giovedì 30 luglio 2020

IL CONFRONTO CON SE STESSI


IL CONFRONTO

All’inizio c’è un’idea, una questione, un problema di carattere pubblico, che attiene cioè alle politiche pubbliche, che richiede un confronto, che è composto da diverse fasi o stadi.
Il primo stadio del confronto è quello con sé stessi.
Occorrono la conoscenza della problematica ed un approccio plurale, multilivello o multidisciplinare. Entrano nel campo dell’analisi le convinzioni personali, le convenzioni sociali che pure influenzano le convinzioni individuali, i pre-giudizi, gli approfondimenti della tematica anche dal punto di vista etico, condotti sulla base di studi specifici e di colloqui con persone sagge e competenti, dotate di equilibrio e amanti del bene comune, scevre da interessi egoistici, moralmente sane. È molto raro trovare persone con codeste virtù e qualità morali, civili e intellettuali e che godano di generale e buona reputazione. Se qualcuno di esse vi è, non indugiate a salire e scendere le scale di casa sua anche più volte al giorno.
Mai affidarsi, prima di addentrarsi nel confronto con sé medesimi, al consiglio dei novizi, degli improvvisatori o dei millantatori, i quali sostengono di sapere ma che in realtà non sanno nulla. Costoro sanno di non sapere, ma si spacciano per sapienti, causando gravi e durevoli turbative, travisamento dei fatti, superficialità e dubbi, tortuosità concettuali che incrementano la confusione che regna nelle nostre società avanzate eppure così carenti di sapienza nelle sue due connotazioni: a) la sapienza del cuore (sapientia cordis); b) la sapienza della mente (sapientia mentis). Esse sono unite inestricabilmente.
Ma chi è il sapiente, il saggio? È colui che è andato alla fonte della questione, che ha risalito la corrente, che è sceso agli inferi di sé per poi tornare in sé dopo un lungo e doloroso lavoro di scavo, potature interiori, disinfestazioni e bonifiche dei pensieri, combattimenti spirituali contro il male in tutte le sue forme e manifestazioni, affinché emergesse e si imponesse quell’umiltà che si contrappone al peccato primordiale della superbia, dell’orgoglio.
La superbia è la madre del narcisismo cattivo, fondato sul risucchiamento degli altri in sé, sull’incorporazione degli altri in sé, sulla loro fagocitazione. Gli altri, in termini diversi, sono io; essi sono il riflesso dei miei pensieri e delle mie azioni, così che non vi sia spazio per il rispecchiamento dei loro volti, unici e irripetibili, in me.
Io solo sono, gli altri sono immagine di me. Ma, mentre io sono perfetto, gli altri non lo sono affatto.
Questa visione patologica conduce progressivamente a forme di chiusura alla vita sempre più marcate, fino al totale avvitamento su sé stessi e, quindi, al rinnegamento e al rigetto delle relazioni interpersonali e sociali costruttive. È una modalità suicidaria piuttosto frequente nella stagione della bellezza effimera: l’estetica del sé ha sotterrato e superato il vero e sano concetto di bellezza e di etica.
Vi è anche un narcisismo buono. Esso rafforza l’io senza spezzare i vincoli che lo legano, nella reciproca libertà, ad un tu, ad un noi comunitario. Le persone restano persone da me distinte; esse non sono la mia proiezione, ma rientrano nel concetto di umanità plurale, che è ricchezza nella molteplice diversità dell’intendere e del sentire.
Avere una esatta consapevolezza di sé e un moderato rapporto con lo specchio favoriscono l’evoluzione della parte spirituale e animica della persona, tenendola al riparo da fenomeni nevrotici, oggi così diffusi che potrei parlare di pandemia della nevrosi o di nevrosi di massa.   
Avere una mia precisa identità; avere una personalità che non fa dei miei simili uno specchio distorcente della mia persona; riconoscermi esattamente come uomo, quindi come creatura limitata e fallibile, capace di compiere tanto il bene quanto il male, ricettacolo di vizi e di virtù, cumulo indistinto di grano e zizzania, mi rende membro sereno di una comunità di persone a cui sento totalmente di appartenere così come sono nella mia realtà intima, giacché la vita si vive più dentro che fuori di noi.
Nessun cedimento al nichilismo dilagante, che è la morte dell’anima, quindi della propria vera identità umana, filosofia della lenta agonia umana, dell’eutanasia; nessun rovesciamento dei valori umani a seconda delle circostanze e delle correnti; nessuno smottamento al relativismo etico e al sincretismo, fenomeni degenerativi rivenienti dall’annuncio urbi et orbi della morte del Dio cristiano, dallo scientismo e dal positivismo illuminista e materialista (comunista e post-comunista) che fa della ragione l’ente supremo che non si sposa con le esigenze dello spirito e le ragioni della fede, tutte liberatorie per l’essere umano che si indìa, che cioè le accoglie nelle parole e negli esempi del Cristo.  
Se eliminassimo la Bibbia, se abbattessimo le chiese per costruire case, che cosa diverrebbe l’uomo? Finirebbe ogni umanesimo, compresi gli umanesimi non cristiani che pure, che lo si riconosca o no, discendono da quell’umanesimo, dal Cristo, senza il quale nulla sarebbe comprensibile.  
Scrive bene Etienne GILSON: «Sarebbe la non esistenza di Dio, non la sua esistenza, a darci dei problemi irresolubili di logica e di ragione».

CONSIGLI AI POLITICI PARTE 1 - HORTATIONES AD HOMINES IN RE PUBLICA EXERCITATOS

INTRODUZIONE

Siamo nel lontano 1978.
Entro nell’agone politico, seguendo le orme paterne, dopo la barbara soppressione di Aldo Moro. Mi iscrivo alla Democrazia Cristiana, aderendo alla corrente morotea. Dopo qualche anno divento componente del direttivo sezionale.  
         Avevo 17 anni, essendo nato a Ruvo di Puglia il 23 agosto 1961 in via San Francesco d’Assisi dall’unione tra mio padre Giovanni Giuseppe Antonio e mia madre Caterina Sorice, venuta alla luce a Tripoli, in Libia, il 4 aprile 1935. Sono il primogenito. Ho un fratello, Cataldo Renato, nato nel 1964, e una sorella, Anna Maria, nata nel 1969. Siamo cresciuti in via Santa Barbara, dove molti anni addietro, a pochi passi dalla nostra abitazione, sorgeva un mulino.
         Mio padre era di origini ruvesi. Vi nacque il 17 marzo 1930, terzo di quattro figli maschi (Michele, Francesco e Vincenzo), nati dal connubio tra mio nonno Salvatore, mugnaio, e mia nonna Filomena, rinomata sarta da donna.
         La passione per la politica nelle fila della Democrazia Cristiana colse presto mio padre, che intanto studiava presso il magistrale di Molfetta, raggiungendolo ogni giorno a piedi giacché non vi erano possibilità economiche. Molfetta dista da Ruvo circa 15 chilometri e mi riesce difficile immaginare mio padre che percorre a piedi tutto quel tratto di strada, sotto il sole o sotto la pioggia, come un viandante medievale o un cercatore di Dio.
Sono figlio di altri tempi e di altre stagioni. Provengo da una famiglia di umili origini, lavoratrice, timorata di Dio.
Gli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso sono stati fantastici, bellissimi! Non soltanto perché ero adolescente, ma in quanto fluttuavano odori e fragranze, cose, oggetti, luci, suoni, gusti e valori che oggi non sento più, non scorgo più, non respiro più.
È come se fossero scomparsi da questi luoghi che comunque conservano tuttora l’attaccamento ad alcune antiche tradizioni popolari e religiose: la festa dell’Ottavario del Corpus Domini a giugno e quella dei SS. Medici Cosma e Damiano a settembre, i riti e le suggestive processioni pasquali.
Eppure, a volte, quando sono in pace con me stesso e la mente è calma e spaziosa, mi sembra di risentire quegli effluvi, di rivedere i carretti dei contadini parcheggiati per le vie cittadine, monumenti mobili ai lavoratori dei campi. O forse è solo uno scherzo mancino della memoria se quel panorama di odori, luci, suoni, cose, colori accesi e  genuini sapori si muovono delicatamente nella mia anima e, rievocandoli, li rende presenti e vivi.
E mi sento vivo anche per questo potere straordinario della memoria di trasmettere al cuore impulsi di vita fresca e dolce.
Sono quindi legato alla mia storia, alle mie origini, ai volti e alle cose che vissi, agli occhi celesti di mio padre, al timbro suadente della sua voce, all’arte di mia madre, anch’ella sarta da donna. Così come era valente nel cucire, così era saggia nell’amministrare la casa, nell’economia domestica, e nel vegliare su di noi. Siamo stati protetti dal loro amore e lo saremo per sempre.
Mia madre è ancora in vita, per mia fortuna, essendo scapolo o single, come si dice oggi per indorare la pillola, per mia scelta o per mia colpa o per la forza del destino.
Si lamenta spesso per i dolori fisici e anche per quelli dell’anima: senectus ipsa est morbus (P. Terenzio AFRO), cioè la vecchiaia è per sé stessa una malattia.
Vissuta in Sicilia, ad Aci Trezza, ha patito la fame e gli stenti con mia nonna Venerina ed i suoi due fratelli, Mimmo e Gaetano, il primo morto prematuramente a causa di un incidente stradale a Roma. Per tale ragione, sebbene non mangi che una fettina di pane, esso non deve mai mancare in casa e sulla tavola. Il pane per lei rappresenta la vita ed una forma di riscatto psicologico rispetto a quei tempi bui e di carestia.
Mio nonno Cataldo, suo padre, fu fatto prigioniero degli americani e deportato negli States. Siccome sapeva cucinare divinamente, lo assegnarono alla mensa degli ufficiali, e da quel luogo colmo di ogni bendidio inviava pacchi di cibo alla volta della Sicilia, i quali però solo raramente giungevano a destinazione. E così mia madre percorreva allegramente e spensieratamente (i poveri non sanno di avere bisogni superflui o anche necessari) i tratturi delle campagne sicule per raccogliere fichi d’india e qualcosa che fosse commestibile, come le carrube. Spesso si portava al porticciolo del paese e riusciva ad ottenere dai pescatori una manciata di pesce. Sotto i bombardamenti degli aerei americani, silenti, impauriti  e nascosti in grotte al passaggio dei nazisti, fu testimone oculare dell’uccisione di un sacerdote da parte di costoro. Una vicenda che non avrebbe mai dimenticato e che trascina con sé, anche oggi che l’età e gli acciacchi non le consentono di camminare speditamente e di uscire.
Oggi è un susseguirsi di ricordi e di oblii, di domande sul passato e sul presente, di vuoti di memoria, di parole ripetute o non comprese, di occhi lucidi e di quei dolori dell’anima che si rinnovano e per i quali non vi è rimedio alcuno, semmai acutizzati da vicende familiari dolorose che non possono che accettarsi. Anche nella mia famiglia, che pensavo immune da certe situazioni, ci si divide e ci si separa. Certo, dov’è la novità? Di cosa dovrei meravigliarmi? Sono vicende di desolante attualità, per cui nessuno vi dà più peso o si preoccupa più di tanto. E noi, in fondo, non siamo diversi dagli altri esseri umani.
È giusto – si osserva – separarsi quando l’amore declina e muore, e così va in frantumi la nostra concezione del matrimonio come patto indissolubile contratto dinanzi a Dio. L’uomo osa dividere ciò che Dio ha unito. La debolezza, la precarietà e la relatività di idee e visioni di cui ci siamo nutriti in gioventù, che erano poste a fondamento dell’ordine sociale e morale, fanno sì che ci si adegui alla realtà senza più esprimere una critica o un richiamo all’ordine interiore, nella consapevolezza che la pace, tanto ambita, è la tranquillità dell’ordine.
Si desidera la felicità. Si ambisce alla serenità. Ci si divide credendo che la divisione possa essere il modo per ritrovare serenità e felicità, quindi unità.
Così non è.  
Vi è una contraddizione insanabile, giacché nessuna divisione dà la felicità o la serenità, anzi accentua il malessere e il disordine interiori che si manifesteranno a tempo debito e quando meno ce lo si aspetta.   
Ma andiamo a lambire qualche argomento di natura politica.