Secondo stadio: il confronto con
coloro che sono a noi prossimi.
È
la seconda fase della dinamica del confronto.
Prendiamo
ad esempio una formazione politica. Vi sarà un confronto interno, anche duro e
serrato, tra tesi e antitesi. L’esito delle diverse opinioni sarà (dovrebbe
essere) una sintesi di esse, che definirei come quella posizione che salva
elementi di verità relativa, le buone ragioni, le intuizioni presenti in
ciascuna tesi per comporre un mosaico il più possibile coerente, intelligibile
e unitario.
È
la cosiddetta unità del molteplice che viene a comporsi secondo la metodologia
della parola, del concetto che si fa dialogo e comunicazione tra quanti
appartengono ad una formazione politica, il cui obiettivo primario non può che
essere il perseguimento e il mantenimento dell’unità interna, che è destinata a
manifestarsi all’esterno del consesso e a darne una percezione più o meno
calcata di unità e affidabilità pubblica.
Se
questa unità interna, frutto di una sintesi alta, dovesse corrompersi e quindi
rivelarsi effimera e di facciata, fragile e incostante, l’output del confronto interno sarebbe dato da una disarmonia che
invano ha tentato di farsi unità durevole intorno agli organi rappresentativi.
Ciò
che è disunito, disomogeneo, oscillante determina una perdita di consensi
popolari e una crescente difficoltà a dar vita ad alleanze con altre formazioni
politiche affini o meno distanti quanto ad idee, valori e programmi.
La
disunione interna, inoltre, funziona come deterrente all’avvicinamento alla
formazione politica di nuovi soggetti individuali e associativi, che quindi ne
subisce un danno considerevole e difficilmente riparabile se non col passare
del tempo e l’impostazione di nuove dinamiche interne funzionali alla coerenza
e al consolidamento del gruppo.
Se
si perde il momento favorevole, si perde tutto, e bisogna ricominciare a
tessere la tela.
In
mancanza di una sintesi alta e che faccia salve in qualche modo le buone ragioni
di tutti i portatori di tesi e antitesi; se il metodo del dialogo, anche
protratto nel tempo e severo, non ha condotto a nulla di fattuale e concreto –
giacché dobbiamo operare nella realtà concreta e non nel mondo iperuranico -,
varrà il principio democratico del peso della maggioranza, espresso e
verificato in modo palese e da tutti accettato quale regola e norma dirimente.
La
maggioranza, tuttavia, non deve schiacciare la minoranza (dittatura della
maggioranza), ma ricercare con essa intese percorribili anche solo
parzialmente, cooptandola nell’assetto organizzativo e direttivo della
formazione politica.
Le
posizioni democratiche di maggioranza e minoranza coesistono col principio di
unità, nel senso che esse non si contrappongono necessariamente tra loro, ma
collaborano fedelmente tra loro per mantenere integra l’immagine del partito,
quell’unità dei più comunque raggiunta per via del dialogo o per via di un voto
espresso e consapevole. Se ciò non dovesse accadere, si formerebbero correnti
di opposizione; la minoranza si tramuterebbe in preconcetta e ostile
opposizione alla maggioranza, e correnti oligarchiche e elitarie farebbero a
meno e ripudierebbero le dinamiche del confronto, detenendo tutto il potere
interno.
Ma
si delinea un altro rischio: che la minoranza, trasmutatasi in opposizione,
decida di abbandonare la formazione politica e di dar vita ad un nuovo soggetto
politico di contrasto, accrescendo i fenomeni del localismo, del particolarismo
e della proliferazione delle liste civiche, specie oggi che gli ideali
ispiratori delle grandi tradizioni politiche dell’Ottocento e del Novecento
sono stati espunti sotto la massiccia ed eterodiretta pressione di un uso
politico distorto e fazioso della giustizia (giustizialismo), che ha favorito taluni e processato altri, e
l’ingresso nell’arena politica delle élite economiche e finanziarie che hanno
anch’esse scalzato la politica, sostituendosi ad essa. Ma quando l’economia si
sostituisce alla politica non fa della politica economica, fa ben altro: fa dell’economia
uno strumento per la massimizzazione dei profitti delle élite economiche,
emarginando le politiche sociali e salariali. Lo Stato, i cittadini passano in
secondo piano, mentre l’economia dovrebbe essere al servizio della politica del
valore umano e non viceversa.
L’ideale
consiste nella pura passione politica, nella lucida consapevolezza morale che
essa è tanto una scienza quanto un’arte complessa e talvolta complicata in
virtù del fatto che può ricondursi agli stamenti primordiali della pace e della
guerra, sotto il profilo psicologico soggettivo all’io sano o all’ego
belligerante. In questo senso, non posso non condividere la definizione che
della commistione tra guerra e politica diede Karl VON CLAUSEWITZ (1780-1831):
«La guerra non è soltanto un atto
politico, ma un vero istrumento politico, una prosecuzione dell’attività
politica, nella sua continuazione con altri mezzi». In altre parole, la
politica sarebbe un surrogato della guerra, ovvero una guerra condotta con
altri mezzi, senza spargimento di sangue ma di vittime, di vinti e vincitori.
Le
vittorie, per chi conosce i rudimenti della politica in azione, non deve mai
presentarsi come totale o totalizzante, schiacciante, così da tramutare il
vinto in un implacabile e subdolo nemico; essa deve lasciare al vinto un
discreto margine di azione e di movimento, qualche possibilità di manovra, di
modo che resti avversario ma non nemico, e possa, date certe condizioni di
dialogo, avvicinarsi gradualmente e progressivamente alle posizioni del vincitore
fino a divenirne, in qualche caso, suo alleato.
Si
ricordi che è meglio avere accanto e poter esercitare qualche forma di
controllo sul proprio avversario che tenerlo a distanza, di modo che se ne
possano intuire le mosse, i tatticismi, i rapporti trasversali con altre parti
politiche avverse, sulle quali, quindi, sarà possibile esercitare, a mezzo
terzi, una qualche forma di sorveglianza per tutelarsi da eventuali insidie,
trame e colpi bassi. Ciò accade perché nessuno o pochissimi, per orgoglio,
presunzione o semplice stupidità, sa mantenere un segreto a lungo, conosce
l’arte del silenzio e del tacere.
Il
depositario di un segreto si sentirà legittimato dal suo orgoglio e dalla
tentazione di ostentare un potere che in realtà non possiede a rivelare ciò che
conosce. Tanto sarà sufficiente al vincitore per porre in essere strategie
diversive e di annullamento delle azioni dei vinti e dei loro alleati esterni.
Non solo. Attraverso il vinto/alleato avviene la diffusione di notizie false o
parzialmente veritiere che determina un effetto
domino. Questa è una modalità diversiva molto utilizzata nella vita
politica.
Si
rammenti un’altra lezione: il più delle volte il politico è, come
nell’interpretazione dei sogni, come “un
morto che parla”. La nostra voce popolare (è noto il detto “vox populi, vox Dei”) sostiene difatti
che i morti, quando vengono in sogno, parlino “a doppio”, in altri termini evochino l’esatto contrario di ciò che
potrebbe verificarsi nella vita reale. Ad esempio, se si sogna un proprio
parente, vivo, che muore, gli si allunga la vita. Credenze popolari, miti,
forse superstizioni o folleggi dell’inconscio.
Nel
rapporto dialogico con l’altra parte o con coloro dei quali non ci si fida, può
essere molto utile il ricorso ad uno stratagemma volto, per l’appunto, a
testarne la fedeltà: elevare (rectius:
far credere) l’altro a confidente esclusivo.
Vediamo
come funziona in pratica questo stratagemma: A confida a B un fatto che si è
inventato di sana pianta, avendo però l’accortezza di aggiungere di averlo
confidato anche a C e D, i quali invece ne sono totalmente all’oscuro. A chiede
a B di mantenere in ogni caso su di esso il più stretto riserbo. Orbene, se B è
infedele, essendo stato messo a conoscenza che del fatto sono al corrente anche
C e D, cadrà nel trabocchetto: rivelerà il fatto di cui A gli ha parlato,
ritenendo in caso di sua divulgazione di poter ricorrere alla giustificazione
di non essere stato lui il delatore, ma C o D, i quali, come ho detto, non
sanno nulla. Ecco così smascherato senza ombra di dubbio un soggetto di cui non
ci si può affatto fidare, ma che, all’occorrenza, potrebbe essere agevolmente strumentalizzato.
Di
qui emerge il valore assoluto del silenzio misto a grande prudenza: ascoltare
molto e parlare poco o semplicemente zittire come nel segreto confessionale o
sigillo sacramentale (sigillum
confessionis), le cui caratteristiche sono indicate nel Codice di Diritto
Canonico: a) il sigillo proibisce al confessore di fare uso o avvalersi delle
conoscenze acquisite; b) il sigillo proibisce a chi è costituito in autorità e
ha avuto notizia dei peccati in una confessione […] di avvalersi di tale
notizia in alcun modo per il governo esterno; c) la violazione diretta del
sigillo sacramentale comporta la scomunica latae
sententiae.
Laicizzando
l’argomento del sigillum confessionis,
chi riceve la notizia o viene a conoscenza di un fatto su cui vige la massima
riservatezza e lo divulga, dovrebbe essere “scomunicato”, cioè, con tutte le
cautele del caso, allontanato dai centri decisionali, pur tenendo in debito
conto quanto ho detto a proposito del nemico, il cui ruolo va in qualche modo
degradato o depotenziato, ma che non andrebbe emarginato del tutto perché ciò potrebbe rivelarsi
politicamente rischioso.
Molti
nemici, molto onore? Lo slogan mussoliniano
funziona meno o non funziona affatto in un regime democratico. Esso ha una
propria logica, una propria ragione d’essere soltanto in un contesto
dittatoriale o tirannico, in cui il nemico viene soppresso, talvolta
fisicamente, esiliato o messo nelle condizioni di non nuocere, senza contare
l’apporto allo sviluppo del nemicismo
offerto dalle numerose spie, che ottengono cospicui benefici, e l’azione
pesantemente repressiva delle forze dell’ordine, nonché quella punitiva dei
tribunali di regime, vale a dire non indipendenti dal potere, ma mere appendici
giustizialiste di esso.
In
questo nostro tempo in cui si danno per acquisiti il pluralismo politico e la
democrazia, forse sarebbe il caso di soffermarsi sulla possibilità che un
regime formalmente democratico impercettibilmente, con passo felpato, ovvero
attraverso forti spinte cosiddette populiste,
si diriga verso una deriva pseudo-democratica se non autoritaria nella sostanza.
La
forma non può celare la sostanza per lunghi periodi, per cui progressivamente
le istituzioni tenderanno a sposare le soluzioni autoritarie e a favorirle. Ma
è necessaria una precisazione. Al termine populismo si è data una accezione
negativa, per cui esso sarebbe un fenomeno degenerativo del popolarismo, inteso
come dottrina che pone al centro delle politiche pubbliche i bisogni e le aspettative
dei ceti popolari. Il popolarismo fu centrale nella vicenda storico-politica
del Partito Popolare Italiano fondato da don Luigi Sturzo nel 1919, e poi in
quella della Democrazia Cristiana di DE GASPERI, DOSSETTI, LA PIRA, FANFANI, MORO,
per citarne alcuni tra gli esponenti più insigni.
Il
popolarismo democristiano fu sostanzialmente centrista, sintesi di una visione della D.C. che Renato DELL’ANDRO,
sindaco di Bari, parlamentare, sottosegretario e infine giudice della Corte
costituzionale, avrebbe efficacemente sintetizzato nei seguenti termini: «Se essere di destra significa essere
rispettosi delle leggi, tutori dell’ordine democratico, allora vuol dure che la
D.C. è un partito di destra. Se essere di sinistra significa garantire lo
sviluppo sociale, assicurare e salvaguardare la dignità della persona umana,
andare incontro alle istanze sociali e popolari, allora vuol dire che la D.C. è
un partito di sinistra. La verità è che la D.C. è un partito di centro, garante
dello sviluppo complessivo della società nel rispetto delle leggi e dell’ordine
democratico».
La
D.C., quindi, partito di centro, ma vincolato all’alleanza con le sinistre.
Quanto
le sinistre, il P.C.I. alleato del PCUS, e i regimi comunisti abbiano favorito
le istanze sociali e popolari, nonché la dignità della persona umana, è
evidente a tutti, nel senso che essi hanno agito in una prospettiva
rivoluzionaria, liberticida e
disumanizzante. Penso ai milioni di morti causati dai regimi comunisti. Ora, quando
una formula politica sovrasta la verità dei fatti ed è, quindi, una
sovrastruttura, il dato storico inoppugnabile e oggettivo, quella formula va
cassata e sostituita da un’altra che sia rispettosa della verità dei fatti e
dell’oggettivo dato storico. Per ciò non può esserci nessun tipo di incontro
tra comunismo e democrazia e valori cristiani. Essi si contrappongono e si
elidono a vicenda.
Vi
è anche un popolarismo di sinistra, ma esso si coniuga, come la storia insegna,
più con l’utopismo ed un estremismo che ne è la risultante, che assume spesso
modalità violente e reazionarie. Delle forze di destra è una visione arcigna di
popolarismo, che anch’esso si manifesta utopisticamente, secondo modalità
peroniste, nonché con una certa dose di violenza verbale e non verbale.
Aldo
MORO ne era consapevole, riconoscendo che «agli
antipodi del comunismo, ma come il comunismo, il Movimento sociale è nella
democrazia, è nel Parlamento, sperimenta la vitalità della polemica delle idee,
della rinuncia alla violenza, della fecondità dell’influenzare e del
convincere, ma pensa ad altro, ha la mente rivolta ad altro» (dalla Relazione
introduttiva al VII Congresso nazionale della D.C., Firenze, 24 ottobre 1959).
La
sua parabola politica non si discostò dal centro-sinistra, fino al punto di spingersi
alla costruzione di un governo di solidarietà nazionale col P.C.I. di Enrico
BERLINGUER, il quale gli fu talmente riconoscente – se di riconoscenza può
parlarsi in politica – da schierare, dopo l’agguato di via Mario Fani il 16
marzo 1978, il P.C.I. sulla linea della fermezza (rectius: della durezza)
per coprirsi alla sua sinistra. Nessuna trattativa con le B.R. era possibile
proprio in quanto anch’esse erano in ogni caso figlie dell’ideologia
marxista-leninista, tant’è vero che molti compagni di quel tempo definivano
eufemisticamente i brigatisti come “compagni
che sbagliano”, non come terroristi e assassini. Soggetti erranti, quindi;
figli degeneri, ma pur sempre compagni, termine che deriva dal latino medievale
companio-onis, “colui che ha il pane
in comune”, e quindi per estensione logico-interpretativa colui che è fatto
della stessa pasta o che mangia lo stesso pane.
La
solidarietà nazionale, tuttavia, contemplava il coinvolgimento del P.C.I.
nell’area della maggioranza parlamentare, non in quella di governo. MORO non si
spinse fino al punto di ipotizzare un tale coinvolgimento, tenendo ben separati
e distinti il P.C.I. e la D.C. Ciò nonostante, tale formula non fu gradita a
Washington, a Mosca e ad altri paesi dell’Europa occidentale, sicché si presume
che alla triste vicenda MORO abbiano preso parte anche i servizi segreti di
talune potenze, come ad esempio la CIA o un suo segmento corrotto (Secret Team)
utilizzato per le operazioni “sporche” (a tal proposito consiglio la lettura
del libro di Paolo CUCCHIARELLI, edito per i tipi di Ponte alle Grazie nel
2018, “L’ultima notte di Aldo Moro”).
L’operazione
Moro, alias operazione Fritz, fu un
complotto internazionale piuttosto che un’operazione “casereccia”, condotta e
gestita dalle sole Brigate Rosse. Vi fu semmai una progressiva stratificazione di complottisti, con al primo
stadio le B.R. e personaggi dei servizi segreti deviati che vi si erano
infiltrati, italiani e non, con l’inserimento e la sovrapposizione, a questo
primo strato, di altre entità interessate ad eliminare MORO perché personaggio
scomodo e destabilizzante, che indicava la direzione di marcia alla D.C.
sebbene il suo peso politico all’interno del partito non andasse oltre il 10%.
Non
ho mai compreso fino in fondo perché MORO, nonostante i chiari segnali di
desistere dall’apertura al P.C.I. che gli provenivano dagli Stati Uniti in
particolare, non abbia scelto di optare per un’altra soluzione, per una via che
potesse metterlo al riparo dalle annunciate ritorsioni contro la sua persona.
Ho
già scritto che MORO si concepiva solo all’interno di un panorama politico di
centro-sinistra e aveva chiuso alle destre. Ecco, perché, ad esempio, non
aprire un confronto con le destre presenti in Parlamento? Non erano state
anch’esse legittimate a rappresentare il popolo italiano? Giorgio ALMIRANTE sedeva
in Parlamento a pieno titolo, essendovi stato eletto da una parte del corpo
elettorale. Come mai questo tener duro nei confronti delle destre? Per ossequio
alla teoria dell’arco costituzionale così come delineato dalle forze
cielleniste? Perché fasciste o monarchiche?
Ma
la ricostituzione del P.N.F. era ed è vietata dalla nostra Costituzione, per
cui si sarebbe potuto almeno tentare di dialogare anche con le forze di destra,
e ciò nell’ottica e nel rispetto della stessa matrice culturale dialogica
morotea, senza l’ineluttabilità di aprire al P.C.I. in un contesto geopolitico
sfavorevole a simile operazione. Le esclusioni che avvengono a prescindere dai
contenuti conducono a fare scelte obbligate, ed esse a perseguire obiettivi di
compromesso spesso confliggenti con i valori, gli ideali e le progettualità
politiche e programmatiche di una formazione politica.
MORO
temeva una sorta di revanscismo fascista dopo il governo TAMBRONI e l’azione di
SEGNI? Riteneva che la destra missina potesse essere talmente forte da
condizionare significativamente l’azione democratica della Democrazia Cristiana
e scatenare un pericoloso conflitto politico permanente con le sinistre, con
conseguenti moti di piazza, disordini, repressioni? Presto scopriremo l’arcano,
ma questa è la tesi, ad esempio, di Corrado GUERZONI, collaboratore di MORO,
che egli riporta nel suo libro intitolato “Aldo
Moro”, edito da Sellerio nel 2008.
Forse,
e sottolineo l’avverbio, vi erano negli anni Settanta più punti di contatto tra
la D.C. e le destre parlamentari che non con il P.S.I. e con il Partito
Comunista Italiano, gramsciano certo, ma fino ad un certo punto, piuttosto
partito togliattianamente di lotta e di governo, un ossimoro che ne rivela la
doppiezza di fondo.
Accadeva
anche a Ruvo di Puglia che i comunisti sobillassero i contadini per il tramite
della CGIL e li inviassero a protestare sotto il palazzo comunale per le più
svariate ragioni, perché pioveva a dirotto o c’era afa e calura (ma cosa
c’entrasse l’Amministrazione comunale con la meteorologia ad oggi non è stato
reso noto), mentre nella sede istituzionale, anzi dietro le quinte, chiedevano
favori e garanzie.
Ciò
detto, molti provvedimenti dei governi a guida D.C. furono approvati anche col
voto dei parlamentari di destra, ragion per cui a quei segnali di apertura e di
dialogo, che taluni reputavano ingannevoli e subdoli, sarebbe stato doveroso
rispondere con qualche forma di confronto costruttivo con quelle forze, invece
di tenerle congelate sine die in
ossequio al dogma dell’arco
costituzionale e non a quello, più
spazioso e foriero di nuove possibilità e riscatti, dell’arco parlamentare.
Quanto
avrebbe fatto BERLUSCONI nel 1994, con Nino MARTINAZZOLI che ne rifiutò
l’appoggio ed il sostegno politico, forse in ossequio alle medesime
pregiudiziali ideologiche di certa sinistra interna cattocomunista, avrebbe
potuto tentarlo MORO, con gradualità, andando in profondità alle questioni,
sollecitando le destre ad una palingenesi
democratica, e con tutte le accortezze del caso. Non lo fece e le
conseguenze, in un contesto geopolitico segnato dal Trattato di Jalta, furono
tragiche per lui, la sua famiglia, la Democrazia Cristiana, il paese.
Mio
padre mi diceva che MORO era piuttosto inflessibile. Se si era persuaso di
intraprendere una certa via, non c’era modo di fargli cambiare idea.
Dialogante, quindi, ma testardo, parzialmente malleabile, non manovrabile.
Abbiamo
detto che MORO riteneva che il M.S.I. pensasse ad altro, avesse la mente
rivolta ad altro. In che cosa consisterebbe questo “altro” non si evince
chiaramente. Forse il M.S.I. pensava alla instaurazione di una nuova dittatura?
Ma questa ipotesi estrema e, ritengo, assai improbabile, sconfesserebbe le
affermazioni di MORO sull’affidabilità democratica del Movimento Sociale
Italiano. Si evince dal discorso tenuto a Firenze (vedi supra) che una maggioranza organica di centro-destra (il governo
monocolore SEGNI era sostenuto da una maggioranza che comprendeva i liberali, i
monarchici e i missini) avrebbe saldato «intorno
al comunismo vecchie e nuove solidarietà», il che «porrebbe l’Italia alla mercé del comunismo e postulerebbe il ricorso
alla dittatura di destra per salvare l’Italia dalla dittatura di sinistra».
Ecco
spiegato il motivo per cui MORO riteneva impossibile l’incontro con le forze di
destra.
Qui,
forse, vi è una insuperabile pregiudiziale antifascista di MORO che ricadeva
sul M.S.I. Le sue conclusioni su una dittatura di destra quale conseguenza di
un pericolo comunista, francamente non mi convincono molto. C’è come una fuga
in avanti di MORO, una forzatura, come un precostituire delle ragioni politiche
ed ideologiche per giustificare il dialogo con talune forze di sinistra per
arginare l’avanzata del P.C.I., del resto assai poco probabile, a mio modesto
avviso, proprio in virtù dell’assetto geopolitico disegnato a Jalta nel
febbraio 1945.
L’elogio
del fenomeno della Resistenza al regime fascista, tuttavia, su cui si fonda la
nostra Repubblica e la sua Carta costituzionale, non può far passare in secondo
piano i crimini efferati compiuti dai resistenti, specie dai partigiani
comunisti, alcuni esponenti dei quali furono fatti riparare dal P.C.I. in
Cecoslovacchia per sottrarli alla giustizia italiana. In Cecoslovacchia, del
resto, si formò il primo nucleo armato del fenomeno brigatista (si legga il
testo di Rocco TURI, Storia segreta del
PCI, Rubbettino, 2013).
La
stessa esecuzione di Benito MUSSOLINI, avvenuta il 28 aprile 1945 a Giulino,
frazione dell’allora comune di Mezzegra,
in provincia di Como, a colpi di arma da fuoco,
insieme all’amante Claretta PETACCI,
non fu atto di cui andare molto fieri, e men che meno il vilipendio del suo
cadavere e di quelli della stessa PETACCI, di Nicola BOMBACCI, Alessandro PAVOLINI e Achille STARACE a piazzale Loreto
a Milano il
29 aprile 1945.
Il
27 gennaio 1962 a Napoli, all’VIII Congresso della D.C., MORO avrebbe
stabilizzato l’alleanza col P.S.I., pur contro i veti ecclesiastici, elevando
ulteriormente una barriera nei confronti della destra e della sua politica, «della quale è altresì caratteristica un
furioso, testardo, disperato disconoscimento della realtà delle cose, dei dati
nuovi della storia umana, delle esigenze ormai irrefrenabili di dignità, di
libertà, di giustizia, di progresso e di pace».
Sulla base di queste
affermazioni dogmatiche ed aspirazioni, invece stranamente attribuite alla
sinistra, MORO chiuse in via permanente e definitiva a qualsiasi ipotesi di
dialogo e men che meno di alleanza con le destre: «[…] noi non abbiamo mai incontrato né crediamo di poter mai incontrare
forze di destra».
Ma qui una digressione si impone, in
quanto attinente al M.S.I. e non solo, in merito all’istituzione delle Regioni.
Personalmente ritengo che vadano abolite le Regioni, non le Provincie, enti più
prossimi al cittadino. Su questo tema Giorgio ALMIRANTE (1914-1988) «era stato sempre un accanito avversario
dell’istituzione delle Regioni, nelle quali vedeva una non necessaria e
ulteriore abdicazione da parte dello Stato alle proprie prerogative e ai propri
poteri, un decentramento legislativo e amministrativo che non sarebbero serviti
ad altro se non a sminuire l’autorità dello Stato centrale e ad aumentare
esponenzialmente la spesa pubblica» (A. GRANDI, Almirante, Biografia di un fascista, Sperling & Kupfer, 2014).
Come dargli torto? Le Regioni altro non
sono che arche contenenti individui di cultura generalmente mediocre, che,
lungi dal promuovere lo sviluppo regionale, sono fruitori di garanzie e
indennità. Sarebbe stato molto meglio lasciare le Provincie, nate nel 1859 e
confermate nel 1947 dai Padri Costituenti.
Se
il repubblicano Ugo LA MALFA (1903-1979) sosteneva che il loro costo era alto,
mentre le loro funzioni sempre più vuote di contenuto, cosa potremmo dire oggi
del costo delle Regioni e delle loro funzioni? Nei primi undici mesi del 2014,
il budget delle Regioni italiane per la voce di spesa era pari a 1,739 miliardi
di euro, Una cifra da capogiro, sicuramente lievitata negli anni
successivi.
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