Gentile Direttore,
premetto di essere stato allevato politicamente alla scuola di Aldo Moro fin da diciassettenne, quando entrai a far parte del Movimento Giovanile della D.C. Mio padre ne fu un seguace della prima ora, apprezzandone le qualità politiche, culturali ed umane, non disgiunte dalla testimonianza cristiana, tenace e sincera, emersa anche nei giorni terribili della sua detenzione nella prigione del popolo delle Brigate Rosse. Con mia madre furono a casa sua, in via dei Fori Trionfali a Roma, orami molti anni fa. Mi descrissero una casa senza sfarzi, comune, ed una famiglia semplice ed accogliente. Nel mio studio, accanto alla mia scrivania, vi è una foto di Moro a Ruvo dei primi anni ’70 del precedente secolo. Gli sono accanto Trisorio Liuzzi, Francesco Anselmi, indimenticato segretario politico della D.C., l’on. Laforgia, che ho avuto il piacere di rivedere qualche giorno addietro. Alle sue spalle si scorgono l’on. Dell’Andro e uno degli uomini della sua scorta, Oreste Leonardi, che sarà trucidato quel terribile 16 marzo 1978 in via Fani.
Quando rileggo i suoi scritti e discorsi, mi accorgo di quale capacità di analisi della situazione politica vi fosse in lui, della sua visione lungimirante e, per molti versi, profetica. Descritto, anche in un recente libro di Pansa, “I Cari estinti”, come involuto ed incomprensibile, Moro in realtà aveva una sottile e complessa dialettica, non già per gusto intellettualoide o per confondere le acque, ma perché l’esercizio del pensare e del riflettere è complesso, non è affatto agevole. Complesso sì, quindi, ma non complicato. La realtà, specie quella odierna, è variegata ed articolata; la politica, che è esercizio di realismo, ne rispecchia l’articolazione, la complessità dei rapporti e delle relazioni, degli interessi e delle istanze. Ma c’era in lui anche l’utopia come prefigurazione di una nuova fase storica e sociale, che andava affrancandosi da zavorre e pesi ereditati dal passato. Le sue riflessioni sul ’68 – che non fu tutto rose e fiori - non furono trancianti o reclamanti un ritorno all’ordine e alla severità, spesso di facciata, di un mondo ormai tramontato, che sopravviveva in determinate sacche della società italiana, ma aperte al confronto, attente ai segni dei tempi, che andavano letti e decifrati con intelligenza e spirito libero ed aperto.
Moro non fu un passatista né un conservatore. Semplicemente perché il cristiano non può esserlo, in quanto figlio di Colui che fa nuove tutte le cose. E con Ruvo Moro ebbe un rapporto molto stretto, che si rinnovava ad ogni tornata elettorale e tutte le volte che il paese necessitava di interventi per sollevarsi dal punto di vista economico. Sarebbe lunghissimo l’elenco delle opere pubbliche realizzate grazie al suo interessamento.
Ma Ruvo fa fatica a ricordarlo pubblicamente, come pare abbia dimenticato un altro suo grande benefattore, il sen. Onofrio Jannuzzi. Mi rammarica constatare che parti politiche che dovrebbero mantenerne vivo il ricordo e l’insegnamento abbiano fatto passare sotto silenzio il 9 maggio, in cui si commemorano Moro e tutte le vittime del terrorismo, comprese quelle del terrore mafioso come il siciliano Peppino Impastato, ucciso lo stesso giorno in cui fu assassinato Moro. Mi rammarica per una semplice ragione, perché i giovani, specie coloro che intendessero occuparsi di politica, saranno sempre più privi di punti di riferimento culturali e morali, incalzati dai vaniloqui della attuale classe politica nazionale che, tranne poche eccezioni, non offre uno spettacolo particolarmente edificante, o meglio uno show con veline, corruttori ed escort. Ricordare Aldo Moro, Salvemini, Tommaso Fiore, Berlinguer ed altri, con opportune manifestazioni, non è esercizio di retorica o sfoggio di vecchiume e dell’argenteria di famiglia, tanto per darle una lucidata, ma un momento di riflessione sui contenuti della politica e della vita, su cosa significhi fare politica al servizio delle persone e delle comunità. Senza cultura, ci diceva Renato Dell’Andro, non c’è politica. C’è solo improvvisazione e goffaggine, azioni scoordinate e senza respiro.
Caro Direttore, è uno sfogo sommesso che affido a lei e alla folta platea di Ruvo live, certo di interpretare il pensiero e la perplessità di molti iscritti ai partiti del centrosinistra ruvese, che mi hanno accostato e con i quali ho lungamente parlato. La mia speranza è che si comprenda che soltanto arieggiando le nostre radici culturali sarà possibile favorire un reale cambiamento, in senso più umano e civile, della politica, tanto a livello locale che nazionale.
Gradisca i miei ossequi.
(Lettera a ruvolive e ruvodipugliaweb)
mercoledì 12 maggio 2010
domenica 9 maggio 2010
Don Tonino Bello, amante di Cristo ed amico degli uomini
Diciassette anni fa, il 20 aprile 1993, Don Tonino spirava, lasciando segni indelebili del suo passaggio su questa terra di Puglia e nella Chiesa diocesana e non solo. Il suo insegnamento non sta tanto nelle sue parole, leggere ed incisive come poesie, quanto nei suoi gesti ed atti, nel suo comportamento, autentiche testimonianze dell’amore di Cristo per i poveri, gli ultimi, i dimenticati, gli oppressi dalle tante strutture di peccato che soffocano l’uomo e ne uccidono la speranza nell’avvento di un tempo isaitico, tempo di pace, di eclissi definitiva del male, di esaltazione del bene e del bello, di vittoria della paternità e della maternità di Dio sugli escamotage e gli inganni dell’Anticristo, il quale ordisce soffocanti reticoli di morte.
Don Tonino fu difensore della vita umana, attore e protagonista di battaglie per il lavoro, per la risurrezione dei giovani abbindolati dalle lusinghe delle droghe, che danno piacere senza benessere e poi dolori infiniti, per la difesa del territorio pugliese dall’occupazione manu militari con aerei e testate mortifere. Fu propugnatore di politiche dal volto umano, misericordiose, rivolgendo ai politici molti (ed inascoltati) appelli a prendersi cura delle città e delle parti più deboli e ferite di esse.
Si rivolse ai suoi sacerdoti con la tenerezza di un padre, invitandoli ad abbracciare la povertà evangelica in vista della ricchezza inestimabile del regno di Dio, a disfarsi di ritualismi senza anima per condividere la ferialità del quotidiano, per scendere a testa alta nelle piazze e nelle strade non per fare opera di proselitismo, ma per operare il bene, dal quale scaturiscono credibilità, fiducia, fede e rinnovato desiderio di Dio.
La nuova evangelizzazione di don Tonino verteva sulla veridicità della testimonianza personale. Evangelizzare, in altre parole, vuol dire essere cristiani piuttosto che dirsi cristiani, secondo la penetrante riflessione del cardinale Tettamanzi. Fedele interprete del Concilio Vaticano II, avrebbe tradotto sul piano pastorale le attese e le speranze da esso suscitate, quella nuova primavera punteggiata di freschezza, pulizia, carità, apertura al mondo di cui sono portatori sani gli uomini e le donne permeati dalla forza dello Spirito Santo che, se accolto, fa nuove tutte le cose. Senza dimenticare quanto sta scuotendo la Chiesa, chiamata a purificarsi e a convertirsi per le miserie di pochi che vengono spacciate come mancanze di una moltitudine, con don Tonino, memori del suo messaggio e dei suoi gesti, siamo chiamati ad interpretare una diversità che non è mai lontananza dalle cose del mondo, ma lievito e fermento di una coscienza rinnovata e sensibile, refrattaria all’egoismo, che interpella gli animi ed i cuori di chi è alla ricerca della verità e di un senso da dare alla propria vita.
Salvatore Bernocco - Fermento Maggio 2010
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