INTRODUZIONE
Siamo
nel lontano 1978.
Entro
nell’agone politico, seguendo le orme paterne, dopo la barbara soppressione di
Aldo Moro. Mi iscrivo alla Democrazia Cristiana, aderendo alla corrente
morotea. Dopo qualche anno divento componente del direttivo sezionale.
Avevo 17 anni, essendo nato a Ruvo di
Puglia il 23 agosto 1961 in via San Francesco d’Assisi dall’unione tra mio
padre Giovanni Giuseppe Antonio e mia madre Caterina Sorice, venuta alla luce a
Tripoli, in Libia, il 4 aprile 1935. Sono il primogenito. Ho un fratello,
Cataldo Renato, nato nel 1964, e una sorella, Anna Maria, nata nel 1969. Siamo
cresciuti in via Santa Barbara, dove molti anni addietro, a pochi passi dalla
nostra abitazione, sorgeva un mulino.
Mio padre era di origini ruvesi. Vi
nacque il 17 marzo 1930, terzo di quattro figli maschi (Michele, Francesco e
Vincenzo), nati dal connubio tra mio nonno Salvatore, mugnaio, e mia nonna
Filomena, rinomata sarta da donna.
La passione per la politica nelle fila
della Democrazia Cristiana colse presto mio padre, che intanto studiava presso
il magistrale di Molfetta, raggiungendolo ogni giorno a piedi giacché non vi
erano possibilità economiche. Molfetta dista da Ruvo circa 15 chilometri e mi
riesce difficile immaginare mio padre che percorre a piedi tutto quel tratto di
strada, sotto il sole o sotto la pioggia, come un viandante medievale o un
cercatore di Dio.
Sono
figlio di altri tempi e di altre stagioni. Provengo da una famiglia di umili
origini, lavoratrice, timorata di Dio.
Gli
anni Sessanta e Settanta del secolo scorso sono stati fantastici, bellissimi!
Non soltanto perché ero adolescente, ma in quanto fluttuavano odori e fragranze,
cose, oggetti, luci, suoni, gusti e valori che oggi non sento più, non scorgo
più, non respiro più.
È
come se fossero scomparsi da questi luoghi che comunque conservano tuttora
l’attaccamento ad alcune antiche tradizioni popolari e religiose: la festa
dell’Ottavario del Corpus Domini a giugno e quella dei SS. Medici Cosma e
Damiano a settembre, i riti e le suggestive processioni pasquali.
Eppure,
a volte, quando sono in pace con me stesso e la mente è calma e spaziosa, mi
sembra di risentire quegli effluvi, di rivedere i carretti dei contadini
parcheggiati per le vie cittadine, monumenti mobili ai lavoratori dei campi. O
forse è solo uno scherzo mancino della memoria se quel panorama di odori, luci,
suoni, cose, colori accesi e genuini
sapori si muovono delicatamente nella mia anima e, rievocandoli, li rende
presenti e vivi.
E
mi sento vivo anche per questo potere straordinario della memoria di
trasmettere al cuore impulsi di vita fresca e dolce.
Sono
quindi legato alla mia storia, alle mie origini, ai volti e alle cose che
vissi, agli occhi celesti di mio padre, al timbro suadente della sua voce,
all’arte di mia madre, anch’ella sarta da donna. Così come era valente nel
cucire, così era saggia nell’amministrare la casa, nell’economia domestica, e
nel vegliare su di noi. Siamo stati protetti dal loro amore e lo saremo per
sempre.
Mia
madre è ancora in vita, per mia fortuna, essendo scapolo o single, come si dice
oggi per indorare la pillola, per mia scelta o per mia colpa o per la forza del
destino.
Si
lamenta spesso per i dolori fisici e anche per quelli dell’anima: senectus ipsa est morbus (P. Terenzio
AFRO), cioè la vecchiaia è per sé stessa una malattia.
Vissuta
in Sicilia, ad Aci Trezza, ha patito la fame e gli stenti con mia nonna
Venerina ed i suoi due fratelli, Mimmo e Gaetano, il primo morto prematuramente
a causa di un incidente stradale a Roma. Per tale ragione, sebbene non mangi
che una fettina di pane, esso non deve mai mancare in casa e sulla tavola. Il
pane per lei rappresenta la vita ed una forma di riscatto psicologico rispetto
a quei tempi bui e di carestia.
Mio
nonno Cataldo, suo padre, fu fatto prigioniero degli americani e deportato
negli States. Siccome sapeva cucinare divinamente, lo assegnarono alla mensa
degli ufficiali, e da quel luogo colmo di ogni bendidio inviava pacchi di cibo
alla volta della Sicilia, i quali però solo raramente giungevano a
destinazione. E così mia madre percorreva allegramente e spensieratamente (i
poveri non sanno di avere bisogni superflui o anche necessari) i tratturi delle
campagne sicule per raccogliere fichi d’india e qualcosa che fosse
commestibile, come le carrube. Spesso si portava al porticciolo del paese e
riusciva ad ottenere dai pescatori una manciata di pesce. Sotto i bombardamenti
degli aerei americani, silenti, impauriti
e nascosti in grotte al passaggio dei nazisti, fu testimone oculare
dell’uccisione di un sacerdote da parte di costoro. Una vicenda che non avrebbe
mai dimenticato e che trascina con sé, anche oggi che l’età e gli acciacchi non
le consentono di camminare speditamente e di uscire.
Oggi
è un susseguirsi di ricordi e di oblii, di domande sul passato e sul presente,
di vuoti di memoria, di parole ripetute o non comprese, di occhi lucidi e di
quei dolori dell’anima che si rinnovano e per i quali non vi è rimedio alcuno,
semmai acutizzati da vicende familiari dolorose che non possono che accettarsi.
Anche nella mia famiglia, che pensavo immune da certe situazioni, ci si divide
e ci si separa. Certo, dov’è la novità? Di cosa dovrei meravigliarmi? Sono
vicende di desolante attualità, per cui nessuno vi dà più peso o si preoccupa
più di tanto. E noi, in fondo, non siamo diversi dagli altri esseri umani.
È
giusto – si osserva – separarsi quando l’amore declina e muore, e così va in
frantumi la nostra concezione del matrimonio come patto indissolubile contratto
dinanzi a Dio. L’uomo osa dividere ciò che Dio ha unito. La debolezza, la
precarietà e la relatività di idee e visioni di cui ci siamo nutriti in
gioventù, che erano poste a fondamento dell’ordine sociale e morale, fanno sì
che ci si adegui alla realtà senza più esprimere una critica o un richiamo
all’ordine interiore, nella consapevolezza che la pace, tanto ambita, è la
tranquillità dell’ordine.
Si
desidera la felicità. Si ambisce alla serenità. Ci si divide credendo che la
divisione possa essere il modo per ritrovare serenità e felicità, quindi unità.
Così
non è.
Vi
è una contraddizione insanabile, giacché nessuna divisione dà la felicità o la
serenità, anzi accentua il malessere e il disordine interiori che si
manifesteranno a tempo debito e quando meno ce lo si aspetta.
Ma
andiamo a lambire qualche argomento di natura politica.
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