IL
CONFRONTO
All’inizio
c’è un’idea, una questione, un problema di carattere pubblico, che attiene cioè
alle politiche pubbliche, che richiede un confronto, che è composto da diverse
fasi o stadi.
Il primo stadio del confronto è
quello con sé stessi.
Occorrono
la conoscenza della problematica ed un approccio plurale, multilivello o
multidisciplinare. Entrano nel campo dell’analisi le convinzioni personali, le
convenzioni sociali che pure influenzano le convinzioni individuali, i
pre-giudizi, gli approfondimenti della tematica anche dal punto di vista etico,
condotti sulla base di studi specifici e di colloqui con persone sagge e competenti,
dotate di equilibrio e amanti del bene comune, scevre da interessi egoistici,
moralmente sane. È molto raro trovare persone con codeste virtù e qualità
morali, civili e intellettuali e che godano di generale e buona reputazione. Se
qualcuno di esse vi è, non indugiate a salire e scendere le scale di casa sua
anche più volte al giorno.
Mai
affidarsi, prima di addentrarsi nel confronto con sé medesimi, al consiglio dei
novizi, degli improvvisatori o dei millantatori, i quali sostengono di sapere
ma che in realtà non sanno nulla. Costoro sanno di non sapere, ma si spacciano
per sapienti, causando gravi e durevoli turbative, travisamento dei fatti,
superficialità e dubbi, tortuosità concettuali che incrementano la confusione
che regna nelle nostre società avanzate eppure così carenti di sapienza nelle
sue due connotazioni: a) la sapienza del cuore (sapientia cordis); b) la sapienza della mente (sapientia mentis). Esse sono unite inestricabilmente.
Ma
chi è il sapiente, il saggio? È colui che è andato alla fonte della questione,
che ha risalito la corrente, che è sceso agli inferi di sé per poi tornare in
sé dopo un lungo e doloroso lavoro di scavo, potature interiori,
disinfestazioni e bonifiche dei pensieri, combattimenti spirituali contro il
male in tutte le sue forme e manifestazioni, affinché emergesse e si imponesse
quell’umiltà che si contrappone al peccato primordiale della superbia,
dell’orgoglio.
La
superbia è la madre del narcisismo cattivo, fondato sul risucchiamento degli
altri in sé, sull’incorporazione degli altri in sé, sulla loro fagocitazione.
Gli altri, in termini diversi, sono io; essi sono il riflesso dei miei pensieri
e delle mie azioni, così che non vi sia spazio per il rispecchiamento dei loro
volti, unici e irripetibili, in me.
Io
solo sono, gli altri sono immagine di me. Ma, mentre io sono perfetto, gli
altri non lo sono affatto.
Questa
visione patologica conduce progressivamente a forme di chiusura alla vita
sempre più marcate, fino al totale avvitamento su sé stessi e, quindi, al
rinnegamento e al rigetto delle relazioni interpersonali e sociali costruttive.
È una modalità suicidaria piuttosto frequente nella stagione della bellezza
effimera: l’estetica del sé ha sotterrato e superato il vero e sano concetto di
bellezza e di etica.
Vi
è anche un narcisismo buono. Esso rafforza l’io senza spezzare i vincoli che lo
legano, nella reciproca libertà, ad un tu, ad un noi comunitario. Le persone
restano persone da me distinte; esse non sono la mia proiezione, ma rientrano
nel concetto di umanità plurale, che è ricchezza nella molteplice diversità
dell’intendere e del sentire.
Avere
una esatta consapevolezza di sé e un moderato rapporto con lo specchio
favoriscono l’evoluzione della parte spirituale e animica della persona,
tenendola al riparo da fenomeni nevrotici, oggi così diffusi che potrei parlare
di pandemia della nevrosi o di nevrosi di massa.
Avere
una mia precisa identità; avere una personalità che non fa dei miei simili uno
specchio distorcente della mia persona; riconoscermi esattamente come uomo,
quindi come creatura limitata e fallibile, capace di compiere tanto il bene
quanto il male, ricettacolo di vizi e di virtù, cumulo indistinto di grano e
zizzania, mi rende membro sereno di una comunità di persone a cui sento
totalmente di appartenere così come sono nella mia realtà intima, giacché la
vita si vive più dentro che fuori di noi.
Nessun
cedimento al nichilismo dilagante,
che è la morte dell’anima, quindi della propria vera identità umana, filosofia
della lenta agonia umana, dell’eutanasia; nessun rovesciamento dei valori umani
a seconda delle circostanze e delle correnti; nessuno smottamento al
relativismo etico e al sincretismo, fenomeni degenerativi rivenienti
dall’annuncio urbi et orbi della
morte del Dio cristiano, dallo scientismo e dal positivismo illuminista e
materialista (comunista e post-comunista) che fa della ragione l’ente supremo
che non si sposa con le esigenze dello spirito e le ragioni della fede, tutte
liberatorie per l’essere umano che si indìa, che cioè le accoglie nelle parole
e negli esempi del Cristo.
Se
eliminassimo la Bibbia, se abbattessimo le chiese per costruire case, che cosa
diverrebbe l’uomo? Finirebbe ogni umanesimo, compresi gli umanesimi non cristiani
che pure, che lo si riconosca o no, discendono da quell’umanesimo, dal Cristo,
senza il quale nulla sarebbe comprensibile.
Scrive
bene Etienne GILSON: «Sarebbe la non
esistenza di Dio, non la sua esistenza, a darci dei problemi irresolubili di
logica e di ragione».