parte anche i servizi segreti di talune potenze, come ad esempio la CIA o un suo segmento corrotto (Secret Team) utilizzato per le operazioni “sporche” (a tal proposito consiglio la lettura del libro di Paolo CUCCHIARELLI, edito per i tipi di Ponte alle Grazie nel 2018, “L’ultima notte di Aldo Moro”).   

L’operazione Moro, alias operazione Fritz, fu un complotto internazionale piuttosto che un’operazione “casereccia”, condotta e gestita dalle sole Brigate Rosse. Vi fu semmai una progressiva stratificazione di complottisti, con al primo stadio le B.R. e personaggi dei servizi segreti deviati che vi si erano infiltrati, italiani e non, con l’inserimento e la sovrapposizione, a questo primo strato, di altre entità interessate ad eliminare MORO perché personaggio scomodo e destabilizzante, che indicava la direzione di marcia alla D.C. sebbene il suo peso politico all’interno del partito non andasse oltre il 10%.

Non ho mai compreso fino in fondo perché MORO, nonostante i chiari segnali di desistere dall’apertura al P.C.I. che gli provenivano dagli Stati Uniti in particolare, non abbia scelto di optare per un’altra soluzione, per una via che potesse metterlo al riparo dalle annunciate ritorsioni contro la sua persona.

Ho già scritto che MORO si concepiva solo all’interno di un panorama politico di centro-sinistra e aveva chiuso alle destre. Ecco, perché, ad esempio, non aprire un confronto con le destre presenti in Parlamento? Non erano state anch’esse legittimate a rappresentare il popolo italiano? Giorgio ALMIRANTE sedeva in Parlamento a pieno titolo, essendovi stato eletto da una parte del corpo elettorale. Come mai questo tener duro nei confronti delle destre? Per ossequio alla teoria dell’arco costituzionale così come delineato dalle forze cielleniste? Perché fasciste o monarchiche?

Ma la ricostituzione del P.N.F. era ed è vietata dalla nostra Costituzione, per cui si sarebbe potuto almeno tentare di dialogare anche con le forze di destra, e ciò nell’ottica e nel rispetto della stessa matrice culturale dialogica morotea, senza l’ineluttabilità di aprire al P.C.I. in un contesto geopolitico sfavorevole a simile operazione. Le esclusioni che avvengono a prescindere dai contenuti conducono a fare scelte obbligate, ed esse a perseguire obiettivi di compromesso spesso confliggenti con i valori, gli ideali e le progettualità politiche e programmatiche di una formazione politica.

MORO temeva una sorta di revanscismo fascista dopo il governo TAMBRONI e l’azione di SEGNI? Riteneva che la destra missina potesse essere talmente forte da condizionare significativamente l’azione democratica della Democrazia Cristiana e scatenare un pericoloso conflitto politico permanente con le sinistre, con conseguenti moti di piazza, disordini, repressioni? Presto scopriremo l’arcano, ma questa è la tesi, ad esempio, di Corrado GUERZONI, collaboratore di MORO, che egli riporta nel suo libro intitolato “Aldo Moro”, edito da Sellerio nel 2008.

Forse, e sottolineo l’avverbio, vi erano negli anni Settanta più punti di contatto tra la D.C. e le destre parlamentari che non con il P.S.I. e con il Partito Comunista Italiano, gramsciano certo, ma fino ad un certo punto, piuttosto partito togliattianamente di lotta e di governo, un ossimoro che ne rivela la doppiezza di fondo.

Accadeva anche a Ruvo di Puglia che i comunisti sobillassero i contadini per il tramite della CGIL e li inviassero a protestare sotto il palazzo comunale per le più svariate ragioni, perché pioveva a dirotto o c’era afa e calura (ma cosa c’entrasse l’Amministrazione comunale con la meteorologia ad oggi non è stato reso noto), mentre nella sede istituzionale, anzi dietro le quinte, chiedevano favori e garanzie.

Ciò detto, molti provvedimenti dei governi a guida D.C. furono approvati anche col voto dei parlamentari di destra, ragion per cui a quei segnali di apertura e di dialogo, che taluni reputavano ingannevoli e subdoli, sarebbe stato doveroso rispondere con qualche forma di confronto costruttivo con quelle forze, invece di tenerle congelate sine die in ossequio al dogma dell’arco costituzionale e non a  quello, più spazioso e foriero di nuove possibilità e riscatti, dell’arco parlamentare.           

Quanto avrebbe fatto BERLUSCONI nel 1994, con Nino MARTINAZZOLI che ne rifiutò l’appoggio ed il sostegno politico, forse in ossequio alle medesime pregiudiziali ideologiche di certa sinistra interna cattocomunista, avrebbe potuto tentarlo MORO, con gradualità, andando in profondità alle questioni, sollecitando le destre ad una palingenesi democratica, e con tutte le accortezze del caso. Non lo fece e le conseguenze, in un contesto geopolitico segnato dal Trattato di Jalta, furono tragiche per lui, la sua famiglia, la Democrazia Cristiana, il paese. 

Mio padre mi diceva che MORO era piuttosto inflessibile. Se si era persuaso di intraprendere una certa via, non c’era modo di fargli cambiare idea. Dialogante, quindi, ma testardo, parzialmente malleabile, non manovrabile. 

Abbiamo detto che MORO riteneva che il M.S.I. pensasse ad altro, avesse la mente rivolta ad altro. In che cosa consisterebbe questo “altro” non si evince chiaramente. Forse il M.S.I. pensava alla instaurazione di una nuova dittatura? Ma questa ipotesi estrema e, ritengo, assai improbabile, sconfesserebbe le affermazioni di MORO sull’affidabilità democratica del Movimento Sociale Italiano. Si evince dal discorso tenuto a Firenze (vedi supra) che una maggioranza organica di centro-destra (il governo monocolore SEGNI era sostenuto da una maggioranza che comprendeva i liberali, i monarchici e i missini) avrebbe saldato «intorno al comunismo vecchie e nuove solidarietà», il che «porrebbe l’Italia alla mercé del comunismo e postulerebbe il ricorso alla dittatura di destra per salvare l’Italia dalla dittatura di sinistra».

Ecco spiegato il motivo per cui MORO riteneva impossibile l’incontro con le forze di destra.

Qui, forse, vi è una insuperabile pregiudiziale antifascista di MORO che ricadeva sul M.S.I. Le sue conclusioni su una dittatura di destra quale conseguenza di un pericolo comunista, francamente non mi convincono molto. C’è come una fuga in avanti di MORO, una forzatura, come un precostituire delle ragioni politiche ed ideologiche per giustificare il dialogo con talune forze di sinistra per arginare l’avanzata del P.C.I., del resto assai poco probabile, a mio modesto avviso, proprio in virtù dell’assetto geopolitico disegnato a Jalta nel febbraio 1945.

L’elogio del fenomeno della Resistenza al regime fascista, tuttavia, su cui si fonda la nostra Repubblica e la sua Carta costituzionale, non può far passare in secondo piano i crimini efferati compiuti dai resistenti, specie dai partigiani comunisti, alcuni esponenti dei quali furono fatti riparare dal P.C.I. in Cecoslovacchia per sottrarli alla giustizia italiana. In Cecoslovacchia, del resto, si formò il primo nucleo armato del fenomeno brigatista (si legga il testo di Rocco TURI, Storia segreta del PCI, Rubbettino, 2013).  

La stessa esecuzione di Benito MUSSOLINI, avvenuta il 28 aprile 1945 a Giulino, frazione dell’allora comune di Mezzegra, in provincia di Como, a colpi di arma da fuoco, insieme all’amante Claretta PETACCI, non fu atto di cui andare molto fieri, e men che meno il vilipendio del suo cadavere e di quelli della stessa PETACCI, di Nicola BOMBACCIAlessandro PAVOLINI e Achille STARACE a piazzale LoretoMilano il 29 aprile 1945.

Il 27 gennaio 1962 a Napoli, all’VIII Congresso della D.C., MORO avrebbe stabilizzato l’alleanza col P.S.I., pur contro i veti ecclesiastici, elevando ulteriormente una barriera nei confronti della destra e della sua politica, «della quale è altresì caratteristica un furioso, testardo, disperato disconoscimento della realtà delle cose, dei dati nuovi della storia umana, delle esigenze ormai irrefrenabili di dignità, di libertà, di giustizia, di progresso e di pace».

Sulla base di queste affermazioni dogmatiche ed aspirazioni, invece stranamente attribuite alla sinistra, MORO chiuse in via permanente e definitiva a qualsiasi ipotesi di dialogo e men che meno di alleanza con le destre: «[…] noi non abbiamo mai incontrato né crediamo di poter mai incontrare forze di destra».    

         Ma qui una digressione si impone, in quanto attinente al M.S.I. e non solo, in merito all’istituzione delle Regioni. Personalmente ritengo che vadano abolite le Regioni, non le Provincie, enti più prossimi al cittadino. Su questo tema Giorgio ALMIRANTE (1914-1988) «era stato sempre un accanito avversario dell’istituzione delle Regioni, nelle quali vedeva una non necessaria e ulteriore abdicazione da parte dello Stato alle proprie prerogative e ai propri poteri, un decentramento legislativo e amministrativo che non sarebbero serviti ad altro se non a sminuire l’autorità dello Stato centrale e ad aumentare esponenzialmente la spesa pubblica» (A. GRANDI, Almirante, Biografia di un fascista, Sperling & Kupfer, 2014).

         Come dargli torto? Le Regioni altro non sono che arche contenenti individui di cultura generalmente mediocre, che, lungi dal promuovere lo sviluppo regionale, sono fruitori di garanzie e indennità. Sarebbe stato molto meglio lasciare le Provincie, nate nel 1859 e confermate nel 1947 dai Padri Costituenti.

Se il repubblicano Ugo LA MALFA (1903-1979) sosteneva che il loro costo era alto, mentre le loro funzioni sempre più vuote di contenuto, cosa potremmo dire oggi del costo delle Regioni e delle loro funzioni? Nei primi undici mesi del 2014, il budget delle Regioni italiane per la voce di spesa era pari a 1,739 miliardi di euro, Una cifra da capogiro, sicuramente lievitata negli anni successivi.   

 

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